LA RECENSIONE DI MARINA – LA RAGAZZA DEL TRENO di Tate Taylor

schermata-2016-04-20-alle-13-07-02TITOLO: LA RAGAZZA DEL TRENO; REGIA: Tate Taylor; genere: thriller; anno: 2016; paese: USA; cast: Emily Blunt, Haley Bennett, Rebecca Ferguson; durata: 111′

Nelle sale italiane dal 3 novembre, La ragazza del treno – tratto dall’omonimo romanzo di Paula Hawkins – è l’ultimo lungometraggio diretto da Tate Taylor, che già si è rivelato apprezzato regista nel recente The Help.

Rachel è una giovane donna che, ogni mattina, si reca in treno a New York per lavoro. Devastata dal recente divorzio, è solita osservare dal finestrino una coppia apparentemente felice. Tutto cambia quando, una mattina, vede qualcosa che la sconvolge. Da lì in poi verrà coinvolta in un caso misterioso che, ben presto, si rivelerà molto più grande di lei.

the-girl-on-the-train-2016-movie-still-2Un film sul vedere, questo di Tate Taylor. Un film in cui osservare e venire osservati porta ad importanti conseguenze. Dagli sguardi, infatti, di dipana la vicenda che vede implicate tre giovani donne, le quali ci vengono presentate inizialmente quasi come delle estranee, ognuna con la propria vita, ma che, in realtà, hanno molte più cose che le accomunano di quanto si possa pensare. Nulla è come sembra in apparenza, in La ragazza del treno i ruoli si ribaltano continuamente.

Tema centrale: la donna. La donna forte e fragile allo stesso tempo. La moglie, l’amante, la madre. E le violenze contro di lei. Lo script parte inizialmente da un’idea brillante ed accattivante, ma, purtroppo, peccando forse un po’ troppo di presunzione e di prevedibilità, non riesce a mantenere la tensione ed i ritmi giusti fino alla fine. Peccato. Soprattutto perché il lungometraggio di Taylor ha fin dall’inizio la capacità di catalizzare l’attenzione dello spettatore rendendo quest’ultimo a sua volta partecipe osservatore, analogamente a quanto accade alla protagonista.

Girl on a Train, TheVere peculiarità del lungometraggio sono le ambientazioni – una periferia americana in cui ci si sente terribilmente soli che si contrappone a brevi scorci della vita frenetica nella vicina metropoli – e, soprattutto, la grande prova attoriale regalataci da Emily Blunt, nel ruolo, appunto, della protagonista. Pur dando vita ad una donna alcolizzata, sofferente e con importanti vuoti di memoria, la Blunt è riuscita a mantenere la tensione fino alla fine, evitando il pericoloso errore di andare sopra le righe.

Malgrado le pecche della sceneggiatura e le potenzialità non sfruttate a dovere, non possiamo negare di trovarci davanti ad un thriller tutto sommato godibile e con una buona regia. Un prodotto che, malgrado le intenzioni iniziali, forse resterà in mente soprattutto per le tre donne protagoniste e per la loro buona caratterizzazione. Cosa, questa, non da poco.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

EVENTO SPECIALE – HOSTILE di Nathan Ambrosioni

Cinema : HOSTILETITOLO: HOSTILE; REGIA: Nathan Ambrosioni; genere: horror; anno: 2016; paese: Francia; cast: Shelley Ward, Julie Venturelli, Luna Belan; durata: 90′

Nelle sale italiane dal 31 ottobre al 2 novembre, Hostile è l’opera prima del giovanissimo regista francese Nathan Ambrosioni.

Anna ed Emilie sono due giovani sorelle orfane che vengono adottate dalla benestante Meredith Langston. Inizialmente tutto sembra andare per il meglio, ma, dopo pochi giorni, le tre donne iniziano a vedere una misteriosa presenza in casa. Le ragazze sembrano stare al gioco e Meredith, spaventata dai loro comportamenti decide di chiedere aiuto a S. O. S. Adoption, un programma TV che segue i bambini durante il periodo di adattamento presso le famiglie adottive.

Fin da subito notiamo che Hostile è, prima di tutto, un film citazionista. Molti, infatti, sono i riferimenti a pellicole come The Blair Witch Project (per quanto riguarda l’uso frequente di camera a mano e riprese amatoriali), The conjuring (la coppia di coniugi esperti del paranormale) e L’esorcista (per quanto riguarda il tema delle possessioni demoniache). Eppure, nonostante la giovanissima età del regista (solo 14 anni), il lungometraggio in questione una propria identità ce l’ha eccome.

hostile_movie_nathan_ambrosioni_french_horror_filmcourage_1Certo, è chiaro che non poche sono le imperfezioni all’interno del prodotto: una maldestra direzione attoriale, personaggi che vengono abbandonati a sé stessi (in particolare i due reporter televisivi), o anche situazioni poco credibili (sembra strano, infatti, che due reporter debbano addirittura trasferirsi a casa delle famiglie da loro seguite o che ad occuparsi di fenomeni paranormali siano due psicologi). Nonostante tutto, però, il giovane Nathan Ambrosioni ha senza dubbio dimostrato di avere carattere, oltre ad un grande amore per la Settima Arte. Le suddette imperfezioni, d’altronde, sono senz’altro frutto di poca esperienza in materia, quindi del tutto naturali e prevedibili. Qualche maligno potrebbe addirittura affermare che – nonostante, appunto, la giovane età e nonostante il fatto che Hostile sie un’opera prima – Ambrosioni è riuscito nella sua impresa molto meglio di chi fa questo lavoro da anni. Ma, ovviamente, non vogliamo, in questo contesto, aprire eventuali dibattiti in merito.

Come già è stato detto, Hostile si presenta come un piccolo ma sentito film, come un’operazione cinefila ed onesta, che non può che far sperare in interessanti lavori futuri dello stesso Ambrosioni. Per il momento, però, non resta che approfittare di questi pochi giorni per entrare appieno nell’atmosfera di Halloween.

VOTO. 6/10

Marina Pavido

11° FESTA DEL CINEMA DI ROMA – PREMI E CONCLUSIONI

festa-del-cinema-di-roma-con-roberto-benigni-e-meryl-streep-cetnkE così, anche quest’anno siamo giunti al termine della Festa del Cinema di Roma, tenutasi – come di consuetudine – presso l’Auditorium Parco della Musica.

Molti film presentati in anteprima, pochi i titoli di punta e qualche piacevole sorpresa. In linea di massima, la selezione si è rivelata leggermente al di sotto delle aspettative, ma, tuttavia, l’affluenza da parte del pubblico è stata notevole, soprattutto per quanto riguarda gli incontri con Tom Hanks (a cui è stata dedicata una retrospettiva), Meryl Streep (protagonista di Florence Foster Jenkins, diretto da Stephen Frears) e Viggo Mortensen (presente in Capitain Fantastic, diretto da Matt Ross).

Per quanto riguarda i premi assegnati, proprio a Capitain Fantastic è da poco stato conferito il BNL People’s Choice Award, mentre, all’interno della rassegna Alice nella Città, il Premio al Miglior Film è andato a Kicks di Justin Tipping, mentre il Premio TAODUE Camera d’Oro è stato conferito a Little Wing, della regista finlandese Selma Vilhunen.

Prima di darvi appuntamento al prossimo anno con una nuova edizione della Festa del Cinema di Roma, vi segnaliamo, di seguito, alcuni dei film che maggiormente hanno soddisfatto le aspettative, molti dei quali verranno distribuiti in sala. Vi consigliamo di non perderli!

INTO THE INFERNO – Werner Herzog

AFTERIMAGE – Andrzej Waijda

LA TORTUE ROUGE – Michael Dudok De Wit

LOUISE EN HIVER – Jean-François Laguionie

THE LAST LAUGH – Ferne Pearlstein

MANCHESTER BY THE SEA – Kenneth Lonergan

TRAIN TO BUSAN – Sang-ho Yeon

HELL OR HIGH WATER – David Mackenzie

Il nostro speciale sulla Festa del Cinema di Roma termina qui. Molti nuovi titoli, però, stanno per uscire in sala. Continuate numerosi ad andare al cinema e a farvi rapire da quella magia che solo il grande schermo sa regalare. Buon Cinema a tutti!

Marina Pavido

11° FESTA DEL CINEMA DI ROMA – FRITZ LANG di Gordian Maugg

c-belle-epoque-fotograf-tim-fulda-%ef%80%a2-fritz-lang-hTITOLO: FRITZ LANG; REGIA: Gordian Maugg; genere: drammatico, biografico; anno: 2016; paese: Germania; cast: Heino Ferch, Thomas Thieme, Samuel Finzi; durata: 104′

Presentato in anteprima – all’interno della Selezione Ufficiale – all’11° Festa del Cinema di Roma, Fritz Lang, diretto dal regista tedesco Gordian Maugg, è incentrato sul periodo antecedente la lavorazione di uno dei più grandi capolavori del regista, nonché colonna portante del cinema espressionista: M – Il mostro di Düsseldorf.

Un pericoloso serial killer viene, finalmente, arrestato. Il regista Fritz Lang è inizialmente curioso di capire cosa abbia spinto l’uomo a commettere tutti quei delitti. In seguito ad alcuni loro incontri, però, inizierà anche a ripensare al suo passato e, in qualche modo, riuscirà a trovare non pochi punti in comune con l’uomo stesso. Dalle loro conversazioni prenderà vita, successivamente, la sceneggiatura di M – Il mostro di Düsseldorf.

Quali sono le sensazioni che si hanno durante e dopo la visione di Fritz Lang? Dunque, ripercorrendo velocemente con la mente le varie tappe della messa in scena, dovrebbero essere nell’ordine: incredulità, rabbia, sconforto, ilarità, rassegnazione, sonno e di nuovo rabbia. Ecco, il lungometraggio di Maugg trasmette proprio questo. E non perché la storia raccontata sia talmente coinvolgente da farci vivere così tante emozioni. Al contrario, chiunque abbia avuto l’occasione di innamorarsi del cinema di Lang, ha qui l’impressione di trovarsi di fronte ad una vera e propria profanazione. Soprattutto se ci si accorge della furbizia con cui una simile operazione è stata portata a termine, dal momento che un biopic su una figura di tale portata di certo andrà ad attirare un buon numero di spettatori, cinefili e non.

Prima ancora di vedere qualsiasi immagine, ma limitandosi soltanto ad ascoltare – fissando lo schermo nero – il motivetto fischiettato continuamente da Peter Lorre in M, le speranze di assistere ad un lavoro come si deve sono ancora in piedi. Bastano pochi minuti, però, per rendersi conto di avere davanti un prodotto altamente manierista e pretenzioso, le cui scene di maggiore potenza sono proprio filmati di repertorio o spezzoni del film originale di Lang montati sulla paccottiglia piatta e dai ritmi discontinui girata da Maugg. Facile così. Soprattutto quando si vuol creare un finale d’effetto con Peter Lorre che recita il suo monologo durante l’ultima sequenza di M. Come già detto, però, al di là della riuscita messa in scena da un punto di vista prettamente tecnico, quel che maggiormente rende Fritz Lang un lungometraggio urticante è la grande presunzione alla base di tutto.

Partendo dal presupposto che cercare di comprendere una figura complessa come quella di Lang – soprattutto se la si osserva in luce di alcuni avvenimenti di natura oscura (primo fra tutti, il suicidio della giovane moglie)accaduti durante la gioventù – non è compito facile, nel caso in cui si volesse approfondire un particolare momento della vita del regista, ci sarebbe talmente tanto da raccontare che, al di là della forma di messa in scena preferita, di certo potrebbe venirne fuori qualcosa di interessante. Ecco, a quanto pare Gordian Maugg – probabilmente talmente ansioso di creare a tutti i costi qualcosa di “rivoluzionario” – è riuscito in tutto e per tutto a dare vita a quanto di peggio si possa produrre. Il Fritz Lang qui raccontato è un violento, cocainomane e maniaco del sesso. Sembra ossessionato da qualsiasi cosa, fatta eccezione per il cinema stesso, a cui non viene fatto il benché minimo riferimento durante tutto il lungometraggio. Il suo personaggio viene talmente caricato da essere trattato involontariamente – a un certo punto – quasi alla stregua di una macchietta e perdendo totalmente di credibilità. Da ricordare – a questo proposito – la vera e propria scena madre del film, ossia quando vediamo Lang camminare da solo nel bosco e, di punto in bianco, prendere a sparare in aria all’impazzata. A questo punto, al pubblico – già fortemente provato da oltre un’ora di visione – non resta che lasciarsi andare – più per inerzia che per altro – a qualche stanca risata.

Tanto rumore per nulla, in pratica. Eppure, anche volendosi solo soffermare sul periodo antecedente la lavorazione di M, ci sarebbe talmente tanto da raccontare che i 104 minuti qui impiegati sarebbero fin troppo pochi. Basti pensare soltanto alle tematiche del film stesso, alla forte critica nei confronti della società, alla denuncia di quel “nazismo latente” che avrebbe visto, da lì a pochi anni, la nascita della dittatura vera e propria. Invece no. Gordian Maugg non racconta nulla di tutto ciò, impegnato com’è a dare vita a tutti i costi ad un Fritz Lang disturbato e disturbante come quello presentatoci in questa sua opera. E pensare che, anche solo volendosi concentrare sull’uomo piuttosto che sul cineasta, un bel documentario in merito, ad esempio, avrebbe avuto di sicuro una migliore riuscita. Ma, si sa, la presunzione, spesso e volentieri, gioca dei gran brutti scherzi.

VOTO: 3/10

Marina Pavido

11° FESTA DEL CINEMA DI ROMA – LA CAJA VACIA di Claudia Sainte-Luce

emptybox_01TITOLO: LA CAJA VACIA; REGIA: Claudia Sainte-Luce; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Messico, Francia; cast: Claudia Sainte-Luce, Jimmy Jean Louis Pablo Sigal; durata: 101′

Presentato in anteprima – all’interno della Selezione Ufficiale – all’11° Festa del Cinema di Roma, La caja vacia è l’ultimo lungometraggio diretto dalla giovane regista messicana Claudia Sainte-Luce, che, in questa sua opera, affronta il non facile tema della perdita della memoria.

Dopo anni di assenza, Toussaint – sessantenne haitiano – si trasferisce a Città del Messico a casa della figlia Jazmin. I rapporti tra i due non sono mai stati buoni, ma la convivenza forzata aiuterà l’uomo ad elaborare il suo passato, mentre sua figlia riuscirà, in qualche modo, a perdonarlo.

La particolare struttura narrativa adottata – all’interno della quale sono presenti frequenti flashback e scene oniriche – è, forse, l’elemento più interessante che caratterizza il lungometraggio. Continui salti tra il passato ed il presente, senza stacchi cromatici per quanto riguarda la fotografia, trascinano fin da subito lo spettatore in un loop senza fine. Non vi è alcuna spiegazione clinica, non si scade mai in un eccesso di didascalismo, semplicemente la malattia la si vive. E lo si fa in modo del tutto naturale, entrando direttamente nella mente del protagonista. Interessante, a questo proposito, la scelta di mostrare il protagonista anziano persino durante i momenti ambientati durante la sua infanzia.

Analogamente al tema della malattia, anche il rapporto padre-figlia viene approfondito a dovere. Sia per quanto riguarda le conseguenze che l’infanzia problematica di Jazmin ha avuto sul suo presente (la difficoltà ad avere una relazione matura), sia per il senso di colpa vissuto – durante i ricordi – dallo stesso Toussaint.

Ed ecco che ci troviamo di fronte a due elementi fondamentali: il senso di colpa e la memoria. Cosa, o meglio, chi ci ricordano queste due costanti? Ovviamente, non possiamo non pensare alla filmografia d Christopher Nolan, il quale ha fatto di queste due tematiche quasi il marchio di fabbrica delle sue opere. Ovviamente, in La caja vacia tutto è trattato in modo più “soft”, meno contorto e con meno salti spazio-temporali. Nonostante le numerose scene oniriche, infatti, essenziali e senza fronzoli sono le scelte registiche adottate, insieme ad una fotografia decisamente sobria e dai colori tenui, all’interno della quale grande spazio hanno – soprattutto per quanto riguarda gli interni – le ombre, simbolo, appunto, dei buchi nella memoria del protagonista.

Le uniche pecche di questo lungometraggio della Sainte-Luce sono sporadici momenti “morti”, in cui la narrazione sembra non andare avanti e, al contrario, sembra diventare eccessivamente ripetitiva. Questa non sempre azzeccata gestione dei tempi viene affiancata anche da qualche pericolosa caduta di stile, la peggiore delle quali avviene, senza dubbio, alla fine del film, quando – dopo il suicidio di Toussaint – vediamo quest’ultimo apparire sullo schermo del televisore a casa di Jazmin, come se avesse voluto dare un ultimo saluto alla figlia.

Detto questo, ci troviamo comunque di fronte ad un’opera piccola ma interessante. Soprattutto per una messa in scena della malattia semplice e complessa, articolata ed essenziale allo stesso tempo. Risultato, questo, molto più difficile da ottenere di quanto si possa inizialmente pensare.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

11° FESTA DEL CINEMA DI ROMA – MARIA PER ROMA di Karen Di Porto

maria-per-roma-film-2016TITOLO: MARIA PER ROMA; REGIA: Karen Di Porto; genere: commedia; anno: 2016; paese: Italia; cast: Karen Di Porto, Andrea Planamente, Cyro Rossi; durata: 93′

Presentato in anteprima – all’interno della Selezione Ufficiale – all’11° Festa del Cinema di Roma, Maria per Roma è l’opera prima della regista Karen Di Porto, che in questo film, oltre ad aver scritto la sceneggiatura, interpreta anche il ruolo della protagonista.

Maria è una giovane donna che vive in un monolocale insieme alla sua cagnolina Bea. Il suo sogno di sempre è diventare attrice, ma, per arrivare a fine mese, lavora – tra un provino e l’altro – come key holder presso un’agenzia che affitta appartamenti di lusso ai turisti. Dalla mattina alla sera la sua vita è una corsa continua. Sullo sfondo, la città di Roma, vera e propria coprotagonista della pellicola.

Leggendo la trama è molto probabile che questa opera prima della Di Porto possa apparire interessante. Magari già sentita e risentita, ma comunque potenzialmente interessante, quello sì. Qualsiasi aspettativa, però, viene purtroppo delusa già dalla prima scena, in cui vediamo la protagonista da bambina intenta a parlare di denaro con il proprio padre, il quale, venendo a sapere che la sera prima le era stata offerta una semplice pizza, le regala – a sua volta – un prezioso insegnamento per il futuro dicendole: “Nella vita nessuno deve mai regalarti nulla”, per poi allungarle una cinquantamila lire.

D’accordo, è un’opera prima, gli scivoloni capitano a tutti. Dopo i primi minuti, infatti, si spera ancora che, con il procedere della narrazione, il film possa acquisire man mano spessore. E invece no. Questo, purtroppo, non succede mai. A causa delle numerose problematiche, infatti, Maria per Roma – nonostante le evidenti buone intenzioni iniziali della regista – è un lungometraggio decisamente maldestro. Vediamo perché.

In primo luogo vi è la sceneggiatura. Elementi che vengono lasciati in sospeso e mai ripresi all’interno della storia (la cardiopatia della cagnolina Bea, il debito di 20.000 euro della madre di Maria, ecc.), dialoghi superflui e banali, espedienti che dovrebbero far ridere ma non ci riescono e trovate scontate e prevedibili rendono già di loro il film poco accattivante. A tutto ciò si somma una pessima – davvero pessima! – direzione degli attori (eccessivamente statici e quasi monoespressivi, fatta eccezione, forse, per la protagonista stessa)ed una regia piuttosto rudimentale che, per la maggior parte delle inquadrature fisse, vede i personaggi stessi in posa del tutto innaturale. Non dimentichiamo, a questo proposito, che la regista proviene da una lunga esperienza in campo teatrale. Esperienza, questa, che non sempre è d’aiuto, nel momento in cui per la prima volta ci si rapporta al cinema e che –in questo caso in particolare – ha creato soltanto ulteriori problematiche.

Il risultato, come si può ben intuire, riesce a provocare al massimo qualche risatina (volontaria o involontaria che sia). E tanto, tanto imbarazzo. I momenti peggiori, ovviamente, li si vive nelle scene in cui la protagonista, ripensando a suo padre morto, vede il suo pseudo fantasma davanti a sé e viene incoraggiata dalle parole di quest’ultimo. Soluzione, questa, decisamente poco azzeccata.

Volendo, però, trovare degli elementi positivi in Maria per Roma, c’è da dire che, malgrado la scarsa riuscita, questa opera di Karen Di Porto, tutto sommato, non cerca di accattivarsi  le simpatie del pubblico – al contrario di quanto viene fatto in molte altre pellicole – in modo furbo e subdolo. Quello no. Anzi, vista l’onestà intellettuale su cui si basa il tutto, c’è da sperare in futuri lavori migliori, dal momento che attualmente evidente è la poca dimestichezza con il mezzo cinematografico stesso. E poi non dimentichiamo Bea, il jack russell della protagonista. Deliziosa! Indubbiamente, l’elemento migliore di tutto il film.

VOTO: 4/10

Marina Pavido

11° FESTA DEL CINEMA DI ROMA – DENIAL di Mick Jackson

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TITOLO: DENIAL; REGIA: Mick Jackson; genere: drammatico; anno: 2016; paese: USA, UK; cast: Rachel Weisz, Timothy Spall, Tom Wilkinson; durata: 110′

Presentato in Selezione Ufficiale (e prossimo all’uscita in sala) all’11° Festa del Cinema di Roma, Denial (La verità negata) è l’ultimo lungometraggio diretto da Mick Jackson.

In seguito alla pubblicazione del libro Denying the Holocaust: The Growing Assault on Truth and Memory – in cui più volte vengono attaccate le teorie negazioniste dell’autore britannico David Irving – la professoressa americana Deborah Lipstadt viene citata in causa da quest’ultimo con l’accusa di diffamazione. In Inghilterra, però, le cose non funzionano come negli Stati Uniti. In casi del genere, infatti, è compito del presunto colpevole dimostrare la propria innocenza. Sarà, dunque, arduo compito di Deborah – insieme ad una squadra di prestigiosi avvocati guidati da Richard Rampton – dimostrare la veridicità dell’Olocausto stesso.

Quello che inizialmente si presentava come un lungometraggio visto e rivisto, che nulla di nuovo ha da offrire al pubblico e sul quale si è puntato eccessivamente, si è dimostrato, in realtà, un prodotto di tutto rispetto, che al suo interno ha sì delle problematiche, ma che, comunque, vanta una sceneggiatura di ferro, magistralmente interpretata da un ottimo cast, all’interno del quale spicca su tutti il grande Timothy Spall, nel ruolo di David Irving, oltre, ovviamente, a Rachel Weisz nel ruolo della protagonista.

Tale sceneggiatura – affiancata da una regia e da un montaggio dinamici, che, per tutta la durata del film, riescono a mantenere ritmi costanti e pertinenti alla narrazione, senza mai cadere di tono – contribuisce a rendere il lungometraggio quasi del tutto privo di sbavature. Quasi, perché – come può facilmente capitare nel momento in cui si tratta un argomento del genere – sono presenti determinate scene in cui – complice anche una musica decisamente troppo melodrammatica ed invadente, carrellate troppo enfatizzanti e primi piani che sembrano voler indugiare un po’ troppo a lungo su ciò che viene mostrato – si ha tutta l’impressione che Jackson abbia voluto a tutti i costi arruffianarsi il pubblico, facendo leva in modo piuttosto facile e scontato sui sentimenti. C’è anche da considerare, però, che tali scelte possono rappresentare uno degli errori più comuni che si possano fare – sempre che di errori si voglia parlare – nel momento in cui vengono trattati determinati argomenti. In pratica è come trovarsi su di una mina (giusto per citare uno dei titoli recentemente apparsi in palinsesto), rischiando, anche con un minimo movimento, di provocare l’irreparabile. Peccato veniale, dunque, questo di Jackson.

Fatto sta che Denial, in fin dei conti, si è rivelato un prodotto interessante per il tema trattato – come già è stato detto – e, nel complesso, ben confezionato. Un lavoro che nel suo genere decisamente funziona, senza mai voler essere didascalico e che, quasi sicuramente, verrà apprezzato da molti.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

11°° FESTA DEL CINEMA DI ROMA – LAND OF THE LITTLE PEOPLE di Yaniv Berman

land_of_the_little_people_victor_bezrukov-31TITOLO: LAND OF THE LITTLE PEOPLE; REGIA: Yaniv Berman; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Israele, cast: Maor Schweitzer, Ofer Hayun, Lior Rochman; durata: 83′

Presentato in anteprima – all’interno della Selezione Ufficiale – all’11° Festa del Cinema di Roma, Land of the Little People è il primo lungometraggio di finzione del regista israeliano Yaniv Berman.

Un piccolo villaggio militare israeliano. Mogli di soldati in costante attesa del ritorno dalla guerra dei loro mariti. Un gruppo di bambini che vivono in questo villaggio. Un rifugio segreto. Due disertori che sembrano non aver altro posto dove andare, se non proprio nel rifugio dei ragazzi. Sullo sfondo, un conflitto senza fine.

Ad una prima, sommaria lettura della sinossi – e fino ai primi cinque minuti del lungometraggio stesso – questo lavoro di Berman può apparire senza dubbio interessante. E non poco anche. Soprattutto perché, sebbene il tema dell’infanzia sia stato più e più volte trattato (dalle origini del cinema fino ai giorni nostri), l’idea di raccontare questa sorta di mondo a sé popolato quasi esclusivamente da figli di militari – ossia da bambini abituati fin da giovanissimi a vivere a stretto contatto con armi, in una costante situazione di guerriglia – risulta se non altro uno sguardo sull’infanzia accattivante. Si potrebbe addirittura sperare in una sorta di trasposizione cinematografica de Il signore delle mosche, collocato, ovviamente, nel suddetto contesto. Eppure questo lungometraggio di Berman non riesce, purtroppo, a costruire nulla di valido che prenda vita dall’interessante trovata iniziale.

Il problema principale, senza dubbio, riguarda la sceneggiatura stessa e, nello specifico, la caratterizzazione dei personaggi. Ora, di certo non è difficile né tantomeno raro che il pubblico, durante la visione di un film, empatizzi con i bambini, siano essi protagonisti o meno. Bene, in Land of the Little People questo non accade mai. E con nessuno dei giovani protagonisti. Il desiderio dei ragazzi di creare un rifugio tutto loro, con le proprie regole ed i propri rituali, oltre alle motivazioni che li spingono a fare la guerra ai due soldati disertori, sono aspetti che non vengono approfonditi a sufficienza. Ad esempio, troppo poco sappiamo della misteriosa “creatura” venerata dai bambini stessi che, a quanto pare, vive in un pozzo all’interno del rifugio. Così come lasciato in sospeso è il conflitto con il gruppo di ragazzi più grandi che vivono anch’essi all’interno del villaggio. Errori, questi, che fanno sì che si provi disinteresse, se non addirittura, a tratti, una sorta di antipatia nei confronti dei giovani protagonisti stessi. Ciò vuol dire, secondo una logica conseguenza, un fiasco praticamente preannunciato.

Stesso discorso vale, appunto, per i due giovani soldati che hanno occupato il rifugio dei bambini. Senza dubbio, l’idea iniziale era quella di dare vita a due figure negative. Tali figure, però, diventano problematiche nel momento in cui non vi sono validi “eroi” a contrapporsi ad esse. Alcuni dialoghi tra i due, inoltre, scadono spesso e volentieri nel ridicolo e frequenti, di conseguenza, sono le risatine involontarie in seguito alle disavventure dei due per mano dei ragazzi. Due macchiette poco credibili nei confronti dei quali si perde ben presto di interesse.

Se a tutta questa carrellata di scivoloni sommiamo un ritmo pressoché inesistente, una cattiva gestione dei tempi (uno dei sub plot ci mostra la madre di uno dei protagonisti che saluta, in lacrime, suo marito in partenza per il fronte, per poi riabbracciarlo solo un paio di giorni dopo, ad esempio.  Vogliamo parlarne?) ed una serie di cadute di stile riguardanti esclusivamente la regia (il primo piano improvviso della fotografia della fidanzata di uno dei due disertori che appare, irruente, sullo schermo immediatamente dopo il ferimento del ragazzo è, a questo proposito, forse una delle “perle” migliori), ci troviamo di fronte ad un prodotto decisamente rudimentale e maldestro, che, fatta eccezione, come già è stato detto, per qualche risatina involontaria, appunto, fa sì che lo spettatore non veda l’ora di trovarsi davanti – finalmente – i titoli di coda.

In compenso, il messaggio che si vuol trasmettere alla fine del film arriva forte e chiaro: chi diserta la guerra, a quanto pare, è un individuo spregevole che non merita alcuna pietà. Questo è, forse, l’unico elemento dotato di una certa coerenza all’interno di Land of the Little People. Per quanto riguarda tutto il resto, purtroppo, vi è davvero ben poco da salvare.

VOTO: 4/10

Marina Pavido

11° FESTA DEL CINEMA DI ROMA – SOLE CUORE AMORE di Daniele Vicari

dsc_9385TITOLO: SOLE CUORE AMORE; REGIA: Daniele Vicari; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Italia; cast: Isabella Ragonese, Francesco Montanari, Eva Grieco; durata: 113′

Presentato in anteprima – in Selezione Ufficiale – all’11° Festa del Cinema di Roma, Sole cuore amore è l’ultimo lungometraggio diretto dal regista e documentarista Daniele Vicari.

Eli e Vale sono amiche per la pelle. La prima è sposata e madre di quattro figli. Ogni giorno è costretta ad alzarsi prestissimo per andare a lavorare in un bar, dal momento che suo marito è disoccupato e solo lei è in grado di mantenere la famiglia. La seconda, single, ha deciso di intraprendere la non facile carriera di ballerina, lavora spesso di notte e – durante il giorno – aiuta l’amica facendo da babysitter ai bambini. Il mondo del lavoro e la società, però, non sembrano essere generose con nessuna delle due giovani donne.

Il tema della precarietà del lavoro, si sa, è stato – negli ultimi anni – uno dei temi più gettonati. E non solo per quanto riguarda il cinema italiano. La differenza sta, appunto, nel modo in cui il tutto viene messo in scena. E con questo suo ultimo lungometraggio Daniele Vicari è riuscito, in qualche modo, a creare qualcosa di personale, sia dal punto di vista della regia che per quanto riguarda il taglio che ha deciso di dare all’intera storia.

Interessante, a questo proposito, la scelta di utilizzare – sia in apertura, per presentare le due protagoniste, sia in chiusura, per mostrare quello che sembra essere il destino di entrambe – il montaggio parallelo. Ritmi serrati che quasi non ci fanno prendere fiato, colori e luci contrastanti – a seconda della scena rappresentata. Il tutto scorre velocemente, inesorabilmente. Anche questa volta Vicari è riuscito a mettere sullo schermo immagini di grande potenza visiva ed emotiva. Seppur leggermente autocompiacenti.

Quello che, però, all’interno del lungometraggio funziona decisamente poco, è proprio il finale. Nulla volendo togliere al riuscito impatto emotivo degli ultimi minuti, senza dubbio ci troviamo davanti ad un epilogo decisamente telefonato, che, proprio per questo motivo, non riesce ad avere la potenza originariamente auspicata. Stesso discorso per alcuni dialoghi. Soprattutto quelli tra Eli e suo marito. Le battute, di fatto, appaiono, a volte, eccessivamente costruite e poco spontanee, al punto quasi di far perdere credibilità al tutto.

Tutto sommato, però, Vicari – e questo bisogna riconoscerlo – ha evitato l’errore di mettere in scena un film retorico e buonista, visto il rischio che si corre nel momento in cui si decide di raccontare storie del genere. E lo ha fatto creando un prodotto perfettamente in linea con il suo stile e la sua cinematografia. Un prodotto che non decolla come dovrebbe e che, spesso e volentieri, fa storcere il naso, ma che, tutto sommato, si classifica come un lavoro intellettualmente onesto. E questo, di certo, non è poco.

Al termine della visione, però, sorge spontanea una considerazione: se ripensiamo a tutta la filmografia del regista, notiamo come i suoi risultati migliori siano venuti fuori attraverso i documentari. Che sia questa la strada di Daniele Vicari? Questo, ovviamente, solo il tempo saprà dircelo.

VOTO: 6/10

Marina Pavido