VENEZIA 72: SCRITTORI A VENEZIA – DAVID KAJGANICH

Dal sito ufficiale della Mostra

SCRITTORI A VENEZIA
Writers Guild Italia (WGI) incontra gli sceneggiatori presenti con le loro opere alla 72.
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2-12 settembre 2015)

A BIGGER SPLASH
Scritto da… David Kajganich
David Kajganich ha scritto A bigger splash. Il film diretto da Luca Guadagnino è stato
presentato in concorso nella sezione principale Venezia 72 ed ha sollevato molto clamore.

Ciao David, sono molto contenta di intervistarti perché è abbastanza raro trovarsi davanti a una collaborazione tra uno sceneggiatore americano e un regista europeo.
Sì, è vero e vorrei aggiungere che anche io sono molto ontento di fare questa intervista con la Writers Guild Italia, perchè credo molto nel lavoro delle guild.
Puoi farci un pitch del film?
E’ un remake molto libero del film del 1969 di Jacques Deray, La Piscine. Abbiamo fatto un remake perché per una produzione era un’opportunità economica, ma oltre a questo c’era un interesse artistico nel progetto, che consisteva nel tenere la struttura di fondo della storia de La Piscine e fare una scelta coraggiosa. La storia originale è un thriller e una prima scelta poteva essere andare in questa direzione, legando il thriller alle vite dei quattro personaggi. Ma questo non ci bastava, volevamo qualcosa di più complesso di un film di genere, cioè mettere in scena un dramma che utilizza i grandi archetipi del thriller tra Hitchcock e Chabrol, ma in maniera spiazzante. Alla fine il film non è propriamente un thriller, ma c’è una tensione che confonde lo spettatore così come la suspance dei prodotti del genere. E’ interessante adesso vedere come verrà promosso il film, spero che nessuno lo annunci come un thriller, perché credo che il pubblico possa restarne deluso. Magari, invece, se uno di aspetta un dramma, visto che c’è una certa tensione, sarà sorpreso dal gioco tra i generi: ci sono momenti di grande ansia, ma anche momenti di umorismo. E’ un miscuglio particolare di elementi e abbiamo deciso di farlo così, di andare in una direzione insolita per cogliere l’opportunità artistica di fare qualcosa di un po’ folle e sconvolgente. Anche gli attori non te li immagini in questi ruoli, e penso sia stato l’aspetto interessante del progetto: avevamo tutti voglia di fare qualcosa di strano.
Come sei stato coinvolto nel progetto?
Studio Canal aveva contatto Luca diverse volte per proporgli il remake e all’inizio lui non era interessato. Nello stesso periodo aveva in lettura delle mie sceneggiature per un progetto americano e nella mia scrittura ha trovato qualcosa che gli ha fatto pensare che potesse essere interessante lavorare insieme sul remake de La Piscine. E io ne ho approfittato e ho accettato subito, perché ho cominciato a lavorare per Hollywood già da dieci anni circa, ho scritto sceneggiature molto accurate e ambiziose, senza vederle realizzate o vedendole realizzate, ma riscritte dai registi o da altre persone. Così quando il film finalmente arrivava in sala non mi ci riconoscevo più, mi vergognavo a farlo vedere ai miei amici. Ero stufo di film con il mio nome sopra da cui mi sentivo lontano, che non riflettevano per nulla il lavoro che avevo voluto fare. Così ho colto al volo l’occasione di lavorare con una produzione europea, sperando in una collaborazione che fosse meno usa e getta. Ed è stato proprio così: ho avuto una stretta collaborazione con Luca e poi anche con gli attori, Tilda, Ralph, Matthias e Dakota. C’è stato molto lavoro comune sul racconto, c’era la voglia di far emergere dalla sceneggiatura gli aspetti che ognuno amava di più; c’è stato un costante lavoro di aggiustamento della sceneggiatura sul set, per mettere a frutto le interessanti discussioni che avevamo avuto sul clima ansiogeno del film, sulle relazioni personali, fino alle più piccole sottigliezze dei personaggi, che abbiamo sviscerato perché gli attori
volevano spingersi proprio a fondo. Quando hai delle persone molto dotate e loro ti dicono che vogliono prendersi più rischi, cercare dei toni meno standard, avere una struttura più libera… insomma do atto agli attori di aver cercato direzioni non banali. E’ stata una delle collaborazioni più belle che ho avuto, una cosa che a Hollywood non sarebbe mai potuta accadere.
Quindi tu hai passato molto tempo sul set?
Sì e per me è stata una cosa nuova e divertente. Ero già stato sui set, ma mai accanto al regista o a discutere delle scene con gli attori. Un tipo di collaborazione così stretta durante le riprese è impossibile in America. Noi scrittori, nonostante la forza delle nostre Guild, siamo messi in secondo piano dopo che il nostro lavoro è finito: è la prassi del processo produttivo, lo sceneggiatore fa il suo lavoro per primo ed è il primo ad essere allontanato dalle discussioni. Hanno l’impressione che ormai il tuo lavoro è fatto e che tu non hai più altro da dire se non ostacolare eventuali cambiamenti. E’ un pregiudizio che sopravvive, anche se la maggior parte degli sceneggiatori che conosco non sono così, non sono egoisti, non hanno l’obbiettivo di irrigidire il testo, anzi ci interessa poter sederci al tavolo e far parte del processo creativo dall’inizio alla fine. Luca mi ha dato la possibilità di capire com’è fare questo lavoro e non credo che mi riuscirà facile tornare a lavorare con gli studios in America, alle loro condizioni. Non capisco perché dovrei assoggettare la mia libertà in questo modo, quando posso lavorare con collaboratori attenti al mio lavoro e formare una specie di famiglia durante la realizzazione di un film: questo in America è impossibile.
Lo scrittore, effettivamente, è l’unica persona presente fin dall’inizio sul progetto del film: come mai non viene coinvolto nel processo produttivo?
Non saprei. Tra l’altro c’è una necessità tecnica nell’avere lo scrittore sul set per risolvere i problemi di sceneggiatura: per esempio quando si cambia una location o quando una scena non funziona… Ci sono moltissimi problemi che possono capitare sul posto e perché non avere la persona che conosce meglio la storia del film presente sul set per aiutare a trovare una soluzione? Ogni produzione è piena di inciampi, piccole difficoltà anche solo per il tipo di riprese in locations difficili e remote: non sempre si possono fare le cose come previsto. Per me è stato molto bello individuare cinque alternative ad una scena che sembrava si potesse girare in un solo modo.
Riguardo al tuo lavoro con gli attori, ho letto che l’idea che la protagonista non possa
parlare è un’idea di Tilda Swinton. Si ed è venuta da un processo molto interessante: avere un attore così impegnato nella preparazione di un film è raro. Gli attori sono stati tutti fantastici nel loro lavoro, hanno fatto molte ricerche e preparato molto a fondo i loro ruoli in rapporto alle emozioni più di pancia dei personaggi. In origine, in sceneggiatura, Marianne Lane era un’attrice inglese che doveva imparare l’accento americano: quindi le avevamo già dato un problema con la voce, problema però che per Tilda era innaturale. C’erano molti momenti in cui lei avrebbe dovuto esprimersi con i due diversi accenti e non riusciva a passare dall’uno all’altro: così qualcuno aveva messo in dubbio la sua capacità di interpretare il ruolo, perché non era in grado di parlare correttamente. La decisione di Tilda è stata una bella sfida per noi: ci ha detto che voleva provare a rimuovere questo elemento dal film e vedere se il film reggeva anche senza che lei parlasse. Ed è stata un’idea interessante, anche perché il suo personaggio, Marianne, era quello che aveva il maggior numero di battute nella sceneggiatura! Mi ricordo di aver ricevuto una telefonata di Luca che mi ha detto: Sei seduto? E ha detto che aveva parlato con Tilda e lei aveva avuto l’idea che Marianne non parlasse nel film. Io ho pensato che non avevo idea di come farlo, ma che ci avrei provato. Poi Tilda ha invitato me e Luca in Scozia a casa sua, dove abbiamo passato una settimana a rivedere la sceneggiatura, discutendo tutte le battute che diceva, cercando di capire quali era irrinunciabili. Sarebbe stato anche bello non farla parlare per tutto il film, ma purtroppo così non sarebbero arrivate fondamentali informazioni emotive relative al suo personaggio, alcune delle quali erano molto specifiche. Quindi abbiamo avuto una specie di contrattazione sulle battute di dialogo da pronunciare fino a che siamo arrivati a quello che il film è adesso: credo che il risultato sia meraviglioso. Nella prima versione della sceneggiatura il personaggio di Marianne era una sorta di punto di riferimento per il resto del cast, lei cercava di mantenere gli altri con i piedi per terra, di evitare tensioni… Le abbiamo impedito di farlo, l’abbiamo messa in una condizione in cui se
parla, potrebbe rovinare la sua voce per sempre. Così volta che apre bocca, sai che è un rischio e quindi stai molto più attento a tutto quel che dice, perché sai che è una scelta che può avere conseguenze pericolose. Mi piace molto questo effetto.
E anche l’idea che il personaggio di Ralph Fiennes fosse un produttore musicale è venuta dopo?
No, sapevamo che lui sarebbe stato un produttore musicale e i Rolling Stones sono stati un po’ la musa del film. Credo che questo abbia portato a un’altra scelta di Tilda, quella di essere una rockstar, che mette il suo personaggio e quello di Ralph nello stesso mondo, mentre Paul ne resta fuori. Ha funzionato tutto molto bene e questo è merito di collaboratori che vengono da diverse discipline, io dalla scrittura, Luca dalla regia e Tilda dalla recitazione; confrontarsi sul materiale è stato ottimo e ha dato vita a quel senso di confusione armonica che mi piace molto nel film.
Si avverte questa atmosfera nel film, che c’è un linguaggio molto libero, c’è un aspetto drammatico, ma anche umoristico; anzi spesso l’ironia è usata nei dialoghi per mascherare i veri sentimenti dei personaggi. Quando devono dirsi cose difficili che possono essere poco piacevoli, allora le nascondono sotto l’umorismo.
Sì, quando hai quattro persone insieme in una casa devi far sì che la maggior parte delle comunicazioni non passi attraverso ciò che viene detto, i personaggi non acquistano spazio se rivelano le loro intenzioni a voce. E un bel modo per affrontare una situazione che può essere piatta e ridondante, utilizzando un approccio più naturalistico. Certo il film non è naturalistico, la regia è molto aggressiva e rock ’n roll. Ma credo che dal modo in cui le persone parlano nel film si capisce che sono quattro persone che si conoscono da molto tempo. Ogni personaggio parla in un modo solo suo. Mi ricordo una delle prime letture con il cast completo: è stata una bella dimostrazione di come una sceneggiatura possa aiutare gli attori, anche nel ritmo delle battute. Non succede mai a Los Angeles che qualcuno prenda una sceneggiatura e si preoccupi del ritmo del linguaggio! In America non siamo abituati a parlare di queste cose, perché la gente non va a teatro nello stesso modo con cui ci va in Europa. Il personale dell’industria cinematografica adora vedere i film in televisione… non
voglio generalizzare, ma non posso parlare dei più grandi drammaturghi della storia con
l’executive di uno studio. Ma in questo film per me è stato quasi commovente vedere che chiunque voleva cambiare anche solo l’ordine delle parole veniva a chiedermi il permesso! Te lo immagini? E naturalmente io rispondevo sempre: ma certo, come credi che sia meglio. Ci fidavamo davvero gli uni degli altri e sapevo che la sceneggiatura era davvero importante per tutti e questo non accade spesso in America.
Nemmeno in Italia: di solito dipende dal regista quanto si è più o meno rispettosi della sceneggiatura.
Ecco questa è una delle cose più importanti che può fare una Guild. Mantenere una
discussione viva, anche aggressiva se serve, sia con la comunità cinematografica che con il pubblico, per ricordare che queste cose non nascono spontaneamente sul set. C’è stata una campagna pubblicitaria a Los Angeles con le più famose battute del cinema e diceva: Qualcuno lo ha scritto. Una Guild è cruciale nell’educare la persone sull’importanza del nostro lavoro. Quando alla premiere di un film c’è il regista e non lo sceneggiatore è molto ingiusto. Essere stato invitato qui a Venezia, far parte del gruppo è un bellissimo privilegio, ma dovrebbe essere ovvio, troppo spesso lo sceneggiatore sta in secondo piano ed è un peccato. Gli sceneggiatori sono abituati a essere trattati così, io credo sia terribile e una Guild può davvero fare qualcosa a riguardo.
Si questa è una delle ragioni per cui abbiamo fondato la WGI e per cui facciamo queste interviste!
Sai lo sceneggiatore è come qualcuno che costruisce le fondamenta della casa, in alcune produzioni è proprio quello che costruisce la casa e venire trattato come quello che arriva alla fine solo per dipingere le pareti è una cosa orribile. Incoraggio la vostra Guild ad avere un tono aggressivo con i registi e i produttori e dire: non dimenticatevi che tutto parte da noi!
Ti è capitato di non riconoscere il tuo lavoro in un film?
Sì, specialmente una volta in cui avevo lavorato a un film per tre anni. Era una storia vera e ho impiegato molto tempo per la documentazione. Si trattava di un caso di cronaca in Oregon, dove un uomo aveva ucciso la moglie e i figli, molte delle persone coinvolte erano ancora vive e ho passato molto tempo ad intervistarle, garantendo loro che non si trattava di un film sensazionalistico, che volevo fare un dramma serio che sarebbe stato rispettoso, questo perché all’inizio nessuno voleva parlare con me. E’ difficile convincere le persone ad aprirsi se non si fidano di te, ma ci sono riuscito. E poi, due anni dopo, il regista ha preso in mano il film e la scrittura senza mai chiamarmi o scrivermi. Io gli ho offerto tutte le mie ricerche, ho proposto di raccontargli tutto quello che avevano bisogno di sapere, ma non abbiamo mai parlato. E quando ho visto il film ero sconvolto, perché sapevo che le persone a cui avevo promesso rispetto si sarebbero sentite tradite vedendo il film e avrebbero pensato che non avevo mantenuto la promessa. Il mio nome era nei titoli e nessun poteva dedurne quello che avevo o non avevo veramente fatto. E questo accade a tutti gli scrittori.
E’ terribile anche perché la scrittura è un lavoro molto personale, bisogna lasciarsi coinvolgere dalla storia che si racconta.
Sì, inoltre di solito lavori sulle più brutte esperienza che le persone possono avere, come la fine di un matrimonio e il rapporto con i figli, a me capita spesso di piangere al computer. Si entra nella testa dei personaggi e si provano le stesse emozioni che loro provano per essere in grado di trasferirle sulla pagina… Tutto questo non si vede. Voglio dire per un attore questo processo viene esplicitato sullo schermo, ma anche lo scrittore lo attraversa. E spesso si dimentica che anche lo scrittore come gli attori, certo non allo stesso livello tecnico, viene coinvolto con la sua empatia, devi essere un po’ attore per scrivere. Forse è proprio questo il motivo per cui non ci sono tanti scrittori sui set, perché hanno una visione così forte del film che bisogna avere molto controllo per non volerla imporre. Ma ripeto è per questo che è bello avere una Guild, ci sono molti benefici che si ottengono facendo parte di una Guild in America, non riesco a immaginare come sia possibile farne a meno. Dalla possibilità di firmare contratti collettive e scioperare se necessario, fino all’assicurazione sanitaria.
Una questione su cui si discute molto in Italia è il diritto d’autore, specialmente legato alle nuove piattaforme di distribuzione di contenuti.
E’ molto importante questa battaglia adesso, perché nessuno è pronto a darti una fetta della torta. In America stiamo discutendo lo stesso tema, se ci sarà un altro sciopero a breve sarà su questa questione. Perché gli studios non si muovono di un millimetro, non concedono nulla, perché sanno che gli introiti da queste piattaforme on line e dallo streaming cresceranno esponenzialmente nei prossimi anni.
Cosa ne pensi di Netflix? Qui a Venezia presentano il primo film che verrà distribuito contemporaneamente on-line e in sala.
E’ molto difficile che certi progetti vengano realizzati. Beasts of no nation era un progetto che difficilmente uno studio avrebbe accettato, forse solo con una grande star o con degli elementi di genere thriller che ne permettessero la vendita in tutto il mondo. E forse questi timori possono essere minori quando si passa su piattaforme come Netflix o Amazon. Penso che si sia un mutamento in America del sistema tradizionale degli studios. Credo che le grosse compagnie siano preoccupate, perché la strategia che hanno adottato negli ultimi anni, per portare la gente al cinema invece che a casa a guardare la tv – che peraltro sta diventando sempre migliore – è stata quella di fare film sempre più grossi, con super eroi e il 3D, sperando di poter salvare l’industria del cinema; insomma, credo invece che stiano capendo che anche questo tipo di storie devono esser ben costruite e ben recitate. E credo sia molto difficile, quando si gestisce un budget di centinaia di milioni di dollari, potersi prendere quei rischi creativi che danno vita a un buon prodotto. Sul fatto che Netflix abbia dato a Cary Fukunaga una piattaforma per un film su questo argomento (i bambini soldato in Africa, ndr) e gli abbiano detto di realizzarlo come voleva, non credo che ci siano aspetti negativi.
Non hai paura che il grande schermo finisca per scomparire?
Sì, ma allo stesso tempo non voglio farne un feticcio, non vorrei che lo schermo precludesse l’accesso. Forse nel caso di Beasts of no nation è un film che potrebbe essere mortificato dal piccolo schermo. Ma ho la sensazione che in futuro ci sarà più interazione tra la fruizione al cinema e quella in televisione, forse ci sarà una sovrapposizione. Non sarei sorpreso se in futuro Netflix aprisse una catena di sale nel paese, Sundance ne ha già una.
L’elemento positivo è che con il moltiplicarsi dei canali di fruizione aumenta la domanda di contenuti.
Sì, certo, poi se vedi alcuni film di Stanley Kubrick hanno un formato particolare, quadrato e perché credi che abbia fatto questa scelta? L’ha fatto perché immaginava che i suoi film sarebbero stati visti in televisione e il fatto che non fosse un problema per lui mi dà speranza, ovviamente non vedeva il grande schermo come un feticcio. Ed è interessante che adesso alcuni grandi registi di cinema stanno lavorando in televisione e adattano il loro linguaggio di messa in scena per questo tipo di fruizione.
Tornando a A bigger Splash, come vedi l’Italia? Mi sembra che nel film ci siano riferimenti a una vecchia visione che appartiene a Rossellini e al suo Viaggio in Italia e Stromboli, sei d’accordo?
Sì, certo, adoro l’Italia e ci ho passato molto tempo ed ero entusiasta di poter lavorare a un progetto qui, anche se non ero mai stato a Pantelleria. Per motivi economici è stato
impossibile vedere Pantelleria prima della scrittura del film ed è anche un posto su cui è
difficile fare ricerca on-line. Per fortuna ho trovato dei blog in inglese di persone che ci
hanno vissuto e ho studiato la storia dell’isola e sono stato sollevato quando alla fine per le riprese siamo arrivati a Pantelleria e mi appariva proprio come l’avevo immaginata in sceneggiatura. Ma devo dire un’altra cosa di Pantelleria: non appena Luca ha deciso di ambientarvi il film, abbiamo pensato che dovevamo confrontarci con il tema dei clandestini. Abbiamo discusso molto su come affrontarlo e so che c’è già stata un po’ di polemica sul fatto che nel film si faccia un uso opportunistico dell’argomento in rapporto alla storia principale. Vorrei dire che prima di tutto qualsiasi tipo di discussione su questo tema penso che sia un bene, il fatto che la gente ne parli è solo positivo. Poi dal nostro punto di vista la storia riguarda tre personaggi, escludendo Penelope, che guardano indietro al loro passato e stanno decidendo che cosa tenere del passato e come andare avanti in maniera serena: alcuni se la cavano meglio di altri e uno non ce la fa proprio. Volevamo mettere a confronto questo conflitto con qualcosa di molto più grande, con l’epica tragedia di persone che vengono dall’Africa e cercano di raggiungere l’Europa solo per mettere in salvo se stessi e le proprie famiglie. Per me era interessante accostare queste due emergenze e lasciare poi che fosse il pubblico a decidere come giudicarle.
E’ interessante perché ci sono questi personaggi ricchi e benestanti che vivono in una bolla e dall’altra parte la realtà dirompente dell’immigrazione che fa un grande contrasto.
Il film riguarda le conseguenze involontarie dell’amore, quando si dà a un altro l’accesso al proprio cuore in maniera viscerale e poi la relazione non funziona, ci si sente sempre legati all’altro e si farebbe qualsiasi cosa per proteggerlo. Nel film, i personaggi cercano di proteggersi l’un l’altro e questo porta a delle conseguenze; volevamo che il pubblico sentisse un’ambiguità morale, tanto che uno degli effetti è che i clandestini vengono indicati come una possibile causa di ciò che succede alla fine del film. Naturalmente nel film nessuno prende molto sul serio questa ipotesi, ma il fatto che questa scelta sia invece fatta da uno dei personaggi non è una cosa da poco, volevamo che fosse una decisione provocatoria, pensata per stimolare una discussione nel pubblico su quanto il personaggio si sia spinto lontano e sul fatto che questa decisione possa essere condivisa o meno. Non era una cosa semplice quindi non sono stato sorpreso di sentire dei fischi alla fine della proiezione, perché se si crede che il film sia stato superficiale sull’argomento, allora si protesta per qualcosa di cui ci
si preoccupa. Sono solo dispiaciuto che il film possa non essere stato compreso.

L’intervista in inglese e la traduzione in italiano sono a cura di Fosca Gallesio
Il testo originale si trova sul sito http://www.writersguilditalia.it

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