OGGI AL CINEMA: tutte le novità in sala del 26/05/2016

A cura di Marina Pavido

Grandi novità in sala, anche questa settimana! Dall’attesisimo Alice attraverso lo specchio all’horror Somnia, dall’ultimo lavoro di Pedro Almodovar, Julieta, all’estone Tangerines – Mandarini. Come ogni settimana, ecco per voi una breve guida per poter scegliere ciò che più vi piace e, sotto alcune trame, potrete leggere qualche nostra recensione. Ce ne sarà davvero per tutti i gusti!

 

ALICE ATTRAVERSO LO SPECCHIO

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REGIA: James Bobin; genere: avventura, fantasy; anno: 2016; paese: USA; cast: Mia Wasikowska, Johnny Depp, Helena Bonham Carter

Alice ha trascorso gli ultimi anni navigando per il mare aperto, seguendo le orme paterne. Al suo ritorno attraverserà uno specchio magico che la riporterà nel Sottomondo, dove incontrerà gli amici di sempre e dove scoprirà che il Cappellaio Matto, dopo aver perso la sua Moltezza, non è più in forma come una volta. Sarà compito della giovane Alice far sì che il suo amico possa salvarsi. Atteso sequel di Alice in Wonderland, diretto da Tim Burton.

 

FIORE

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REGIA: Claudio Giovannesi; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Italia; cast: Daphne Scoccia, Josciua Algeri, Valerio Mastandrea

Daphne, detenuta in un carcere minorile per aver preso parte ad una rapina, si innamora di Josh, anch’egli ex rapinatore. All’interno del carcere, però, maschi e femmine non possono incontrarsi ed il loro amore verrà ostacolato in ogni modo.

 

SOMNIA

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REGIA: Mike Flanagan; genere: horror, thriller; anno: 2016; paese: USA; cast: Kate Bosworth, Thomas Jane, Jacob Tremblay

Jessie e Mark, in seguito alla scomparsa del loro unico figlio, decidono di adottare il piccolo Cody, un bambino di otto anni. Il piccolo, però, nasconde un inquietante segreto, che lo rende terrorizzato all’idea di addormentarsi.

 

COLONIA

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REGIA: Florian Gallenberger; genere: drammatico, thriller; anno: 2015; paese: Germania; cast: Emma Watson, Daniel Bruehl, Michael Nyqvist

Lena e Daniel sono una giovane coppia che rimane implicata nel colpo di stato che ha avuto luogo in Cile nel 1973. Quando Daniel viene rapito dalla polizia segreta di Pinochet, Lena seguirà i suoi passi, scoprendo un’area inespugnabile situata a sud del Paese, chiamata Colonia Dignidad. Ispirato a fatti realmente accaduti.

 

FRÄULEIN – UNA FIABA D’INVERNO

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REGIA: Carolina Carona; genere: commedia; anno: 2016; paese: Italia; cast: Christian De Sica, Lucia Mascino, Therese Hämer

Regina, una scontrosa zitella, si imbatte casualmente in un misterioso turista sessantenne ed imbranato. Tra i due nascerà una turbolenta quanto improbabile convivenza.

 

IL TRADUTTORE

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REGIA: Massimo Natale; genere: drammatico, thriller; anno: 2016; paese: Italia, Polonia; cast: Claudia Gerini, Kamil Kula, Silvia Delfino

Andrei è un giovane studente rumeno che saltuariamente lavora in questura come traduttore, conoscendo alla perfezione l’italiano, il rumeno ed il tedesco. Un giorno viene messo in contatto dalla sua tutor con Anna, un’antiquaria che gli chiederà di tradurre il diario di suo marito, un tedesco scomparso in circostanze misteriose.

 

JULIETA

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REGIA: Pedro Almodovar; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Spagna; cast: Emma Suárez, Adriana Ugarte, Rossy De Palma

Julieta, una professoressa di cinquantacinque anni, scrive a sua figlia Antia, raccontandole tutto ciò che negli ultimi trent’anni – dal suo concepimento – ha messo a tacere. Una volta finita la confessione, però, non sa dove spedire la lettera, dal momento che sua figlia se n’è andata di casa a diciotto anni ed è ormai diventata una perfetta sconosciuta.

 

PELÉ

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REGIA: Jeff Zimbalist, Michael Zimbalist; genere: biografico, drammatico; anno: 2016; paese: USA; cast: Kevin de Paula, Leonardo Lima Carvalho, Diego Boneta

Il lungometraggio racconta la storia vera del celebre calciatore Pelé, che, da ragazzo di strada, arrivò al successo a soli diciassette anni, portando la nazionale brasiliana alla vittoria del Mondiali del 1958.

 

TANGERINES – MANDARINI

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REGIA: Zaza Urushadze; genere: drammatico; anno: 2013; paese: Estonia, Georgia; cast: Misha Meskhi, Giorgi Nakashidze, Elmo Nuganen

1991. Al culmine del conflitto tra la Georgia e la Repubblica separatista di Abcasia, in una piccola enclave di estoni stanziali ormai deserta, sono rimasti solo Ivo e Margus, intenti a coltivare la loro piantagione di mandarini. Un giorno, durante uno scontro a fuoco, i due soccorreranno due soldati appartenenti a schieramenti opposti, ospitandoli nella loro casa. Candidato all’Oscar al Miglior Film Straniero nel 2015.

LA RECENSIONE:

LA RECENSIONE DI MARINA: TANGERINES – MANDARINI di Zaza Urushadze

 

La nostra rubrica vi dà appuntamento alla prossima settimana! Nel frattempo, continuate ad andare numerosi al cinema e lasciatevi rapire dalla magia del grande schermo. Buon Cinema a tutti!

VENEZIA 72: SCRITTORI A VENEZIA – MICHAEL ROWE

Dal sito ufficiale della Mostra

SCRITTORI A VENEZIA
Writers Guild Italia (WGI) incontra gli sceneggiatori presenti con le loro opere alla 72°
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2-12 settembre 2015)
MICHAEL ROWE
Ha scritto… EARLY WINTER
Michael Rowe australiano è sceneggiatore e regista di Early Winter. Il film è stato presentato alle Giornate degli autori.

E’ il suo terzo lungometraggio, dopo aver vinto la Camera d’or a Cannes nel
2010 con Ano Bisesto e presentato Manto Aquifero al festival di Roma nel 2013.

Ciao Michael, ti faccio questa intervista per la Writers Guild Italia e vorrei parlare soprattutto del tuo lavoro come scrittore. Non so come sia la situazione in Australia o in Messico dove hai lavorato, ma in Italia gli sceneggiatori non sono molto considerati.
E’ lo stesso in ogni paese. E’ il motivo per cui sono diventato regista. Ho fatto lo sceneggiatore per dieci anni, ma nessuno voleva dirigere i miei script e allora mi sono deciso a farlo da solo.
Come prima cosa ti chiedo di parlarci di Early Winter, ci puoi fare un pitch del film?
Oh odio i pitch, sono terribili da fare, non li faccio mai, sono una delle cose più faticose. Comunque il film parla di una crisi matrimoniale, che sembrerebbe arrivare a una risoluzione alla fine del film, ma in effetti non ci arriva.
Hai dichiarato che è anche un film sulla solitudine, che è un tema che hai già esplorato nei tuoi film precedenti. Perché sei così interessato alla solitudine?
Credo che faccia sempre parte della condizione umana, ma in particolare il mondo moderno ci ha portati a una condizione di solitudine che non è realmente necessaria. Ciò che ci impedisce di essere soli nella realtà sono la famiglia e gli amici, le connessioni umane sono la risposta. Quando non abbiamo rapporti umani ci chiudiamo in noi stessi e diventiamo soli e in qualche modo anche disturbati. E questo diventa un paradosso con le tecnologie moderne, che danno accesso istantaneo a chiunque in qualunque parte del mondo, in qualsiasi paese, ma allo steso tempo ti lasciano più
isolato che mai, perché non si hanno reali contatti umani con le persone che ci circondano. E il contatto reale penso che sia l’unica forma di connessione che nutre a livello emotivo.
Il protagonista del film è un uomo profondamente solo, anche se in apparenza ha una bella famiglia: due figli, una moglie…
Credo che molte coppie nel mondo abbiano provato la solitudine, nonostante il matrimonio. Penso che sia facile lasciarsi andare alla solitudine. Il protagonista, David, si sforza di mantenere un legame con la sua famiglia, con sua moglie, anche se i suoi turni di lavoro (lavorando come infermiere in una casa di cura) rendono tutto molto difficile. Soprattutto per il poco tempo che riesce a passare con i figli, anche la relazione con sua moglie è difficile, perchè lei finisce per coltivare del risentimento nei suoi confronti, che la rende aggressiva. Inoltre anche la moglie ha dei problemi di solitudine, viene dalla Russia e vive in Canada da una quindicina di anni e questo l’ha segnata in un certo modo.
Come hai lavorato dalla scrittura della sceneggiatura alle riprese? Avevi già tutto scritto con precisione o hai fatto cambiamenti sul set?
Ho lavorato molto sullo script, ma una volta fatta la seconda stesura è cambiato poco nelle riprese e il risultato finale è molto vicino alla sceneggiatura. Ho lavorato molto con gli attori sui dettagli, riguardo alle motivazioni. Da sceneggiatore trovo che le persone fanno le stesse cose per motivi diversi e questo mi porta a riscrivere i dialoghi. Quindi ho lavorato anche con Paul e Suzanne su questo, abbiamo lavorato insieme sui personaggi per scoprire cose che avrebbero o non avrebbero potuto fare. In questo film più che negli altri miei film precedenti c’è improvvisazione, una cosa che di solito non mi piace e non la consento. Ma nel film ci sono un paio di scene dove Suzanne improvvisa. Prima ho girato sempre in poco tempo, anche solo 17 giorni, mentre questa volta ho avuto più tempo e degli attori molto bravi, c’era tempo di mettersi alla prova per scoprire cose nuove. Comunque non faccio mai prove prima di girare, perchè mi piace sfruttare l’energia viva della performance attoriale.
Ho notato che nel film non c’è tanto dialogo, anzi credo che nei momenti chiave i silenzi siano più significativi delle parole.
Credo sia nella natura della sceneggiatura veicolare le informazione attraverso le immagini. Il dialogo è necessario, perché naturalmente nella vita le persone parlano e sarebbe strano se non lo facessero, ma cerco sempre di dare la maggior parte delle informazioni attraverso le immagini. E’ difficile per me fare lo sceneggiatore perché non sono proprio nato per le immagini, vengo dalla poesia e dal teatro, che sono più orientati sull’uso del linguaggio verbale, ma ce la metto tutta perché il vero linguaggio del cinema sono le immagini.
Quindi come sei arrivato a fare lo sceneggiatore?
Ero un bambino strano, un po’ ossessivo e sognavo di cambiare il volto della poesia inglese, volevo proprio cambiare il modo in cui si fa poesia in lingua inglese. Ho iniziato a scrivere poesie a 6 anni e a 16 anni ho deciso che avrei fatto questo cambiamento e fino ai 22 anni scrivevo dalle 7 alle 30 poesie al giorno. E poi ho studiato la storia della poesia inglese dal medioevo al ventesimo secolo. E di tutti gli autori che leggevo pensavo “potrei scriverlo anche io”. E così sono arrivato al 1923 e a TS Eliot e improvvisamente ho pensato “questo non posso farlo”, così ho abbandonato la poesia. Ho smesso di scrivere poesie ed ero… non so insomma mi ero sempre immaginato come una sorta di poeta tragico e all’improvviso non sapevo che fare della mia vita. Dovevo guadagnarmi da vivere, per pagare le bollette e tutte quelle cose orribili. Quindi, avendo un certo talento per la scrittura, ho pensato di fare qualcos’altro, come il teatro e guadagnare con quello, un po’ come una sorta di prostituzione intellettuale. Ho partecipato a un concorso con due pièce teatrali e delle persone che avevano una compagnia di teatro mi hanno chiamato dicendo: abbiamo visto le tue pièce e vogliamo
lavorare con te. Ma poi è venuto fuori che il progetto era per la televisione e per me già il teatro era una forma di prostituzione, quindi la televisione era fuori questione. Ma le persone che mi avevano chiamato erano molto preparate e gentili e non sapevo come dire di no. Quindi ho speso tutti i miei risparmi per comprarmi un biglietto per il posto più lontano che potessi permettermi ed era il Messico. Così ho detto loro: mi spiace non posso lavorare con voi perché parto per il Messico. E sono partito e lì ho smesso di scrivere per tre anni, perché non credo nello scrivere in una lingua che non
sia quella del posto dove sei, penso sia disonesto. Quindi non ho scritto per tre anni, il che mi ha quasi ucciso. E quando sono tornato a scrivere, alla fine in spagnolo, poiché la mia grammatica non era tanto buona ho seguito un corso di sceneggiatura, perché la sceneggiatura è scritta al presente e quindi non dovevo coniugare i verbi e per il dialogo penso di aver un buon orecchio, quindi ho pensato che sarei stato capace di farlo. Poi dopo dieci anni passati a scrivere sceneggiature non trovavo nessuno che volesse dirigerle, quindi ho lasciato il lavoro e speso tutti i risparmi per comprarmi una telecamera, ho letto dei libri sulla regia cinematografica e ho scritto una sceneggiatura con due personaggi in una stanza e ho girato il mio primo cortometraggio. Il fatto è che
non ho trovato nessuno che dirigesse le mie sceneggiature, quindi ho dovuto farlo io. Non volevo fare il regista, anzi l’odiavo, credevo fosse un noioso lavoro tecnico, dove bisognava urlare alla gente cosa fare e sapere molte cose sulle ottiche e sulle macchine da presa e anche se pensavo fosse terribile dovevo imparare. Ma dopo un po’, quando ho iniziato davvero a lavorare, ho scoperto che non era necessario avere molte nozioni tecniche. La cosa importante è che quello che volevo nello script fosse poi tradotto nel film, quindi non è tanto difficile, anzi mi piace la regia, è molto meglio
della scrittura. Scrivere è un lavoro solitario, ti trovi da solo faccia a faccia con i tuoi peggiori demoni ed è terribile, nessuno può aiutarti. Invece sul set tutti sono lì per aiutare il regista! Gli attori e il direttore della fotografia con la loro esperienza vogliono aiutarti. E’ molto più difficile fare lo scrittore, sul set ti portano il caffè quando vuoi, mentre quando scrivi a casa tua devi farti il caffè da solo.
Quando scrivi hai in mente un pubblico di riferimento?
No mai. Credo che l’unico impegno e la sola responsabilità che abbiamo come scrittori sia nei confronti dei personaggi. E non bisogna mai dare ascolto alle parti cattive di noi stessi, ai dubbi. Nel mio secondo film avevo una scena con una ragazzina che aveva a che fare con lucertole e scarafaggi e a un certo punto ho pensato “Come farò a dirigere questa scena?” e mi sono detto “Stai zitto!” ci penserai quando ci arrivi. Non so per gli altri, ma la mia voce come scrittore è molto debole e fragile e se lascio entrare altri pensieri e preoccupazioni finirà per esserne danneggiata. Quindi devo fare molta attenzione a non pensare a niente eccetto, non me stesso, ma i personaggi. A volte scrivi qualcosa e poi ti chiedi: “Cosa penseranno quando vedranno questa scena?” e non si può pensare così, è il tuo personaggio, è lui che vuole così, tu come scrittore non hai responsabilità.
E come scegli i tuoi personaggi?
Sono loro che scelgono me. Penso che quando scrivo come si deve in realtà sto canalizzando, non scrivendo. Mi si scalda la testa, sudo molto e di solito scrivo in mutande. Mi ricordo che mentre stavo scrivendo Ano Bisesto, il mio primo film, una volta alle tre di notte all’improvviso ho esclamato: “OH!”. Come prima cosa ho avuto paura di svegliare mia moglie e ho realizzato che l’avevo detto a voce alta, ma perché l’avevo fatto? E l’ho fatto perché nel dialogo qualcuno aveva detto qualcosa che
non mi aspettavo. E mi sono chiesto: ma come fai a dire questa cosa? Un momento, ma chi è che sta scrivendo? Perché non ero io! E ho capito che quando stai veramente scrivendo come si deve non sei per niente in controllo. I personaggi fanno quello che vogliono e tu stai solo leggendo.
Tu sei originario dell’Australia, poi ti sei trasferito in Messico e Early Winter è ambientato e girato in Canada. Come mai hai questa esperienza di viaggio continuo?
Quello che cerco di raggiungere è il fatto che le persone sono universali, non importa da dove vengano. Puoi essere russo e vivere in Canada, o venire dall’Australia e stare in Messico, o trasferirti da una grande città come Città del Messico in un piccolo villaggio. I miei film sono molto legati ai luoghi e stranamente i personaggi vengono spesso da altri posti, sono in qualche modo stranieri, intrappolati in un posto a cui non appartengono. Questo è un po’ inquietante, ma c’è sempre un profondo senso di spaesamento.
Il direttore del festival Barbera ha dichiarato che ci sono troppi film low budget che diventano film di cattiva qualità. Tu cosa ne pensi?
Non sono d’accordo. Ho girato il mio primo film con nulla, qualcosa tipo 15.000 dollari. Penso che bisogna essere intelligenti e scrivere per il budget che si ha a disposizione. Se sai che non puoi avere molti soldi devi scrivere una sceneggiatura con due persone in una stanza e devi essere abbastanza bravo per rendere la sceneggiatura profonda e interessante e piena di tensione. E si può fare, ma è necessario scrivere, devi sapere quello che stai facendo e prenderlo sul serio. Per me è un limite interessante, un limite che ti può liberare a volte. Se sai che non puoi andare da nessuna parte, sei chiuso dentro una stanza, devi davvero saper scrivere per arrivare a delle rivelazioni dei personaggi, a dei segreti nascosti, elementi che ti portano più in profondità nei personaggi. Per avere movimento drammatico se non ti puoi spostare fisicamente, devi comunque andare da qualche parte e devi andare a fondo, all’interno, per svelare strati di verità. Bisogna essere consci del budget, non puoi scrivere Star Wars per una produzione da 100.000 dollari. Penso sia questo che porta a una cattiva
qualità, quando il concept del film non è pensato per il low budget.
Credi sia utile lavorare perché si dia più riconoscimento al ruolo dello sceneggiatore? Di solito è il regista ad essere considerato autore del film, mentre lo sceneggiatore non ottiene molto credito, sia economico che artistico.
Sì, questa tendenza viene da Hollywood, negli anni venti i registi avevano molto potere, perché su un film erano loro a fare tutto quanto. Poi man mano che l’industria cresceva i produttori hanno cominciato a chieder più film e un regista non poteva fare un film ogni 4 anni, ma doveva farne un paio l’anno. Così i registi hanno detto: “Bene lo possiamo fare, ma abbiamo bisogno di uno script. Portami uno di quegli idioti scribacchini e potrai avere il tuo Romeo e Giulietta nel mondo dei gangster”. Quindi prendevano la sceneggiatura e la filmavano come volevano, cambiando quello che volevano, perché era il regista ad avere il potere e la firma del film. Era sempre un film di (il regista) e
poi scritto da (lo sceneggiatore). Io credo che per i credits dovrebbe essere il contrario, perché il lavoro più difficile a livello creativo è quello della sceneggiatura. Per me dovrebbe essere un film di (lo sceneggiatore) diretto da (il regista). E questo è qualcosa che farò nel mio prossimo film, di mettere il mio nome come sceneggiatore prima. A film by Michael Rowe, directed by Michael Rowe.
Puoi dirmi qualcosa sul tuo prossimo progetto?
Un sacco di sesso!
E’ un buon modo per mostrare senza linguaggio, il sesso è comunicazione senza parole…
Sì, esattamente. Quindi un sacco di sesso!

Intervista a cura di Fosca Gallesio
Traduzione in italiano di Fosca Gallesio

VENEZIA 72: SCRITTORI A VENEZIA – JAKE MAHAFFY

Dal sito ufficiale della Mostra

SCRITTORI A VENEZIA
Writers Guild Italia (WGI) incontra gli sceneggiatori presenti con le loro opere alla 72° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2-12 settembre 2015)

FREE IN DEED
Scritto da… Jake Mahaffy
Jake Mahaffy ha scritto Free in Deed.

Il film è stato presentato in concorso nella sezione Orizzonti.

Jake, grazie per aver accettato la nostra intervista. Cominciamo dal pitch: puoi dirci la storia di Free in Deed in poche battute?
Basato su una storia vera, e ambientato nel particolare mondo delle “storefront churches” (ndr: chiese di fortuna ricavate in un negozio), Free in Deed parla di un uomo che cerca di compiere un miracolo. Quando una madre single porta suo figlio in chiesa perché lo guarisca, questo solitario ministro pentecostale è costretto ad affrontare la malattia del ragazzo – apparentemente incurabile – ma anche i propri demoni interiori.
Come ti è venuta in mente quest’idea?
Mi era capitato di leggere una notizia su una guarigione di fede nel 2004, e pochi mesi dopo, quando al SundanceLabs ne parlai con Michelle Satter, lei mi chiese se avessi una sceneggiatura da sviluppare, e io le risposi: ‘Si, certo!’. Subito dopo, scrissi una bozza basata vagamente sulla notizia, facendogliela leggere. Poche bozze più tardi, acquistarono il mio lavoro e cominciarono a realizzarlo.
Ho letto che ci sono voluto 10 anni per fare questo film: com’è andata di preciso? Suppongo che nel frattempo qualcosa sia cambiato dentro di te: pensi che il passare del tempo abbia inciso sul tuo lavoro creativo?
Sono cambiato molto negli ultimi dieci anni. A stento riconosco quella persona che ha iniziato a scrivere, e così fino al momento in cui è andata in porto la produzione vera e propria, mi sono trovato a dover reinventare la sceneggiatura per farla collimare con gli interessi di un mio ‘io’ diverso: avevo ormai superato quelle parti del progetto che mi avevano ispirato all’inizio, e così ho provato a tirar fuori qualcosa di totalmente nuovo. Un esempio? Ho introdotto una vena di sensualità creando una relazione tra i due protagonisti, che non esisteva affatto nella storia originale. È semplicemente un ‘tropo’ del film, però mi ha aiutato a mantenere l’interesse per il progetto fino alla fine, e ad
aggiungere più dimensioni alla narrazione.
Immagino sia stata una grande sfida raccontare una storia vera di questo genere. Credi di esser stato totalmente aderente alla realtà? Se sì, in cosa in particolare? E quando invece hai dovuto creare qualcosa di completamente fittizio – e perché?
L’aspetto ‘storia vera’ mi ha semplificato le cose, perché avere degli eventi reali a cui fare riferimento è utile per costruire struttura della storia e personaggi. Le componenti fittizie invece sono state le più impegnative: va bene cambiare la trama a patto che il tema rimanga aderente alla realtà, perché la prospettiva e l’emozione vengono prima di tutto. Il film doveva essere una sorta di tragedia estatica, e il tono elevato si è mescolato con un racconto di disperazione, per ricreare una certa dissonanza cognitiva e dipingere il vissuto di una persona che crede in alcuni valori… valori per cui più la gente soffre, più lui le sue convinzioni si rinsaldano.
Hai scritto ‘Free in Deed’ per conto tuo: ti vedi più scrittore o più regista? Come descriveresti il tuo processo di scrittura? Hai mai preso o prenderai in considerazione l’idea di scrivere a quattro o più mani i tuoi film in futuro?
Il mio processo di scrittura è doloroso: ho un sacco di idee e premesse e piani, ma sedermi e riversarle in un’intera sceneggiatura per me è semplicemente… sgradevole. Mi piacerebbe saltare direttamente a una sceneggiatura già pronta, o collaborare con un altro scrittore.
Hai avuto l’opportunità di lavorare sulla tua sceneggiatura sia al Sundance Institute Writer’s & Director’s Labs che all’Atelier di Cannes. Che cosa hanno aggiunto tali esperienze alla tua storia?
I laboratori del Sundance sono stati fantastici: fare un workshop sulla sceneggiatura e vedere l’apporto degli attori ai dialoghi, tramite l’aggiunta di sotto-testi e un tipo di narrazione emotiva… sono cose che non esistono sulle pagine: è stata una rivelazione per me. C’è un ‘timore reverenziale’ quasi religioso nei confronti della sceneggiatura, e per me è stata una sfida spiegare ad altre persone che ciò che conta non è la trama, ma come si raccontano le cose: è come un codice preparato per essere perfezionato da un sotto-testo.
Jake, il tuo è stato un percorso artistico unico fino ad ora: hai realizzato cortometraggi audaci e lungometraggi sperimentali con budget microscopici, che però sono riusciti a catturare l’attenzione di festival di alto livello. Hai fatto ‘di necessità virtù’ o hai deliberatamente scelto questo tipo di percorso?
Personalmente non ho mai preso in considerazione i lavori sperimentali: ogni film è stato il risultato di intenzioni e circostanze, e ognuno è una versione di ciò che sarebbe potuto essere a seconda di chi si è presentato sul set, di quanto hanno lavorato duramente le persone, del tempo, dell’attrezzatura e via dicendo. Però questo film è diverso, perché è il primo vero progetto che è andato in produzione e dove ho lavorato con una troupe e degli attori. La vera sfida, per me, non era tanto sapere cosa sarebbe stato diverso nel processo, o cosa si potesse fare con un budget reale (anche se basso): il punto è che prima non avevo nessun tipo di prospettiva sull’intero sistema, ora sì.
Un tema molto delicato da gestire… Una storia vera sconvolgente da ricreare… E dei  personaggi fortissimi e altrettanto lacerati da raccontare e mettere in discussione… Come sei riuscito a dare forma a una materia talmente complessa?
La regia è parte del processo di scrittura, così come la fase del montaggio. Quello che dobbiamo fare noi è solo sviluppare alcuni punti chiave della trama del film, poi il resto sta allo spettatore: la storia in realtà è quel che lo spettatore racconta a se stesso su quella determinata esperienza. Sicuramente il tema ha un’importanza primaria per la trama, perché è coinvolgente: evoca risposte emotive e permette allo spettatore d’impegnarsi nella comprensione del film (al contrario di quanto succede quando viene ‘imboccato col cucchiaino’ su ciò che sta succedendo). Dare movimento all’immaginario visivo è qualcosa da fare con esattezza, e in tal senso ellissi, intervalli e giustapposizioni nella ‘storia’ sono modi per reintrodurre mistero ed emozione visiva nel film. Vatrovato un equilibrio (e ognuno ha le proprie preferenze individuali in questo) tra narrazione esplicita e implicita: la trama dovrebbe essere bilanciata in modo da mantenere attenzione e lucidità, ma senza soffocare la vivibilità del film.
Hai mai pensato di andare incontro a un pubblico preciso mentre scrivevi Free in Deed?
No, non ho pensato al pubblico, perché è un esercizio poco gratificante: non riesco ad immaginare di passare 12 anni della mia vita impegnandomi in qualcosa a cui tengo, solo per vederla diventare poi un filmetto buffo o spaventoso su Netflix, su cui la gente clicca per caso dopo una lunga giornata di lavoro. Il mio interesse per un film risiede nel mio standard di autenticità verso il soggetto, e nella possibilità di creare qualcosa di nuovo. Non m’interessa soddisfare una nicchia di mercato: voglio impegnarmi con persone creative e a comprendere di più sull’essere umano… Ma purtroppo queste
due cose spesso non coincidono.
Il film ha avuto bisogno di modifiche allo script durante le riprese? Se si, quante?
Innumerevoli: ho perso il conto. È stato difficile, specialmente dopo aver passato dieci anni a scrivere e ad immaginare come sarebbe stato girato il film: tutto quel pianificare e rimuginare è approdato alla fine in un luogo reale con gente reale. Sapevo in anticipo che non ci sarebbe stata nessuna possibilità di girare la sceneggiatura per come era scritta, ma non sapevo quanto il lavorare con una troupe avrebbe cambiato tutto il processo, e poi… l’ho capito subito. Ma per questo progetto (più che ogni altro film realizzato in proprio) le mie aspettative e le mie speranze erano diventate un po’ troppo
rigide per effetto del lungo tempo di gestazione del film.
Abbiamo fondato la Writers Guild Italia due anni fa per difendere gli scrittori italiani, perché purtroppo i nostri diritti sono costantemente ignorati o violati in Italia. Cosa ne pensi del lavoro che fanno le Guild? Sei membro della Writers’Guild della Nuova Zelanda?
Non sono un professionista quindi non appartengo a nessuna Guild: non sono mai stato pagato per il mio lavoro da film-maker, ma se accadrà, un giorno potrò aderire a qualche associazione.
C’è qualche film italiano che ha influenzato il tuo sviluppo artistico?
In qualche modo sono riuscito a vedere Nuovo Cinema Paradiso quando ero solo un bimbo: ho iniziato cercando di darmi un’educazione cinematografica, e i classici europei mi hanno sempre affascinato – in particolare il cinema russo. I film italiani che per me sono stati fondamentali? Ladri di biciclette, Roma città aperta, La Strada, 8 ½, La battaglia di Algeri. Mi ricordo che ero entusiasta dell’atteggiamento politico sprezzante e dell’umanità di cui questi film erano intrisi: hanno acceso in me qualcosa che non avevo mai provato prima.
Che ti aspetti da Venezia?
Sono semplicemente grato del fatto che il film sia proiettato lì.

Intervista a cura di David Bellini, portavoce WGI a Los Angeles
Traduzione in italiano di Myriam Caratù

VENEZIA 72: SCRITTORI A VENEZIA – DAVID KAJGANICH

Dal sito ufficiale della Mostra

SCRITTORI A VENEZIA
Writers Guild Italia (WGI) incontra gli sceneggiatori presenti con le loro opere alla 72.
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2-12 settembre 2015)

A BIGGER SPLASH
Scritto da… David Kajganich
David Kajganich ha scritto A bigger splash. Il film diretto da Luca Guadagnino è stato
presentato in concorso nella sezione principale Venezia 72 ed ha sollevato molto clamore.

Ciao David, sono molto contenta di intervistarti perché è abbastanza raro trovarsi davanti a una collaborazione tra uno sceneggiatore americano e un regista europeo.
Sì, è vero e vorrei aggiungere che anche io sono molto ontento di fare questa intervista con la Writers Guild Italia, perchè credo molto nel lavoro delle guild.
Puoi farci un pitch del film?
E’ un remake molto libero del film del 1969 di Jacques Deray, La Piscine. Abbiamo fatto un remake perché per una produzione era un’opportunità economica, ma oltre a questo c’era un interesse artistico nel progetto, che consisteva nel tenere la struttura di fondo della storia de La Piscine e fare una scelta coraggiosa. La storia originale è un thriller e una prima scelta poteva essere andare in questa direzione, legando il thriller alle vite dei quattro personaggi. Ma questo non ci bastava, volevamo qualcosa di più complesso di un film di genere, cioè mettere in scena un dramma che utilizza i grandi archetipi del thriller tra Hitchcock e Chabrol, ma in maniera spiazzante. Alla fine il film non è propriamente un thriller, ma c’è una tensione che confonde lo spettatore così come la suspance dei prodotti del genere. E’ interessante adesso vedere come verrà promosso il film, spero che nessuno lo annunci come un thriller, perché credo che il pubblico possa restarne deluso. Magari, invece, se uno di aspetta un dramma, visto che c’è una certa tensione, sarà sorpreso dal gioco tra i generi: ci sono momenti di grande ansia, ma anche momenti di umorismo. E’ un miscuglio particolare di elementi e abbiamo deciso di farlo così, di andare in una direzione insolita per cogliere l’opportunità artistica di fare qualcosa di un po’ folle e sconvolgente. Anche gli attori non te li immagini in questi ruoli, e penso sia stato l’aspetto interessante del progetto: avevamo tutti voglia di fare qualcosa di strano.
Come sei stato coinvolto nel progetto?
Studio Canal aveva contatto Luca diverse volte per proporgli il remake e all’inizio lui non era interessato. Nello stesso periodo aveva in lettura delle mie sceneggiature per un progetto americano e nella mia scrittura ha trovato qualcosa che gli ha fatto pensare che potesse essere interessante lavorare insieme sul remake de La Piscine. E io ne ho approfittato e ho accettato subito, perché ho cominciato a lavorare per Hollywood già da dieci anni circa, ho scritto sceneggiature molto accurate e ambiziose, senza vederle realizzate o vedendole realizzate, ma riscritte dai registi o da altre persone. Così quando il film finalmente arrivava in sala non mi ci riconoscevo più, mi vergognavo a farlo vedere ai miei amici. Ero stufo di film con il mio nome sopra da cui mi sentivo lontano, che non riflettevano per nulla il lavoro che avevo voluto fare. Così ho colto al volo l’occasione di lavorare con una produzione europea, sperando in una collaborazione che fosse meno usa e getta. Ed è stato proprio così: ho avuto una stretta collaborazione con Luca e poi anche con gli attori, Tilda, Ralph, Matthias e Dakota. C’è stato molto lavoro comune sul racconto, c’era la voglia di far emergere dalla sceneggiatura gli aspetti che ognuno amava di più; c’è stato un costante lavoro di aggiustamento della sceneggiatura sul set, per mettere a frutto le interessanti discussioni che avevamo avuto sul clima ansiogeno del film, sulle relazioni personali, fino alle più piccole sottigliezze dei personaggi, che abbiamo sviscerato perché gli attori
volevano spingersi proprio a fondo. Quando hai delle persone molto dotate e loro ti dicono che vogliono prendersi più rischi, cercare dei toni meno standard, avere una struttura più libera… insomma do atto agli attori di aver cercato direzioni non banali. E’ stata una delle collaborazioni più belle che ho avuto, una cosa che a Hollywood non sarebbe mai potuta accadere.
Quindi tu hai passato molto tempo sul set?
Sì e per me è stata una cosa nuova e divertente. Ero già stato sui set, ma mai accanto al regista o a discutere delle scene con gli attori. Un tipo di collaborazione così stretta durante le riprese è impossibile in America. Noi scrittori, nonostante la forza delle nostre Guild, siamo messi in secondo piano dopo che il nostro lavoro è finito: è la prassi del processo produttivo, lo sceneggiatore fa il suo lavoro per primo ed è il primo ad essere allontanato dalle discussioni. Hanno l’impressione che ormai il tuo lavoro è fatto e che tu non hai più altro da dire se non ostacolare eventuali cambiamenti. E’ un pregiudizio che sopravvive, anche se la maggior parte degli sceneggiatori che conosco non sono così, non sono egoisti, non hanno l’obbiettivo di irrigidire il testo, anzi ci interessa poter sederci al tavolo e far parte del processo creativo dall’inizio alla fine. Luca mi ha dato la possibilità di capire com’è fare questo lavoro e non credo che mi riuscirà facile tornare a lavorare con gli studios in America, alle loro condizioni. Non capisco perché dovrei assoggettare la mia libertà in questo modo, quando posso lavorare con collaboratori attenti al mio lavoro e formare una specie di famiglia durante la realizzazione di un film: questo in America è impossibile.
Lo scrittore, effettivamente, è l’unica persona presente fin dall’inizio sul progetto del film: come mai non viene coinvolto nel processo produttivo?
Non saprei. Tra l’altro c’è una necessità tecnica nell’avere lo scrittore sul set per risolvere i problemi di sceneggiatura: per esempio quando si cambia una location o quando una scena non funziona… Ci sono moltissimi problemi che possono capitare sul posto e perché non avere la persona che conosce meglio la storia del film presente sul set per aiutare a trovare una soluzione? Ogni produzione è piena di inciampi, piccole difficoltà anche solo per il tipo di riprese in locations difficili e remote: non sempre si possono fare le cose come previsto. Per me è stato molto bello individuare cinque alternative ad una scena che sembrava si potesse girare in un solo modo.
Riguardo al tuo lavoro con gli attori, ho letto che l’idea che la protagonista non possa
parlare è un’idea di Tilda Swinton. Si ed è venuta da un processo molto interessante: avere un attore così impegnato nella preparazione di un film è raro. Gli attori sono stati tutti fantastici nel loro lavoro, hanno fatto molte ricerche e preparato molto a fondo i loro ruoli in rapporto alle emozioni più di pancia dei personaggi. In origine, in sceneggiatura, Marianne Lane era un’attrice inglese che doveva imparare l’accento americano: quindi le avevamo già dato un problema con la voce, problema però che per Tilda era innaturale. C’erano molti momenti in cui lei avrebbe dovuto esprimersi con i due diversi accenti e non riusciva a passare dall’uno all’altro: così qualcuno aveva messo in dubbio la sua capacità di interpretare il ruolo, perché non era in grado di parlare correttamente. La decisione di Tilda è stata una bella sfida per noi: ci ha detto che voleva provare a rimuovere questo elemento dal film e vedere se il film reggeva anche senza che lei parlasse. Ed è stata un’idea interessante, anche perché il suo personaggio, Marianne, era quello che aveva il maggior numero di battute nella sceneggiatura! Mi ricordo di aver ricevuto una telefonata di Luca che mi ha detto: Sei seduto? E ha detto che aveva parlato con Tilda e lei aveva avuto l’idea che Marianne non parlasse nel film. Io ho pensato che non avevo idea di come farlo, ma che ci avrei provato. Poi Tilda ha invitato me e Luca in Scozia a casa sua, dove abbiamo passato una settimana a rivedere la sceneggiatura, discutendo tutte le battute che diceva, cercando di capire quali era irrinunciabili. Sarebbe stato anche bello non farla parlare per tutto il film, ma purtroppo così non sarebbero arrivate fondamentali informazioni emotive relative al suo personaggio, alcune delle quali erano molto specifiche. Quindi abbiamo avuto una specie di contrattazione sulle battute di dialogo da pronunciare fino a che siamo arrivati a quello che il film è adesso: credo che il risultato sia meraviglioso. Nella prima versione della sceneggiatura il personaggio di Marianne era una sorta di punto di riferimento per il resto del cast, lei cercava di mantenere gli altri con i piedi per terra, di evitare tensioni… Le abbiamo impedito di farlo, l’abbiamo messa in una condizione in cui se
parla, potrebbe rovinare la sua voce per sempre. Così volta che apre bocca, sai che è un rischio e quindi stai molto più attento a tutto quel che dice, perché sai che è una scelta che può avere conseguenze pericolose. Mi piace molto questo effetto.
E anche l’idea che il personaggio di Ralph Fiennes fosse un produttore musicale è venuta dopo?
No, sapevamo che lui sarebbe stato un produttore musicale e i Rolling Stones sono stati un po’ la musa del film. Credo che questo abbia portato a un’altra scelta di Tilda, quella di essere una rockstar, che mette il suo personaggio e quello di Ralph nello stesso mondo, mentre Paul ne resta fuori. Ha funzionato tutto molto bene e questo è merito di collaboratori che vengono da diverse discipline, io dalla scrittura, Luca dalla regia e Tilda dalla recitazione; confrontarsi sul materiale è stato ottimo e ha dato vita a quel senso di confusione armonica che mi piace molto nel film.
Si avverte questa atmosfera nel film, che c’è un linguaggio molto libero, c’è un aspetto drammatico, ma anche umoristico; anzi spesso l’ironia è usata nei dialoghi per mascherare i veri sentimenti dei personaggi. Quando devono dirsi cose difficili che possono essere poco piacevoli, allora le nascondono sotto l’umorismo.
Sì, quando hai quattro persone insieme in una casa devi far sì che la maggior parte delle comunicazioni non passi attraverso ciò che viene detto, i personaggi non acquistano spazio se rivelano le loro intenzioni a voce. E un bel modo per affrontare una situazione che può essere piatta e ridondante, utilizzando un approccio più naturalistico. Certo il film non è naturalistico, la regia è molto aggressiva e rock ’n roll. Ma credo che dal modo in cui le persone parlano nel film si capisce che sono quattro persone che si conoscono da molto tempo. Ogni personaggio parla in un modo solo suo. Mi ricordo una delle prime letture con il cast completo: è stata una bella dimostrazione di come una sceneggiatura possa aiutare gli attori, anche nel ritmo delle battute. Non succede mai a Los Angeles che qualcuno prenda una sceneggiatura e si preoccupi del ritmo del linguaggio! In America non siamo abituati a parlare di queste cose, perché la gente non va a teatro nello stesso modo con cui ci va in Europa. Il personale dell’industria cinematografica adora vedere i film in televisione… non
voglio generalizzare, ma non posso parlare dei più grandi drammaturghi della storia con
l’executive di uno studio. Ma in questo film per me è stato quasi commovente vedere che chiunque voleva cambiare anche solo l’ordine delle parole veniva a chiedermi il permesso! Te lo immagini? E naturalmente io rispondevo sempre: ma certo, come credi che sia meglio. Ci fidavamo davvero gli uni degli altri e sapevo che la sceneggiatura era davvero importante per tutti e questo non accade spesso in America.
Nemmeno in Italia: di solito dipende dal regista quanto si è più o meno rispettosi della sceneggiatura.
Ecco questa è una delle cose più importanti che può fare una Guild. Mantenere una
discussione viva, anche aggressiva se serve, sia con la comunità cinematografica che con il pubblico, per ricordare che queste cose non nascono spontaneamente sul set. C’è stata una campagna pubblicitaria a Los Angeles con le più famose battute del cinema e diceva: Qualcuno lo ha scritto. Una Guild è cruciale nell’educare la persone sull’importanza del nostro lavoro. Quando alla premiere di un film c’è il regista e non lo sceneggiatore è molto ingiusto. Essere stato invitato qui a Venezia, far parte del gruppo è un bellissimo privilegio, ma dovrebbe essere ovvio, troppo spesso lo sceneggiatore sta in secondo piano ed è un peccato. Gli sceneggiatori sono abituati a essere trattati così, io credo sia terribile e una Guild può davvero fare qualcosa a riguardo.
Si questa è una delle ragioni per cui abbiamo fondato la WGI e per cui facciamo queste interviste!
Sai lo sceneggiatore è come qualcuno che costruisce le fondamenta della casa, in alcune produzioni è proprio quello che costruisce la casa e venire trattato come quello che arriva alla fine solo per dipingere le pareti è una cosa orribile. Incoraggio la vostra Guild ad avere un tono aggressivo con i registi e i produttori e dire: non dimenticatevi che tutto parte da noi!
Ti è capitato di non riconoscere il tuo lavoro in un film?
Sì, specialmente una volta in cui avevo lavorato a un film per tre anni. Era una storia vera e ho impiegato molto tempo per la documentazione. Si trattava di un caso di cronaca in Oregon, dove un uomo aveva ucciso la moglie e i figli, molte delle persone coinvolte erano ancora vive e ho passato molto tempo ad intervistarle, garantendo loro che non si trattava di un film sensazionalistico, che volevo fare un dramma serio che sarebbe stato rispettoso, questo perché all’inizio nessuno voleva parlare con me. E’ difficile convincere le persone ad aprirsi se non si fidano di te, ma ci sono riuscito. E poi, due anni dopo, il regista ha preso in mano il film e la scrittura senza mai chiamarmi o scrivermi. Io gli ho offerto tutte le mie ricerche, ho proposto di raccontargli tutto quello che avevano bisogno di sapere, ma non abbiamo mai parlato. E quando ho visto il film ero sconvolto, perché sapevo che le persone a cui avevo promesso rispetto si sarebbero sentite tradite vedendo il film e avrebbero pensato che non avevo mantenuto la promessa. Il mio nome era nei titoli e nessun poteva dedurne quello che avevo o non avevo veramente fatto. E questo accade a tutti gli scrittori.
E’ terribile anche perché la scrittura è un lavoro molto personale, bisogna lasciarsi coinvolgere dalla storia che si racconta.
Sì, inoltre di solito lavori sulle più brutte esperienza che le persone possono avere, come la fine di un matrimonio e il rapporto con i figli, a me capita spesso di piangere al computer. Si entra nella testa dei personaggi e si provano le stesse emozioni che loro provano per essere in grado di trasferirle sulla pagina… Tutto questo non si vede. Voglio dire per un attore questo processo viene esplicitato sullo schermo, ma anche lo scrittore lo attraversa. E spesso si dimentica che anche lo scrittore come gli attori, certo non allo stesso livello tecnico, viene coinvolto con la sua empatia, devi essere un po’ attore per scrivere. Forse è proprio questo il motivo per cui non ci sono tanti scrittori sui set, perché hanno una visione così forte del film che bisogna avere molto controllo per non volerla imporre. Ma ripeto è per questo che è bello avere una Guild, ci sono molti benefici che si ottengono facendo parte di una Guild in America, non riesco a immaginare come sia possibile farne a meno. Dalla possibilità di firmare contratti collettive e scioperare se necessario, fino all’assicurazione sanitaria.
Una questione su cui si discute molto in Italia è il diritto d’autore, specialmente legato alle nuove piattaforme di distribuzione di contenuti.
E’ molto importante questa battaglia adesso, perché nessuno è pronto a darti una fetta della torta. In America stiamo discutendo lo stesso tema, se ci sarà un altro sciopero a breve sarà su questa questione. Perché gli studios non si muovono di un millimetro, non concedono nulla, perché sanno che gli introiti da queste piattaforme on line e dallo streaming cresceranno esponenzialmente nei prossimi anni.
Cosa ne pensi di Netflix? Qui a Venezia presentano il primo film che verrà distribuito contemporaneamente on-line e in sala.
E’ molto difficile che certi progetti vengano realizzati. Beasts of no nation era un progetto che difficilmente uno studio avrebbe accettato, forse solo con una grande star o con degli elementi di genere thriller che ne permettessero la vendita in tutto il mondo. E forse questi timori possono essere minori quando si passa su piattaforme come Netflix o Amazon. Penso che si sia un mutamento in America del sistema tradizionale degli studios. Credo che le grosse compagnie siano preoccupate, perché la strategia che hanno adottato negli ultimi anni, per portare la gente al cinema invece che a casa a guardare la tv – che peraltro sta diventando sempre migliore – è stata quella di fare film sempre più grossi, con super eroi e il 3D, sperando di poter salvare l’industria del cinema; insomma, credo invece che stiano capendo che anche questo tipo di storie devono esser ben costruite e ben recitate. E credo sia molto difficile, quando si gestisce un budget di centinaia di milioni di dollari, potersi prendere quei rischi creativi che danno vita a un buon prodotto. Sul fatto che Netflix abbia dato a Cary Fukunaga una piattaforma per un film su questo argomento (i bambini soldato in Africa, ndr) e gli abbiano detto di realizzarlo come voleva, non credo che ci siano aspetti negativi.
Non hai paura che il grande schermo finisca per scomparire?
Sì, ma allo stesso tempo non voglio farne un feticcio, non vorrei che lo schermo precludesse l’accesso. Forse nel caso di Beasts of no nation è un film che potrebbe essere mortificato dal piccolo schermo. Ma ho la sensazione che in futuro ci sarà più interazione tra la fruizione al cinema e quella in televisione, forse ci sarà una sovrapposizione. Non sarei sorpreso se in futuro Netflix aprisse una catena di sale nel paese, Sundance ne ha già una.
L’elemento positivo è che con il moltiplicarsi dei canali di fruizione aumenta la domanda di contenuti.
Sì, certo, poi se vedi alcuni film di Stanley Kubrick hanno un formato particolare, quadrato e perché credi che abbia fatto questa scelta? L’ha fatto perché immaginava che i suoi film sarebbero stati visti in televisione e il fatto che non fosse un problema per lui mi dà speranza, ovviamente non vedeva il grande schermo come un feticcio. Ed è interessante che adesso alcuni grandi registi di cinema stanno lavorando in televisione e adattano il loro linguaggio di messa in scena per questo tipo di fruizione.
Tornando a A bigger Splash, come vedi l’Italia? Mi sembra che nel film ci siano riferimenti a una vecchia visione che appartiene a Rossellini e al suo Viaggio in Italia e Stromboli, sei d’accordo?
Sì, certo, adoro l’Italia e ci ho passato molto tempo ed ero entusiasta di poter lavorare a un progetto qui, anche se non ero mai stato a Pantelleria. Per motivi economici è stato
impossibile vedere Pantelleria prima della scrittura del film ed è anche un posto su cui è
difficile fare ricerca on-line. Per fortuna ho trovato dei blog in inglese di persone che ci
hanno vissuto e ho studiato la storia dell’isola e sono stato sollevato quando alla fine per le riprese siamo arrivati a Pantelleria e mi appariva proprio come l’avevo immaginata in sceneggiatura. Ma devo dire un’altra cosa di Pantelleria: non appena Luca ha deciso di ambientarvi il film, abbiamo pensato che dovevamo confrontarci con il tema dei clandestini. Abbiamo discusso molto su come affrontarlo e so che c’è già stata un po’ di polemica sul fatto che nel film si faccia un uso opportunistico dell’argomento in rapporto alla storia principale. Vorrei dire che prima di tutto qualsiasi tipo di discussione su questo tema penso che sia un bene, il fatto che la gente ne parli è solo positivo. Poi dal nostro punto di vista la storia riguarda tre personaggi, escludendo Penelope, che guardano indietro al loro passato e stanno decidendo che cosa tenere del passato e come andare avanti in maniera serena: alcuni se la cavano meglio di altri e uno non ce la fa proprio. Volevamo mettere a confronto questo conflitto con qualcosa di molto più grande, con l’epica tragedia di persone che vengono dall’Africa e cercano di raggiungere l’Europa solo per mettere in salvo se stessi e le proprie famiglie. Per me era interessante accostare queste due emergenze e lasciare poi che fosse il pubblico a decidere come giudicarle.
E’ interessante perché ci sono questi personaggi ricchi e benestanti che vivono in una bolla e dall’altra parte la realtà dirompente dell’immigrazione che fa un grande contrasto.
Il film riguarda le conseguenze involontarie dell’amore, quando si dà a un altro l’accesso al proprio cuore in maniera viscerale e poi la relazione non funziona, ci si sente sempre legati all’altro e si farebbe qualsiasi cosa per proteggerlo. Nel film, i personaggi cercano di proteggersi l’un l’altro e questo porta a delle conseguenze; volevamo che il pubblico sentisse un’ambiguità morale, tanto che uno degli effetti è che i clandestini vengono indicati come una possibile causa di ciò che succede alla fine del film. Naturalmente nel film nessuno prende molto sul serio questa ipotesi, ma il fatto che questa scelta sia invece fatta da uno dei personaggi non è una cosa da poco, volevamo che fosse una decisione provocatoria, pensata per stimolare una discussione nel pubblico su quanto il personaggio si sia spinto lontano e sul fatto che questa decisione possa essere condivisa o meno. Non era una cosa semplice quindi non sono stato sorpreso di sentire dei fischi alla fine della proiezione, perché se si crede che il film sia stato superficiale sull’argomento, allora si protesta per qualcosa di cui ci
si preoccupa. Sono solo dispiaciuto che il film possa non essere stato compreso.

L’intervista in inglese e la traduzione in italiano sono a cura di Fosca Gallesio
Il testo originale si trova sul sito http://www.writersguilditalia.it

VENEZIA 72: SCRITTORI A VENEZIA – PIOTR CHRZAN

Dal sito ufficiale della Mostra

SCRITTORI A VENEZIA
Writers Guild Italia (WGI) incontra gli sceneggiatori presenti con le loro opere alla 72° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2-12 settembre 2015)
KLEZMER
Scritto da… PIOTR CHRZAN

Piotr Chrzan ha scritto e diretto Klezmer in concorso nella sezione delle Giornate degli Autori.
Piotr, la storia del film in poche righe?

Siamo nella campagna polacca, è il 1943: un gruppo di giovani trova un uomo ferito nella foresta e, poco dopo, scopre che si tratta di un ebreo… In Polonia solo ultimamente sono stati pubblicati dati e informazioni (prevalentemente da parte del Centro Polacco per la Ricerca sull’Olocausto, con sede a Varsavia) che possono farci immaginare come avrebbero potuto comportarsi le persone in una situazione del genere. In realtà, infatti, non avevano vere ‘opzioni’ a loro disposizione, a prescindere
da quelle imposte dal sistema di ricompensa e punizione della Germania nazista. Da questo punto di vista, quella di Klezmer è una storia inedita, e credo che valga la pena di essere raccontata già solo per questo.

Come ti è venuta in mente l’idea?

Be’, in realtà è da anni che mi occupo del tema dell’Olocausto, in particolare dei problemi di chi viveva nella campagna polacca sotto l’occupazione tedesca. Ho cominciato da bambino, da quando per la prima volta ho ascoltato le ‘storie di guerra’ raccontate dagli anziani del villaggio, dove a volte si mescolavano proprio questi due temi, l’Olocausto e la campagna polacca sotto il Nazismo. Per cui l’idea del film mi accompagna da sempre.

Più di settant’anni dopo l’occupazione nazista, l’industria cinematografica continua a produrre film importanti su quel tragico periodo dell’umanità. Pensi che sia perché abbiamo costantemente bisogno di ricordare, in modo da attrarre l’attenzione su alcuni problemi (come il razzismo, l’intolleranza, la violenza, ecc.) affinché rimangano reali e scottanti?

Temo che il potere didascalico dei film sia molto limitato, soprattutto di quelli che si sforzano di promuovere volutamente i comportamenti positivi e di condannare quelli negativi. A meno che non si tratti di film prodotti sotto un regime totalitario: in quel caso ci si rivolge a un pubblico  già ideologizzato, e si possono realmente rafforzare certi modelli di comportamento – ovviamente quelli auspicati dal governo – all’interno di una società. Comunque, al di là di queste mie riserve, credo che valga la pena fare film che raccontano un momento tragico dell’umanità, forse non tanto per il bisogno di ricordare, ma per quello di conoscere. In qualche modo, la conoscenza e la consapevolezza di ciò che sta alle radici del razzismo e del pregiudizio potrebbe in qualche modo diminuire il loro tragico effetto di propaganda contro persone e popoli che hanno culture, razze o
religioni diverse dalla propria.

Hai scritto Klezmer da solo, mentre prima avevi scritto altri progetti in collaborazione. Come ti sei trovato a lavorare da solo? Ci sono differenze?

Ci sono delle differenze talmente fondamentali che dopo Klezmer non ho nessuna intenzione di scrivere di nuovo una sceneggiatura a quattro o più mani. Credo di scrivere meglio quando lavoro da solo, perché non ho vincoli d’immaginazione e non devo dipendere dalle idee degli altri.

È il tuo debutto alla regia di un lungometraggio, e sta andando a Venezia: come vedi il tuo futuro inquesto campo?

Spero che Venezia, con le luci del Nord Italia, illumini il mio futuro all’interno di quest’industria, e faccia sì che io possa realizzare film che mi piacciono e che ho scelto autonomamente.

L’industria cinematografica polacca è una delle più quotate in questo momento: secondo te perché?

Non so: forse sono troppo vicino all’industria cinematografica polacca per percepirla come una delle più quotate del momento… Però sono contento che l’Europa o addirittura il mondo la vedano in questo modo!

Quali sono i punti forti della tua sceneggiatura? C’è magari un genere, un modello o un autore cui ti sei ispirato?

Se, senza modestia, dovessi parlare dei punti forti della mia sceneggiatura, penso che sceglierei quei momenti in cui il tono della storia cambia drammaticamente e, a tratti, radicalmente. Questi cambi sono dovuti sia a colpi di scena (per esempio, la scoperta di un uomo ferito) sia all’ingresso di nuovi personaggi (come la ragazza che ha un’idea totalmente diversa dagli altri su cosa fare dell’uomo ferito). Per quanto riguarda la seconda domanda, non posso indicare alcuna fonte d’ispirazione di cui sia conscio, ma neanche inconscio, a meno che non mi avvalga di un buon psicoterapeuta!

Qual è la tua scena preferita? Perché? E di cosa parla?

Se dovessi indicarne solo una, sceglierei quella col ragno: due personaggi stanno giocando con un ragno, e sembrano completamente distaccati dalla realtà della guerra. Lui è una persona semplice: un povero ragazzetto di campagna, mentre lei è una ragazza a modo e ben educata, che viene da una ricca famiglia ebrea metropolitana.

Qual è il filo narrativo principale della tua storia? Durante il tuo processo creativo come hai gestito il tema, i personaggi e le loro scelte?

Il protagonista ebreo del mio film (da cui il titolo), a causa di un esaurimento fisico (gli hanno sparato) e psicologico (ha perso ogni speranza di essere salvato), è quasi completamente passivo: ciò che fa o che dice non influenza minimamente le azioni o le decisioni degli altri personaggi. Uno scenario talmente drammatico, questo della situazione iniziale (la passività del protagonista, su cui tutte le azioni degli altri personaggi si concentrano), che mi ha permesso di mostrare come il modo in cui una persona tratta un’altra dipenda dai pregiudizi e dalle convinzioni che gli/le sono state
instillate. In Klezmer i personaggi sono portatori di una concezione negativa dell’ebreo, che deriva dai precetti del movimento nazionalista polacco e della Chiesa cattolica, nonché dalle superstizioni popolari. Klezmer dimostra come tali pregiudizi emergano in circostanze particolari, come ad esempio la guerra, e danno il via a vere e proprie devianze comportamentali. Spiegare come funzionano questi meccanismi di violenza sociale è senza dubbio uno dei temi principali di Klezmer. Riguardo la tua seconda domanda, come ho detto prima, mi ci è voluto molto per preparare la sceneggiatura di Klezmer. Ho familiarizzato con molti resoconti dell’epoca, e credo di aver acquisito
una conoscenza sufficiente per creare un setting adeguato alla storia, nonché per presentare i personaggi del film in maniera equilibrata e credibile.

Hai mai pensato di andare incontro a un target preciso mentre scrivevi la sceneggiatura?

Mi ci è voluto un mese per scrivere Klezmer, e ben di più per la preparazione preliminare – anche se probabilmente non quanto ci ha messo Giuseppe Tomasi di Lampedusa a scrivere Il Gattopardo. A scrittura finita poi, siamo passati subito alle prove dopo neanche un mese, per cui in realtà non c’è stata occasione di pormi questa domanda.

Il film ha avuto bisogno di modifiche allo script durante le riprese? Se sì, quante? Ti sei mai sentito in conflitto con il tuo ‘io regista’?

Sì, qualcosa è stato cambiato, ma non per necessità produttive: più che altro è stato per attribuire una dimensione metaforica e simbolica – a livello di sceneggiatura – ad alcune scene che potevano risultare troppo riduttivamente realistiche. Per quanto riguarda il conflitto col mio ‘io regista’, devo dire che non c’è stato, e uno dei motivi è perché avevo già diretto l’intero film nella mia testa mentre scrivevo la sceneggiatura.

Abbiamo fondato la Writers Guild Italia due anni fa per difendere i diritti e gli interessi degli scrittori italiani. Cosa ne pensi del lavoro che fanno le Guild? Sei già un membro dell’associazione degli scrittori polacchi? Come definiresti le condizioni lavorative degli scrittori e più in generale di chi fa film nel tuo paese?

Purtroppo non mi sento in grado di rispondere a questa domanda, perché non appartengo a nessuna associazione di scrittori polacchi: essendo solo all’inizio della mia carriera come scrittore e filmmaker, spero di potervi dire qualcosa di più sulle condizioni lavorative nel mio Paese tra qualche anno… Chissà, magari proprio in occasione di un altro Festival del Cinema di Venezia!

C’è qualche film italiano che consideri fondamentale nel tuo percorso artistico?

Se dovessi compilare un elenco dei Paesi con il maggior numero di film che ha influenzato il mio sviluppo artistico, l’Italia ne sarebbe sicuramente in cima – mentre non sono sicuro di quale Paese verrebbe al secondo posto. Quindi, invece che citare tutti i capolavori italiani nel campo del cinema, mi limiterò a due titoli, che trovo abbiano molto in comune con l’approccio che ho usato nel presentare il tema dell’Olocausto in Klezmer. E sarebbero: La vita è bella di Benigni e Il giardino dei Finzi-Contini di de Sica. Perché questi? Probabilmente perché non amo (e alcuni addirittura li odio) la maggior parte dei film sull’Olocausto: penso che dal punto di vista estetico e morale richiamino il
tema troppo sfacciatamente, senza tante cerimonie e addirittura con una certa volgarità. Però de Sica e Benigni, al contrario, hanno saputo raccontare con maestria delle storie immerse in un momento tragico dell’umanità: in modo raffinato e sottile, ma anche con chiarezza e grande forza.

Un film o una serie TV italiana recente che ti ha colpito particolarmente?

Di serie TV, Gomorra: non vedo l’ora che vada in onda la seconda stagione. Per i lungometraggi avrei un problema nel deciderne uno (di film italiani c’è l’imbarazzo della scelta!) quindi ne scelgo quattro: Il Capitale Umano di Paolo Virzì, Le Meraviglie di Alice Rohrwacher, L’uomo che verrà di Giorgio Diritti e la versione cinematografica del libro di Saviano (non citerò “La grande bellezza”, dato che probabilmente lo faranno tutti). Non vedo l’ora di avere un attimo di tempo per vedere Mia madre di Nanni Moretti: mi lascerò volentieri sconvolgere dal film del mio regista preferito!

Come hai saputo che il tuo film è stato selezionato per Venezia? Cosa ti aspetti dal Festival?

Se non fossi calvo, probabilmente ora avrei i capelli grigi, perché dal momento in cui io e il mio produttore abbiamo scoperto che Klezmer era arrivato nella shortlist per le Giornate degli Autori, fino a quello in cui il produttore ha ricevuto la comunicazione e mi ha urlato dalla stanza accanto “Siamo stati invitati!”, sono passati parecchi giorni: parecchi, ma lunghi ed eccezionali. E nonostante sia molto nervoso, penso che sopravvivrò al Festival!

Intervista a cura di David Bellini, portavoce WGI a Los Angeles
Traduzione in italiano di Myriam Caratù