19° FAR EAST FILM FESTIVAL – MY UNCLE di Nobuhiro Yamashita

TITOLO: MY UNCLE; REGIA: Nobuhiro Yamashita; genere: commedia; anno: 2016; paese: Giappone, cast: Ryuhei Matsuda, Riku Ohnishi; durata: 110′

Presentato in anteprima alla diciannovesima edizione del Far East Film Festival, My uncle è una divertente commedia diretta dal regista giapponese Nobuhiro Yamashita.

È questa la storia del giovane Yukio: un bambino dotato di grande sensibilità e molto maturo per la sua età al quale viene chiesto, a scuola, di scrivere un tema su di un adulto di sua conoscenza. Chi potrebbe essere, dunque, il prescelto, se non lo zio che vive a casa con lui? Pigro e taccagno, appassionato di filosofia ed imbranato, l’uomo non ci metterà molto a colpire l’attenzione della maestra di Yukio, la quale deciderà di far partecipare il ragazzo ad un concorso extrascolastico, dove verrà conferito un importante premio a chi avrà scritto il tema migliore. Yukio vincerà, dunque, un viaggio per due persone alle Hawaii e deciderà di andarci proprio con suo zio, il quale nel frattempo si è perdutamente innamorato di una ragazza appena trasferitasi lì.

Se si pensa alla cinematografia di Yamashita, questo suo penultimo film risulta quasi come “staccato” dal resto dei suoi lungometraggi. Interessante l’idea di dar vita ad una commedia brillante, ma, forse, malgrado la qualità nel complesso alta del prodotto in sé, con troppo poco nerbo il risultato finale, se si vuol ripensare, appunto, ad altri lavori dell’autore. Il problema principale è, in questo caso, proprio la gestione dei tempi: parte piuttosto bene la storia nel momento in cui Yukio inizia a scrivere il tema su suo zio. Anche la voce narrante del ragazzo risulta, qui, particolarmente appropriata. Lo stesso non si può dire per quanto riguarda la seconda parte del film, precisamente dal momento in cui i due partono per le Hawaii: il tono iniziale cambia inevitabilmente, le gag risultano eccessivamente forzate e tutto viene tirato per le lunghe. Stesso discorso vale per quanto riguarda la pseudo storia dello zio con la ragazza di cui è innamorato, così come per personaggi che sembrano creati ad hoc per fare da riempitivi, ma che, di fatto, risultano decisamente inutili al fine di far procedere la narrazione. Uno di questi è, ad esempio, l’uomo che lavora nella piantagione di caffè della ragazza dello zio.

Detto questo, però, non mancano momenti interessanti come le scene che vedono i due, zio e nipote – entrati a tal punto in sintonia da indossare addirittura camicie uguali – chiacchierare in riva al mare. Così come proprio quasi tutta la prima parte del film, dove le trovate comiche funzionano alla perfezione: esilaranti i tentativi da parte dello zio di estorcere dei soldi a Yukio per comprarsi dei manga o la sua ricerca spasmodica di lattine per raccogliere il maggior numero di bollini possibile al fine di avere la possibilità di vincere un viaggio alle Hawaii. Il regista, dal canto suo, ha saputo ben raccontare il mondo dal punto di vista del bambino. Un mondo dove, di base, fanno da padroni colori pastello, brevi inserti di animazione ed atmosfere al limite del surreale. Per la sua attenzione nei confronti dell’infanzia potrebbe addirittura, in alcuni momenti, far pensare a Hirokazu Kore’eda, anche se, in questo caso, ci troviamo di fronte ad un prodotto di tutt’altro genere.

Ma, di fatto, è proprio il personaggio dello zio la vera peculiarità di questo lavoro di Yamashita. Talmente ben scritto e ben interpretato dal bravo Ryuhei Matsuda, trova il suo completamento ideale al fianco del giovane nipote. Una coppia talmente ben riuscita, la loro, da far pensare anche ad un possibile sequel. E chissà che non ci abbia pensato lo stesso Yamashita, nel momento in cui ha optato per una sorta di finale aperto con l’ultima parola lasciata al gatto di casa!

VOTO: 7/10

Marina Pavido

19° FAR EAST FILM FESTIVAL – 52HZ, I LOVE YOU di Wei Te-sheng

MV5BNjhhZTlhNzQtYzI0ZC00ZTVlLTgxN2QtZjAwY2NjY2EwMjg1XkEyXkFqcGdeQXVyNzI1MDI2OTY@._V1_SY1000_CR0,0,1499,1000_AL_TITOLO: 52HZ, I LOVE YOU; REGIA: Wei Te-sheng; genere: musical; anno: 2017; paese: Taiwan; cast: Chuan-Ying Chuan, Chung-Yu Lin; durata: 110′

Presentato in anteprima alla diciannovesima edizione del Far East Film Festival, 52HZ, I love you è un musical diretto dal regista taiwanese Wei Te-sheng.

Taipei. Mattino. Ora di punta. La strada è gremita di automobili ferme per il troppo traffico. Una ragazza improvvisamente esce dall’auto, prende un monopattino e, intonando le note di una canzoncina orecchiabile, prosegue dritta per la strada. È il giorno di san Valentino e – tra amori non corrisposti, storie che durano da tanto tempo e che sono ormai al capolinea e coppie gay che sognano di sposarsi e di avere una famiglia tutta loro – tutti sono, chi più, chi meno, in vena di fare festa.

L’inizio, ovviamente, è quello del fortunato lungometraggio di Damien Chazelle, dunque. Il resto è un mix tra l’intramontabile Singining in the rain di Stanley Donen, il bellissimo Les parapluies di Cherbourg di Jacques Demy e lo stesso La La Land. Salvo che, al contrario dei lavori sopra menzionati, quello che questo ultimo lavoro di Wei Te-sheng vuole essere è un inno all’amore universale, senza se e senza ma, comprensivo di tutti i possibili clichés in cui si può incappare affrontando un tema abusato come questo.

Niente ombrelli ma rose rosse, stavolta. Niente Cathrine Deneuve – con tanto di madre dispotica al seguito – ma una giovane fioraia innamorata dell’amore con una zia che vuol essere cinica ma che, in fondo, non sembra proprio riuscirci. Fatta eccezione per le scene in interni, le strade di Taipei – ricostruite rigorosamente in studio, come da tradizione – stanno tanto a ricordarci i musical della Hollywood degli anni d’oro (oltre, ovviamente allo stesso Les parapliues de Cherbourg), quei musical gloriosi resi ottimamente sul grande schermo dallo stesso Stanley Donen, da Vincent Minnelli e compagnia bella. Ce li ricorda, o almeno vorrebbe ricordarceli. Vorrebbe ma non ci riesce. Se non altro i lavori sopra citati si sono distinti a loro tempo (anche) per delle ottime coreografie, cosa che qui pare sia stata quasi saltata a pie’ pari. Probabilmente anche involontariamente o, meglio ancora, inconsapevolmente.

L’amore qui raccontato è banale, estremamente idealizzato, non fiabesco ma irreale per il suo essere così costruito. Talmente finto nella sua rappresentazione da rendere il lungometraggio quasi un puro divertissement, un omaggio all’Omaggio al Cinema (l’Omaggio per eccellenza di cui si è tanto parlato ultimamente), privo di uno sguardo soggettivo dell’autore, così come di ogni qualsivoglia personale peculiarità. Un film apparentemente senza pretesa alcuna. Se non fosse per il fatto che l’autore stesso lo ha definito scherzando (ma non troppo) addirittura più bello di La La Land.

VOTO: 4/10

Marina Pavido

19° FAR EAST FILM FESTIVAL – OVER THE FENCE di Nobuhiro Yamashita

newmain-1540x866TITOLO: OVER THE FENCE; REGIA: Nobuhiro Yamashita; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Giappone; cast: Joe Odagiri, Yu aoi; durata: 112′

Presentato in anteprima alla diciannovesima edizione del Far East Film Festival, Over the fence è il penultmo lavoro del regista, sceneggiatore ed attore giapponese Nobuhiro Yamashita.

Shiraiwa è un quarantenne fresco di divorzio. In attesa di trovare un nuovo impiego si trasferisce al suo paese natale ed inizia una scuola di falegnameria. Una sera, in un locale, incontra la bella e stravagante Satoshi, una cameriera che sa imitare alla perfezione i versi degli uccelli e che, tuttavia, dimostra anche qualche segno di squilibrio mentale. Non sarà facile per i due venirsi incontro ed imparare a conoscersi.

Basterebbero, in realtà, solo i due protagonisti come unici attori sullo schermo, affinché questo ultimo lavoro di Yamashita funzioni. Perché, di fatto, in tutta la loro stranezza sono entrambi talmente perfetti e magnetici da catalizzare immediatamente su di loro l’attenzione. Shiraiwa ha un passato difficile: la sua ex moglie ha cercato di soffocare la loro figlioletta di pochi mesi. E se fosse lui stesso il responsabile della follia della donna? A comprendere ciò può aiutarlo soltanto Satoshi, considerata da tutti eccessivamente sopra le righe, quasi al limite della pazzia. Un uccello prigioniero all’interno di una gabbia costruita dalle più grette convenzioni sociali, alle quali non ha mai voluto adattarsi. È per questo, forse, che solo immedesimandosi nei volatili può immaginare di riuscire a volare lontano dal posto in cui vive. Probabilmente, però, per riuscire a spiccare davvero il volo oltre le barriere della gabbia in cui si trova, avrà bisogno di un compagno, al quale, magari, lei stessa potrà insegnare a volare.

Fin da subito Yamashita, nel raccontarci questi due singolari personaggi, lavora di sottrazione: non vi è spazio – se non quando strettamente richiesto – per dialoghi superflui o musiche ingombranti. Ciò che viene detto ci dà solo una chiave per interpretare il tutto. Le azioni dei due protagonisti sono, a tal proposito, decisamente significative: mentre Satoshi cerca di abbattere le barriere che la circondano liberando tutti gli uccelli dalle gabbie nel luna park in cui lavora, Shiraiwa, dal canto suo, non fa che costruire una sorta di “gabbia” in legno presso la scuola che sta frequentando. Solo con il tempo – e con un lungo, difficile e spesso doloroso percorso interiore, i due riusciranno finalmente a sincronizzare le loro azioni puntando verso uno stesso obiettivo.

Nel frattempo saranno scene di grande poesia e di grande potenza visiva a raccontarci passo passo la loro storia. Di notevole bellezza, a tal proposito, il momento in cui i due ragazzi, di notte, dopo aver raccolto nel luna park deserto una grande quantità di piume di uccelli, le lasciano volare via una dopo l’altra mentre viaggiano in scooter. Momenti che potrebbero essere definiti quasi al limite del surreale che solo uno sguardo attento come quello di Yamashita – il quale, a sua volta, sembra non disdegnare affatto eventuali suggestioni dalla cinematografia del collega Takeshi Kitano – riesce a catturare così bene.

L’unica pecca – se così può essere definita – di Over the fence è, in realtà, una seconda parte eccessivamente telefonata che va a terminare in un finale pericolosamente retorico. Ma, si sa, per la piega che il lungometraggio ha preso fin dall’inizio, aspettarsi un esito del genere è quasi scontato.

Dato il regalo che ci ha fatto con questo suo lavoro, però, scivoloni del genere li si perdona facilmente ad un cineasta come Nobuhiro Yamashita. Il quale, giusto per restare in tema, malgrado la giovane età, il volo lo ha già spiccato da diversi anni.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

19° FAR EAST FILM FESTIVAL – VANISHING TIME: THE BOY WHO RETURNED di Um Tae-hwa

vanishtimeyoungTITOLO: VANISHING TIME: THE BOY WHO RETURNED; REGIA: Um Tae-hwa; genere: fantasy; anno: 2016; paese: Corea del Sud; cast: Kang Dong-won, Shin Eun-soo; durata: 129′

Presentato in anteprima alla diciannovesima edizione del Far East Film Festival, Vanishing time: the boy who returned è l’ultimo lavoro del giovane cineasta sudcoreano Um Tae-hwa.

Una bambina solitaria appassionata di esoterismo. Un compagno di classe innamorato di lei. Un gruppo di amici e la voglia di vivere ogni giorno nuove avventure. È da qui che prende il via tutta la vicenda. La freschezza, la gioia di vivere dei protagonisti fa sì che tutti noi durante i primi minuti torniamo con la mente inevitabilmente a Stand by me. Eppure, nel momento in cui i ragazzi scoprono un misterioso uovo fluorescente all’interno di una grotta, ecco che la situazione sembra prendere tutta un’altra piega: in seguito alla rottura dell’uovo la terra inizia a tremare, la giovane protagonista – allontanatasi per un attimo dal gruppo – si ritrova da sola ed i suoi amici sembrano misteriosamente scomparsi. Sarà proprio lei, unica superstite, ad essere accusata dalla gente del luogo per quanto riguarda la responsabilità dell’accaduto. Ma, di fatto, cos’è che è realmente accaduto?

Ed ecco che il tempo fa il suo gioco, arrestandosi apparentemente per il mondo intero ma continuando a scorrere solo per pochi altri, i quali, a loro volta, saranno inevitabilmente costretti a pagarne le conseguenze.

Dall’altro lato abbiamo la società: severa, impietosa, timorosa nei confronti di ciò che è “diverso”. Quasi come se, con le sue leggi rigide e severe, costringesse ogni singolo abitante ad essere in un determinato modo, giudicandolo e sorvegliandolo costantemente. Molto interessante, a tal proposito, il ruolo che il regista ha assegnato alle telecamere: è inquadrato in dettaglio, non appena partono i titoli di testa, l’obiettivo, ancora chiuso, della telecamera di un’assistente sociale che sta per intervistare la bambina; nel momento in cui tale obiettivo si apre, ecco che prende il via la vicenda. Sono numerose telecamere, tra l’altro, ad essere disseminate per tutta la cittadina. A loro il compito di fermare ogni eventuale sospetto. Sì è costantemente osservati, ogni piccolo gesto viene registrato. Guai a chi prova a sgarrare.

Dal canto suo, anche la location dove si svolge la vicenda è alquanto indicativa: una piccola cittadina circondata da fitti boschi su di un’isola che sembra essa stessa fuori dal tempo. Un’isola da cui non è facile andare via. Un’isola che, in luce di quanto appena detto, diviene degna e fedele trasfigurazione di ciò che è oggi la Corea del Nord.

Dall’altro lato, però, abbiamo il mondo dei bambini. L’unico mondo ad essere rimasto “incontaminato”. Un mondo dove l’amicizia, l’amore, la libertà fanno da protagonisti assoluti insieme a dettagli di volti, di sorrisi, di occhi, di piccoli ma preziosi oggetti messi in risalto da una regia attenta e curata, dove nulla è lasciato al caso. Un mondo, questo dell’infanzia, che, alla fine dei giochi, non può non risultare vincitore assoluto.

Peccato che, al termine di un’operazione così interessante, Um Tae-hwa abbia calcato un po’ troppo la mano, inquadrando i due protagonisti – la bambina ed il suo migliore amico – su di una nave completamente vuota che naviga libera in mare. Tuttavia viene facile perdonare piccole cadute di stile del genere, se si pensa al prodotto nel suo intero. Malgrado, infatti, la relativamente poca esperienza del cineasta coreano, il risultato finale dimostra indubbiamente una straordinaria maturità. Evidentemente l’aver fatto per anni da aiuto regia al grande Park Chan-wook la differenza la fa eccome.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

19° FAR EAST FILM FESTIVAL – AT CAFE’ 6 di Neal Wu

e8517c51e9TITOLO: AT CAFÉ 6; REGIA: Neal Wu; genere: commedia, drammatico; anno: 2016; paese: Taiwan; cast: Zijian Dong, Cherry Ngan; durata: 103′

Presentato in anteprima alla diciannovesima edizione del Far East Film Festival, At Café 6 è l’opera prima del regista taiwanese Neal Wu, tratta dall’omonimo romanzo dello stesso autore.

Quanto può essere forte un amore nato tra i banchi di scuola? Dove è capace di arrivare la vera amicizia? È possibile che una storia resista alla distanza? Sono questi tutti gli interrogativi che il regista qui si pone, raccontandoci le vicende di Guan Ming-lu, studente liceale innamorato della bella Xin-rui. Tra litigi tra compagni di classe, gite e scherzi tra amici, i due alla fine si metteranno insieme. Le cose, però, si faranno complicate nel momento in cui i due ragazzi andranno a frequentare due università diverse.

Che questa sia l’opera prima del regista taiwanese si intuisce facilmente. Innanzitutto, ciò che contraddistingue At Café 6 è una particolare freschezza, una gioia di vivere che permea soprattutto la prima parte del film. È questo il momento in cui, spesso e volentieri, il montaggio sembra seguire delle regole tutte sue, quasi volesse seguire il ritmo di una musica ideale. Non a caso, infatti, è la stessa musica a fare da protagonista in molte sequenze (interessante, a tal proposito, la scena della rissa tra ragazzi, montata per intero al ralenty, con le note di Johann Strauss in sottofondo), stando quasi a ricordare un videoclip. Nella seconda parte del lungometraggio, però, le cose cambiano radicalmente: al via, ora, attese, viaggi, silenzi, litigi ed incomprensioni. Il tutto raccontato con una messa in scena decisamente più classica: montaggio lineare, uso moderato della musica, regia curata ed essenziale. Quasi come se la freschezza dell’adolescenza fosse pian piano svanita. Non sempre Neal Wu riesce a gestire come si deve tale cambio di registro. Più che altro fatica parecchio a dare al tutto una certa, necessaria fluidità. Stesso discorso vale per la gestione dei numerosi flashback presenti: troppi, troppo frequenti, decisamente eccessivi e a volte fuorvianti per una storia che pur partendo bene, man mano che ci si avvicina al finale tende ad essere sempre più forzata e stiracchiata, fino a risultare addirittura troppo caricata. Con tanto di inutile spiegone subito dopo i titoli di coda.

Nonostante ciò, come già è stato detto, questo lungometraggio di Neal Wu ha dalla sua una certa onestà e genuinità. Non pretende di essere più di quello che è e fin da subito si intuisce innanzitutto il fatto che la storia sia sentita dall’autore fino in fondo. Senza contare che, di quando in quando, vi sono non pochi momenti particolarmente interessanti – ed estremamente poetici – da un punto di vista prettamente registico (la scena della gita fuori città con i compagni di liceo ne è un esempio, così come l’immagine del migliore amico del protagonista – ormai adulto – che ricorda il passato in riva al mare, danzando come erano soliti fare entrambi da ragazzi).

Ad ogni modo, un’interessante operazione.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

19° FAR EAST FILM FESTIVAL – SATOSHI: A MOVE FOR TOMORROW di Mori Yoshitaka

AS20160524001110_commTITOLO: SATOSHI: A MOVE FOR TOMORROW; REGIA: Mori Yoshitaka; genere: biografico, drammatico; anno: 2016; paese: Giappone; cast: Kenichi Matsuyama; durata: 124′

Presentato in anteprima alla 19° edizione del Far East Film Festival, Satoshi: a move for tomorrow è l’ultimo lungometraggio diretto da Mori Yoshitaka, biopic sulla vita del celebre giocatore di shogi – una variante giapponese degli scacchi – Satoshi Murayama, morto nel 1998 a soli 29 anni.

Il giovane Satoshi è da sempre cagionevole di salute: i suoi reni non hanno mai funzionato come si deve e fin da bambino è costretto a sottoporsi a pesanti cure. Il suo stato di salute ed il fatto di dover trascorrere molte giornate a letto, però, faranno nascere in lui la passione per lo shogi. Una passione talmente forte da farlo diventare, a soli ventiquattro anni, un grande campione, il cui principale obiettivo sarà battere il freddo e calcolatore Habu, il suo più temuto avversario.

Indubbiamente una figura come quella di Satoshi Murayama può far gola a parecchi cineasti. Il difficile, poi, viene nel momento in cui – nel raccontare la sua breve vita – bisogna evitare ogni pericoloso, ma rischioso cliché. A tal proposito, però, bisogna ammettere che Mori Yoshitaka è stato in grado di dar vita ad un lungometraggio più che dignitoso, senza particolari sbavature e che – nell’ambito di una messa in scena di impronta quasi occidentale – ha saputo rendere giustizia al gioco dello shogi stesso ed a tutti i relativi rituali. Ed ecco che plongés inquadranti il tavolo da gioco, dettagli sulle mani dei personaggi che muovono le pedine ed i rumori delle stesse che vengono spostate sul tavolo – secchi, pieni, che regalano quasi un senso di profonda soddisfazione – diventano i grandi protagonisti dei momenti in cui Satoshi è intento a sfidare i suoi avversari. Momenti di puro cinema in cui la parola lascia esclusivamente lo spazio alle immagini. Tutto il resto è superfluo. Ed ecco che la tensione dei giocatori diventa anche la nostra tensione, quasi come se anche noi stessimo prendendo parte al gioco.

Il Satoshi di Mori Yoshitaka – interpretato dal bravo Kenichi Matsuyama, che per l’occasione è dovuto ingrassare di ben venticinque chili – è, dal canto suo, un ragazzone timido e trasandato, appassionato di graphic novels e completamente dedito al gioco dello shogi, per il quale arriverà anche a trascurare la propria salute. Un ragazzo a cui è impossibile non voler bene, molto amato dalla propria famiglia e dagli amici e che coltiva il sogno nel cassetto di potersi, in un futuro che, come egli stesso sa bene, non arriverà mai, sposare ed innamorare. Di sicuro, un personaggio che non si dimentica facilmente e che fa sì che Satoshi: a move for tomorrow possa quasi considerarsi il film di Kenichi Matsuyama, data, appunto, la sua straordinaria prova d’attore.

Che questo ultimo lavoro di Mori Yoshitaka sia, dunque, un prodotto più che dignitoso, non v’è alcun dubbio. Una domanda, però, sorge spontanea: di quanto sarebbe potuto aumentare il gradimento, da parte del pubblico, se fossero ben note le regole dello shogi?

VOTO: 7/10

Marina Pavido

19° FAR EAST FILM FESTIVAL – AT THE TERRACE di Yamauchi Kenji

at-the-terrace-film-image-3TITOLO: AT THE TERRACE; REGIA: Jamauchi Kenji; genere: commedia; anno: 2016; paese: Giappone; cast: Kei Ishibashi, Kami Hiraiwa, Hiroaki Morooka; durata: 95′

Presentato in anteprima alla diciannovesima edizione del Far East film Festival, At the terrace è l’ultimo lungometraggio del regista giapponese Yamauchi Jenji.

Su di un’elegante terrazza di una casa signorile sta avendo luogo una festa: uomini e donne dell’alta borghesia si incontrano e tentano di intrattenere conversazioni, pur non conoscendosi tra di loro e non provando alcun interesse per ciò che gli altri invitati hanno da dire. Dopo i primi momenti di imbarazzo, però, una volta entrati nel vivo della serata, gli equilibri creatisi inizieranno a vacillare sempre di più.

Se pensiamo ai numerosi lungometraggi del genere ad impostazione teatrale girati negli ultimi anni – primo fra tutti, il molto ben riuscito Carnage di Roman Polanski, così come molti altri analoghi prodotti la cui creazione è forse stata incentivata proprio in seguito al successo di Carnage stesso – ciò che ci appare è uno sciame di pellicole tutte somiglianti tra di loro. Storie di famiglie perbene, che, però, in seguito ad un qualsiasi fattore scatenante apparentemente di poca importanza, tirano fuori tutta la rabbia ed i rancori non appena sono costretti a passare del tempo a contatto ravvicinato. Basti pensare – giusto per non andare troppo indietro nel tempo – al recente The party, diretto da Sally Potter e presentato in concorso alla diciassettesima Berlinale, così come all’urticante The dinner, di Oren Moverman, presente anch’esso in concorso alla medesima edizione del Festival di Berlino. Il rischio di tali lungometraggi è, come prevedibile, quello, appunto di diventare ognuno la (bella o brutta) copia dell’altro, diventando, spesso e volentieri, addirittura pretenziosi – come nel caso di questo ultimi lavori della Potter e di Moverman, appunto – e limitandosi a strappare allo spettatore solo qualche sorriso qua e là. Possibile epilogo questo, ma, fortunatamente, non sempre ciò si verifica. Ed eccoci arrivati, finalmente, a questo ultimo lungometraggio di Yamauchi Kenji. In che modo il cineasta giapponese è riuscito a “fare la differenza”? Innanzitutto, qui le dinamiche sono diverse. Non vi sono rapporti preesistenti, non vi sono antichi rancori. Quello che qui viene preso di mira è, appunto, l’abitudine a fingere, in società, di essere in un determinato modo. Salvo poi far cadere la maschera quando vengono meno i cosiddetti freni inibitori, annullati, nel nostro caso, dall’alcool. Ed ecco, dopo i primi, esilaranti momenti in cui l’imbarazzo di dover intrattenere una conversazione con sconosciuti fa da padrone, arrivare – una volta scaldati i motori – il famoso fattore scatenante che stravolgerà gli equilibri. Nel nostro caso si tratta di un qualcosa di vecchio come il mondo: la spietata ed efferata competitività tra donne. Chi sarà la più bella della festa? La procace padrona di casa o la timida e dolce mogliettina di uno degli invitati? Al pubblico l’ardua sentenza. Fatto sta che, una volta scoppiata la lite tra le due, ne accadranno davvero di tutti i colori. Protagonisti assoluti: gli sguardi e le espressioni – in primo piano o sapientemente dislocate ai lati dello schermo – di ogni singolo personaggio, degnamente rappresentato sul grande schermo da un cast di tutto rispetto.

Decisamente interessante, dunque, questo ultimo lavoro di Yamauchi Kenji. Non facile, sia per quanto riguarda la scelta dei tempi comici giusti, sia per quanto riguarda l’ancor più arduo obiettivo di acquisire – in un mare di prodotti che tendono tutti a somigliarsi tra di loro – una propria, marcata identità. Eppure il cineasta giapponese è riuscito in entrambi gli intenti. Se non altro ha dato vita ad un lungometraggio che, nell’ambito di una partenza piuttosto tiepidina, è in qualche modo riuscito a fare la differenza in questi primi giorni di Far East Film Festival.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – UNA SETTIMANA E UN GIORNO di Asaph Polonsky

one-week-and-a-day-onlineTITOLO: UNA SETTIMANA E UN GIORNO; REGIA: Asaph Polonsky; genere: commedia, drammatico; anno: 2016; paese: Israele; cast: Shai Avivi, Evgenia Dodina; durata: 98′

Nelle sale italiane dal 18 maggio, Una settimana e un giorno è l’ultimo lungometraggio del giovane regista israeliano Asaph Polonsky, presentato all’interno della Semaine de la Critique al Festival di Cannes 2016.

Secondo la tradizione ebraica, la Shiv’ah è la settimana di osservanza del lutto immediatamente dopo la morte di qualcuno. Ed è proprio durante l’ultimo giorno di Shiv’ah che facciamo la conoscenza di Eyal e Vicky, una coppia di mezza età che ha appena perso il figlio venticinquenne in seguito ad una grave malattia. La donna cercherà di tornare alla vita di tutti i giorni buttandosi a capofitto nel lavoro e nelle faccende di casa. Per quanto riguarda Eyal, padre del ragazzo, ci saranno in serbo ben altre vie per tornare a vivere. Prima fra tutte: una nuova, inaspettata amicizia con il figlio dei vicini di casa.

phpThumb_generated_thumbnailL’impressione che abbiamo, fin dai primi minuti di visione, è che – dal punto di vista dello script in sé – il regista stesso non avesse bene in mente cosa fare e che taglio dare al tutto. E infatti il lungometraggio stesso risulta quasi fratturato in due: durante la prima parte appare giocoso, quasi un puro divertissement senza una necessaria ed approfondita analisi introspettiva nei personaggi. Improvvisamente, però, ecco che il prodotto sembra prendere un’altra piega: ci troviamo ora in un mondo sì allegro, ma anche terribilmente duro, un mondo dove le risate lasciano il posto alla tenerezza, alla malinconia ed alla consapevolezza. Frattura, questa, che può anche essere interpretata come la frattura interna dei protagonisti, la netta divisione tra la loro vita passata e l’inizio della loro vita futura. E, inutile dirlo, nella seconda parte anche la qualità del film migliora non poco, regalandoci momenti di grande potenza visiva – come la scena in cui Eyal gioca in ospedale con il vicino di casa ed una bambina, figlia di una paziente, ed il toccante momento in cui un uomo, al cimitero, pronuncia il suo discorso in occasione del funerale della sorella, con le immagini dell’uomo stesso durante i suoi momenti di sconforto in seguito alla perdita. Momenti, questi, che ci fanno perdonare le imperfezioni riguardanti in particolare la prima parte del lungometraggio e ci fanno affezionare anche ai personaggi meno riusciti – come, ad esempio, lo stesso vicino di casa, eccessivamente caricato.

una-settimana-e-un-giorno-hdimgEd ecco che, ancora una volta, la cinematografia israeliana è riuscita, in un modo o nell’altro a sorprenderci. E soprattutto, dato il precoce talento, chissà quante altre belle sorprese avrà in serbo per noi il giovane Asaph Polonsky.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – ADORABILE NEMICA di Mark Pellington

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TITOLO: ADORABILE NEMICA; REGIA: Mark Pellington; genere: commedia; anno: 2017; paese: USA; cast: Shirley MacLaine, Amanda Seyfried; durata: 108′

Nelle sale italiane dal 4 maggio, Adorabile nemica è l’ultimo lungometraggio diretto da Mark Pellington, con una grandissima Shirley MacLaine.

Harriet Lauler è un’anziana milionaria che per anni è stata a capo di un’importante azienda pubblicitaria. La donna è da sempre stata abituata a controllare la vita di chiunque le sia stato al fianco, al punto di finire per ritrovarsi sola. Un giorno, leggendo alcuni necrologi, ad Harriet verrà in mente di farne scrivere uno per lei, in modo da poter essere sicura di ciò che verrà detto sul suo conto. A tal proposito, la donna ingaggerà la giovane giornalista Anne, la quale, al fine di scriverle un degno necrologio, dovrà passare parecchio tempo con lei ed incontrare tutte le persone che hanno avuto maggiore importanza nella sua vita.

57a8a0b846493-e1y1u2h1d1e6Una cosa è certa: ad un’interprete del calibro di Shirley MacLaine basta anche solo fare una breve apparizione sullo schermo per lasciare il segno. E così è stato anche nel caso di Adorabile nemica, gradevole, a volte retorica e poco pretenziosa commediola, il cui scopo principale sembra proprio essere quello di omaggiare la grande attrice della Hollywood dei tempi d’oro, già a suo tempo resa grande da cineasti del calibro di Billy Wilder ed Hal Ashby. Per il resto, c’è davvero ben poco.

LastWord_BD_1219.CR2Pur vantando uno script piuttosto semplice e privo di sbavature, con personaggi gradevoli e ben caratterizzati (in particolare per quanto riguarda la giornalista Anne e la piccola Brenda, ragazzina di cui Harriet è tutor), Adorabile nemica pecca, di fatto, di un’eccessiva prevedibilità e di stereotipi e luoghi comuni troppo importanti per passare inosservati. Cosa resta, dunque, al di là della grande prova attoriale della protagonista stessa? Di fatto, ben poco. Ma probabilmente la produzione stessa ne è stata fin dall’inizio consapevole di una tale, possibile riuscita del lungometraggio in sé. Sta bene, dunque. Almeno, però, questo ultimo lavoro di Pellington ha dalla sua una certa onestà, in quanto si presenta – e vuole presentarsi – proprio per quello che è, senza velleità da grande pellicola dell’anno. Cosa, questa, molto meno frequente di quanto si pensi.

E poi, diciamolo pure: vedere al massimo della forma una grande attrice del calibro della MacLaine fa sempre il suo effetto. E scusate se è poco.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – MAL DI PIETRE di Nicole Garcia

31899d233c50b5de28de22c79caa3a2bTITOLO: MAL DI PIETRE; REGIA: Nicole Garcia; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Francia; cast: Marion Cotillard, Alex Brendemühl, Louis Garrel; durata: 120′

Nelle sale italiane dal 13 aprile, Mal di pietre è l’ultimo lungometraggio della regista ed attrice francese Nicole Garcia, tratto dall’omonimo romanzo di Milena Agus e presentato in concorso al Festival di Cannes 2016.

Gabrielle non è una persona semplice. Nata e cresciuta in un piccolo paesino nella Francia degli anni Cinquanta, ben poco sembra adattarsi al contesto in cui vive, alle tradizioni ed alla mentalità eccessivamente chiusa e provinciale dei suoi compaesani. È, al contrario, una donna libera, appassionata, fortemente bisognosa d’amore ed estremamente fragile. Talmente fragile da soffrire di “mal di pietre”, con tanto di dolorosi crampi addominali. Un male, il suo, del tutto psicosomatico, che soltanto curando mente e spirito potrà essere sconfitto. Per quanto riguarda la mente, però, i problemi sono ben altri, dal momento che proprio per questo suo modo di “urlare” i suoi bisogni affettivi, Gabrielle è, a detta di tutti, famigliari compresi, completamente pazza. Solo suo marito, sposato più per il desiderio di fuggire da quell’ambiente angusto ed ostile che per amore, sembra riuscire a “leggere tra le righe”, a capire quella persona così complessa e così ostinata che vive al suo fianco.

e5955d112404ae80cf599bd26814d7bcUn personaggio dalle mille sfaccettature, dunque, quello di Gabrielle. Un personaggio che viene reso magnificamente sullo schermo dalla bravissima Marion Cotillard (lei, si sa, può davvero tutto), ma a cui non viene reso giustizia dal punto di vista dello script in sé: quel che emerge della protagonista è solo la “punta dell’iceberg”. Nulla ci viene detto del suo passato, ben poco vengono approfonditi i legami con José – suo marito – ed André, il suo amante. Personaggi, anch’essi, di grande interesse e complessità (soprattutto per quanto riguarda José), ma che vengono qui sviluppati in modo eccessivamente raffazzonato e frettoloso. Il tentativo di narrare per immagini i tormenti interiori di ognuno di essi risulta, dunque, carente di una necessaria e più profonda introspezione, così come il buon Ingmar Bergman ci ha insegnato. Ma, si sa, non è affatto facile rifare Ingmar Bergman.

b51fc840866fe797501dd57f87f3bce7Ben poco, quindi, possono suggestive inquadrature di panorami mozzafiato o fedeli ricostruzioni di ambienti d’epoca. Il grande problema di Mal di pietre – oltre alla musica eccessivamente presente, smielata e quasi patetica – è proprio lo script. Uno script che, pur mantenendo di base la storia originale, ha voluto “spiccare il volo”, assumere una propria identità perdendo, però, il controllo della situazione e dando vita a qualcosa di banale ed inconsistente, malgrado le iniziali potenzialità. Uno script a cui si perdonano, tuttavia, soltanto i velati riferimenti/omaggi al cinema ed alle sue origini (vedi la cittadina di La Ciotat, dove vivono Gabrielle e José, ma anche la loro permanenza a Lione – città dei fratelli Lumière – presso l’hotel Langlois – proprio come il caro vecchio Henri Langlois!). Ma, si sa, tutto questo non è abbastanza. Ed ecco che anche Mal di pietre si andrà ben presto ad unire ai numerosi prodotti passati in sala e finiti quasi subito nel dimenticatoio. Triste, ma purtroppo molto, molto probabile.

VOTO: 5/10

Marina Pavido