36° TORINO FILM FESTIVAL – WILDLIFE di Paul Dano

Wildlife-filmTITOLO: WILDLIFE; REGIA: Paul Dano; genere: drammatico; paese: USA; anno: 2018; cast: Jake Gyllenhaal, Carey Mulligan, Bill Camp; durata: 104′

Presentato in anteprima alla trentaseiesima edizione del Torino Film Festival, all’interno del concorso ufficiale, Wildlife è l’opera prima dell’attore Paul Dano, tratta dall’omonimo romanzo di Richard Ford.

Con una riuscita e suggestiva ambientazione nell’America degli anni Sessanta, l’attore ha messo in scena un interessante dramma famigliare, in cui vediamo un giovane padre di famiglia (Jake Gyllenhaal) restare improvvisamente disoccupato. Dopo aver trovato una seconda occupazione come pompiere, l’uomo partirà alla volta di un piccolo villaggio montano, intorno al quale v’è un enorme e pericoloso incendio. La moglie di lui (Carey Mulligan), in crisi per la lontananza del marito, finirà inevitabilmente per allontanarsi da lui, facendo sì che anche il figlio adolescente viva in prima persona la crisi all’interno della famiglia.

Ciò che di un lavoro come il presente immediatamente colpisce, è lo straordinario equilibrio delle immagini e delle inquadrature che – unitamente a una fotografia dai toni pastello – sta a indicare una situazione tanto perfetta quanto pericolosamente fragile. E infatti, basta davvero poco a far sì che tutto, pian piano, si sgretoli. Cambia, a questo punto, anche la regia – molto meno “statica” ed equilibrata di quanto non lo era all’inizio – e lo stesso andamento narrativo, che, per quanto accattivante e ben calibrato all’inizio del lungometraggio, tende man mano ad appiattirsi dopo la seconda metà del film, per poi riprendersi nella riuscita scena finale.

Tra le colonne portanti dell’intero lavoro troviamo senza dubbio gli interpreti, tra cui spicca una straordinaria Carey Mulligan, che, per questo suo lavoro, potrebbe anche ricevere importanti premi.

Il tutto converge in un’opera prima riuscita e gradevole, le cui perdonabili imperfezioni sono dovute, probabilmente, solo a una certa inesperienza del regista dietro la macchina da presa.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

13° FESTA DEL CINEMA DI ROMA – IL MISTERO DELLA CASA DEL TEMPO di Eli Roth

il-mistero-della-casa-del-tempoTITOLO: IL MISTERO DELLA CASA DEL TEMPO; REGIA: Eli Roth; genere: fantastico; paese: USA; anno: 2018; cast: Jack Black, Cate Blanchett, Kyle MacLachlan; durata: 95′

Presentato in anteprima alla tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma – all’interno della Selezione UfficialeIl Mistero della Casa del Tempo è l’ultima fatica del celebre regista statunitense Eli Roth.

È la storia, questa, del piccolo Lewis, il quale rimasto orfano di entrambi i genitori, andrà a vivere a casa del bizzarro zio, fratello di sua mamma. L’uomo, sempre a stretto contatto con un’altrettanto singolare vicina di casa, è un maldestro stregone che vive all’interno di una villa piena di orologi e con oggetti e mobili che, di quando in quando, sembrano prendere vita di soppiatto. Una volta ambientatosi in questo nuovo mondo, Lewis verrà coinvolto dai due in un’importante missione segreta: scoprire l’origine e il significato del ticchettio di un orologio nascosto all’interno delle mura di casa.

Vivace, colorato, complessivamente dinamico nella messa in scena, questo nuovo prodotto firmato Eli Roth lascia, tuttavia, a desiderare per quanto riguarda i ritmi stessi, spesso discontinui e mal calibrati, e per quanto riguarda uno script che tende a tirare il tutto troppo per le lunghe, soprattutto man mano che ci avvicina al finale. Eppure, detto questo, la storia messa in scena riesce a catturare l’attenzione fin dai primi minuti, forte anche di una regia sapiente e matura che ben sa sfruttare sia i numerosi effetti speciali presenti, che le ricercate scenografie, la quali, a loro volta, fanno della casa dei protagonisti un ulteriore personaggio, considerato a tutti gli effetti essenziale e con un’importante personalità.

Il tutto sta a convergere in una forte metafora del potere, della guerra e di quanto questi possano danneggiare sia gli stessi esseri umani che i rapporti che intercorrono tra di loro.

Un lungometraggio, dunque, pensato sì per i più piccini, ma che, allo stesso tempo, sta a raccontarci qualcosa di universale e che dimostra che Eli Roth, anche in queste vesti di cantore per i giovanissimi, riesce a trovarsi perfettamente a proprio agio.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – GIRL di Lukas Dhont

girl-Victor-Polster-356x250-c-defaultTITOLO: GIRL; REGIA: Lukas Dhont; genere: drammatico; paese: Belgio; anno: 2018; cast: Victor Polster, Arieh Worthalter, Oliver Bodart; durata: 105′

Presentato nella sezione Un certain regard al Festival di Cannes 2018 e nelle sale italiane dal 27 settembre, Girl è il lungometraggio d’esordio del giovane regista belga Lukas Dhont, il quale, per la presente opera, ha vinto la Caméra d’Or, la Queer Palm e il Premio Fipresci della Critica Internazionale, oltre ad aver visto il suo protagonista, Victor Polster, essere premiato come Miglior Attore.

Questo vero e proprio caso cinematografico, racconta la storia di Lara, che prima era Victor e che ha il sogno di diventare ballerina. Nonostante il supporto morale di suo padre e del suo fratellino, non sarà facile per la ragazza affrontare il lungo percorso preparatorio prima dell’operazione definitiva.

Una storia che prevede uno script apparentemente semplice, ma che, in realtà, richiede un’indagine psicologica molto più profonda di quanto possa inizialmente sembrare. E, malgrado la giovane età, il regista ha saputo affrontare la cosa con grande maestria e padronanza del mezzo cinematografico. Particolarmente d’effetto sono, a tal proposito, gli intensi primi piani di Lara, così come l’attenzione al suo corpo in trasformazione e ai momenti in cui la stessa si dedica anima e corpo alla danza, quasi se, così, volesse ella stessa plasmare il suo fisico a proprio piacimento.

Al di là della delicatezza dell’argomento in sé e al di là della grazia con cui Lukas Dhont ha messo in scena il tutto, ciò che in Girl maggiormente colpisce è la straordinaria – e mai sopra le righe – interpretazione del giovane attore e ballerino Victor Polster, nel ruolo della protagonista.

Un esordio di tutto rispetto, dunque, questo Girl. Direttamente dal Belgio, arriva nelle nostre sale una vera e propria perla da non lasciarsi sfuggire per nessun motivo.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – PEGGIO PER ME di Riccardo Camilli

peggio per meTITOLO: PEGGIO PER ME; REGIA: Riccardo Camilli; genere: commedia; paese: Italia; anno: 2018; cast: Riccardo Camilli, Claudio Camilli, Tania Angelosanto; durata: 108′

Nelle sale italiane dal 12 luglio grazie a Distribuzione Indipendente, Peggio per me è l’ottavo lungometraggio del regista e montatore Riccardo Camilli.

Ci troviamo a Roma, nel 1986. Francesco e Carlo hanno dodici anni e sono amici per la pelle. Invece di studiare, il giorno sono soliti remixare con un mangianastri televendite televisive e film per adulti. Le loro giornate trascorrono così, fino al momento in cui la madre di Carlo li interromperà e li separerà bruscamente. Trascorrono trent’anni e Francesco è padre di una ragazzina di dodici, si è appena separato dalla moglie e ha perso il lavoro. L’unica soluzione che ritiene possibile è suicidarsi. Nel momento in cui sta per buttarsi da un ponte, però, sentirà, tramite una delle vecchie cassette nello stereo della sua macchina, la sua voce da bambino che si rivolge a lui, impedendogli di saltare.

Lo spunto da cui prende il via tutta la vicenda è indubbiamente interessante. La storia nel complesso funziona e il risultato finale è una commedia brillante con un retrogusto amaro che fa riflettere ma che riesce a intrattenere il pubblico per quasi due ore di visione. Visione gradevole, dove, tuttavia, non mancano piccole imperfezioni, come l’attribuzione degli eventi soprannaturali alla figura di uno zio stregone (trovata eccessivamente debole e quasi improvvisata) o alcune soluzioni in chiusura che, malgrado le buone intenzioni, non riescono ad arrivare allo spettatore con la potenza inizialmente auspicata.

Funzionano molto bene sullo schermo, invece, i due fratelli Riccardo (anche regista) e Claudio Camilli, nel ruolo dei due protagonisti da adulti. La loro è una collaborazione che va avanti da anni, dalla quale sono nati ben otto lungometraggi, tutti realizzati con un budget molto basso (si pensi che Peggio per me è stato girato con soli 6000 euro), tutti che, in un modo o nell’altro, sono riusciti a vedere la luce. Un buon esempio, questo, per il cinema indipendente italiano, all’interno del quale si trovano sempre più nomi e titoli da tenere d’occhio assolutamente.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – LAZZARO FELICE di Alice Rohrwacher

lazzaro feliceTITOLO: LAZZARO FELICE; REGIA: Alice Rohrwacher; genere: drammatico; paese: Italia; anno: 2018; cast: Adriano Tardiolo, Alba Rohrwacher, Nicoletta Braschi; durata: 130′

Nelle sale italiane dal 31 maggio, Lazzaro felice è l’ultima fatica della giovane regista Alice Rohrwacher, presentato in concorso alla 71° edizione del Festival di Cannes, dove ha vinto la Palma d’Oro alla Miglior Sceneggiatura, ex aequo con Three Faces di Jafar Panahi.

Il giovane Lazzaro, non ancora ventenne, vive in un casolare di campagna insieme alla sua numerosa famiglia, con la quale lavora come contadino a servizio di una nobildonna. La padrona della terra, tuttavia, altro non fa che sfruttare i suoi dipendenti, costringendoli a vivere come schiavi, senza che sappiano nulla di come vadano le cose al di fuori della campagna in cui vivono. Nel momento in cui le autorità si accorgeranno di tale situazione, saranno tutti finalmente liberati, ma non sarà affatto facile adattarsi alla vita al di fuori del loro piccolo mondo.

Un tema di grande potenza, che si fa metafora della nostra società, dei giochi di potere effettuati da padroni, datori di lavoro e banche, ma anche dell’ultimo secolo della storia della nostra Italia. Particolarmente interessante, a tal proposito, è l’ambientazione: durante le prime scene, girate all’interno del casolare di campagna (con atmosfere che tanto stanno a ricordarci il cinema del compianto Ermanno Olmi), si ha l’impressione di trovarsi nell’Italia degli anni Cinquanta. Eppure, vi sono piccoli, sporadici elementi che rimandano all’epoca contemporanea. La cosa si fa maggiormente evidente nel momento in cui i carabinieri fanno irruzione in quel piccolo mondo fuori dal tempo, riportandoci immediatamente ai giorni nostri. Il tutto resta comunque volutamente ambiguo, dal punto di vista spazio-temporale e, unitamente a piccole caratteristiche dei protagonisti e dello stesso Lazzaro, assume un che di surreale, di magico, addirittura di onirico. Particolarmente d’effetto, a tal proposito, l’abitudine – sia del protagonista che della sua famiglia – di soffiare uno strano vento che tanto sta a ricordarci il vento felliniano e il suo significato intrinseco di morte.

E poi, ovviamente, c’è lui, il giovane Lazzaro (interpretato da un ottimo Adriano Tardiolo, qui al suo esordio sul grande schermo). Sempre sereno, sorridente, sembra non desiderare mai nulla per sé, ma, al contrario, sembra sperare solo che agli altri possa capitare del bene. Il ragazzo – analogamente a molte figure della nostra stessa società che vengono banalmente emarginate – è talmente buono, da risultare addirittura stupido. Una sorta di santo che non fa miracoli e che vedrà nella figura di Tancredi – figlio della nobildonna per cui lavora – il suo primo, vero amico. Un amico che non smetterà mai di cercare per tutta la vita.

E così, questo complesso e stratificato lavoro della Rohrwacher – realizzato, tra l’altro, rigorosamente in pellicola – è riuscito a conquistare anche il pubblico di Cannes. La cosa, ovviamente, è stata del tutto meritata e non fa che confermare la giovane autrice come uno dei nomi maggiormente da tener d’occhio all’interno del panorama cinematografico nostrano.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – L’ARTE DELLA FUGA di Brice Cauvin

l'arte della fugaTITOLO: L’ARTE DELLA FUGA; REGIA: Brice Cauvin; genere: commedia; paese: Francia; anno: 2018; cast: Laurent Lafitte, Agnès Jaoui, Nicolas Bedos; durata: 98′

Nelle sale italiane dal 31 maggio, L’Arte della Fuga è l’ultimo lungometraggio del regista francese Brice Cauvin, tratto dall’omonimo romanzo di Stephen McCauley.

Ci sono tre fratelli: Antoine, Louis e Gérard. Antoine ha da circa dieci anni una relazione con Adar, uno psicologo che sembra conoscerlo meglio di chiunque altro. Louis è in procinto di sposare – spinto soprattutto dalla famiglia – Julie, la sua fidanzata storica, ma ha da tempo una relazione clandestina con Mathilde. Gérard, infine, si è da poco lasciato con la moglie Hélène – con la quale tenta di tornare disperatamente – e, dopo essere rimasto disoccupato, è tornato a lavorare nel negozio di abbigliamento dei suoi genitori. Dei tre è indubbiamente Antoine colui che sembra avere una situazione più stabile. E se, invece, il suo eccessivo preoccuparsi delle vite sentimentali dei fratelli fosse, in realtà, solo un tentativo di fuggire dai suoi stessi problemi? Tre fratelli, tre singole esistenze costellate da amori e delusioni, insieme a un infinito numero di responsabilità dalle quali fuggire.

Un romanzo americano per una trasposizione cinematografica francese, dunque. Ed è probabilmente anche per questo che un lavoro come L’Arte della Fuga sembra aver attinto a piene mani da diverse cinematografie e da diverse scuole, frutto di una positiva contaminazione di culture e modi di intendere la Settima Arte. Se pensiamo, infatti, al gran numero di commedie francesi che vengono prodotte ogni anno (e che, salvo rare eccezioni, spesso sembrano tutte confondersi e somigliarsi tra loro), in questo lavoro di Cauvin possiamo solo riconoscere la delicatezza e una certa eleganza di fondo (che, diciamolo, non guastano mai). Per il resto, per quanto riguarda sia la messa in scena, sia la caratterizzazione dei personaggi, sia persino il peso che i dialoghi hanno, possiamo dirci di avere di fronte un prodotto che (quasi) in tutto e per tutto sta a ricalcare il cinema statunitense e, in particolare il cinema del maestro Woody Allen. Al via, dunque, momenti frenetici, corse da una parte all’altra della città, personaggi stressati dal lavoro (o dalla mancanza di esso) e poi pranzi, cene e viaggi, viaggi e ancora viaggi. Una messa in scena dinamica che – forte di uno script robusto – sa ben trattare ogni singolo personaggio, caratterizzandolo (in poco più di un’ora e mezza di film) a 360°.

A proposito dei personaggi, bisogna fare delle considerazioni a parte. Presi come sono dai loro problemi, dalle loro nevrosi e dalle loro vite frenetiche, indubbiamente ci viene da pensare a figure tipicamente alleniane. Se a tutto ciò aggiungiamo anche un continuo parlare e, di conseguenza, un copioso utilizzo dei dialoghi (cosa assolutamente non facile da gestire, ma qui trattata in maniera egregia), ecco che le influenze del caro vecchio Woody si fanno sentire forti più che mai. Eppure, a ben guardare, un’altra importante figura che ha influenzato Brice Cauvin nella caratterizzazione dei suoi personaggi (e, in particolare, della frizzante Ariel, collega di Antoine) c’è eccome. Si tratta, come ben si può immaginare, di Pedro Almodovar (l’Almodovar del primo periodo, per intenderci), dal quale il nostro autore riprende principalmente tutto quell’essere costantemente sotto pressione, praticamente sempre “sull’orlo di una crisi di nervi”, come gran parte dei personaggi almodovariani sono stati a loro tempo.

Girato in parte a Parigi, in parte a Bruxelles, non possiamo non notare in L’Arte della Fuga un’estrema cura e un’attenzione nel rappresentare diversi quartieri delle città, con atmosfere calde e accoglienti e con le loro vite sì frenetiche, ma che, al contrario delle turbe interiori dei personaggi, sembrano comunicarci piacevoli sensazioni di pace. Merito, indubbiamente, delle lunghe passeggiate nei parchi o lungo i viali alberati, o anche della presenza – mai “ingombrante”, ma piuttosto marginale – di importanti monumenti. Le città e, di conseguenza, la vita all’interno di esse, vengono messe in scena da Cauvin con lo stesso amore con cui il già citato Woody Allen ci ha mostrato a suo tempo le sue amate New York e Parigi.

Un lavoro, questo di Cauvin, molto più complesso e raffinato di quanto possa inizialmente sembrare, dunque. Un lungometraggio che, forte di questo suo respiro internazionale, si rivela degna trasposizione di un romanzo che già a suo tempo ha saputo conquistare un gran numero di lettori.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – STATO DI EBBREZZA di Luca Biglione

Stato-di-ebbrezzaTITOLO: STATO DI EBBREZZA; REGIA: Luca Biglione; genere: biografico, drammatico; paese: Italia; anno: 2018; cast: Francesca Inaudi, Andrea Roncato, Fabio Troiano; durata: 90′

Nelle sale italiane dal 24 maggio, Stato di Ebbrezza è l’ultimo lungometraggio diretto da Luca Biglione.

Tratto da una storia vera, il film racconta le vicende della cabarettista Maria Rossi, la quale, in seguito alla morte della madre, è diventata alcolista. Saranno l’aiuto del padre e del fratello, la nascita di nuove, importanti amicizie e la lunga degenza in una clinica per disintossicarsi a darle la possibilità di liberarsi dalla dipendenza dall’alcool e di ritornare sul palco.

La vera Maria Rossi ha dato il suo contributo nella stesura della sceneggiatura e, sia all’inizio che in chiusura del lungometraggio, la si vede sullo schermo, nel ruolo di sé stessa. Un lavoro, dunque, molto sentito e molto personale, questo realizzato da Biglione. Un lavoro che, di fianco a non poche imperfezioni (riguardanti particolarmente lo stesso script), vede anche momenti particolarmente riusciti e di grande impatto emotivo.

Dopo aver visto la giovane Maria esibirsi sul palco, ecco che, nel giro di pochissimi minuti, vediamo una serie di eventi susseguirsi in modo a volte eccessivamente repentino, almeno fino al punto in cui non si arriva al momento del ricovero della protagonista: è qui che si svolge la maggior parte del lungometraggio ed è qui che vediamo la donna iniziare piano piano ad ambientarsi, fino al punto di instaurare forti legami sia con la dottoressa che la segue che con altre persone ricoverate.

Ciò a cui ci viene immediatamente da pensare è il film Si può fare, diretto nel 2008 da Giulio Manfredonia, data la particolare ambientazione e le tematiche trattate. A differenza del suddetto prodotto, tuttavia, Stato di Ebbrezza risulta più grezzo, più “ingenuo”, con personaggi sì empatici, ma con un background di scrittura di gran lunga meno approfondito rispetto a quanto realizzato da Manfredonia (e dallo sceneggiature Fabio Bonifacci).

Ma tant’è. Il lavoro, nel suo complesso, sembra funzionare. Al di là della riuscita finale, però, Stato di Ebbrezza ha visto soprattutto una grandissima prova attoriale di Francesca Inaudi (nel ruolo di Maria Rossi), sempre convincente, ma qui al massimo della forma. C’è da augurarsi soprattutto che possa ottenere i riconoscimenti che merita per questa sua ottima performance.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – LA SETTIMA ONDA di Massimo Bonetti

la_settima_onda_ft_01TITOLO: LA SETTIMA ONDA; REGIA: Massimo Bonetti; genere: drammatico; paese: Italia; anno: 2018; cast: Francesco Montanari, Valeria Solarino, Alessandro Haber; durata: 87′

Nelle sale italiane dal 24 maggio, La Settima Onda è l’opera prima del celebre attore Massimo Bonetti.

La storia qui messa in scena è la storia di una forte amicizia e di una grande passione comune: la storia di Tanino, un giovane pescatore di un paesino del Sud Italia, con il sogno di diventare attore, il quale, tuttavia, ha presto abbandonato le sue speranza giovanili, al fine di mandare avanti la casa e di pagare un gravoso mutuo. Le difficoltà economiche, così come il difficile rapporto con la suocera, sono i suoi principali problemi. Al fine di far fronte alle numerose difficoltà, dunque, il giovane tenterà anche la strada del crimine. Solo l’incontro con un misterioso uomo, anziano e solitario, sembrerà riuscire a cambiargli la vita.

Una storia senza tempo, questa messa in scena da Bonetti. Non sono presenti né computer, né telefoni cellulari, nelle vite dei protagonisti. Ciò che vediamo potrebbe essere accaduto oggi, come venti o trenta anni fa. Una vicenda con personaggi e, soprattutto, una location che per la loro caratterizzazione e per la forte empatia con il pubblico stanno a rappresentare il vero cavallo di battaglia dell’intero lavoro.

A fare da collante tra il protagonista e il suo nuovo amico, il Cinema. Il grande cinema, quello di Bergman e di Rossellini. Il cinema immortale, in grado di smuovere in qualsiasi epoca gli animi di ognuno. È anche un omaggio alla settima arte, dunque, questo interessante lavoro di Bonetti, il quale, per quanto riguarda l’utilizzo di tale elemento, ha affermato di essersi ispirato a un suo incontro avvenuto nella vita di tutti i giorni.

Peccato solo per alcuni elementi di sceneggiatura (vedi, ad esempio, l’elemento del crimine o lo stesso rapporto tra Tanino e sua moglie) che non sono stati sviluppati come auspicato. Ma, d’altronde, non sempre è facile gestire tanti fattori in una sola volta. Soprattutto quando si tratta di un’opera prima.

Fortunatamente, Massimo Bonetti ha saputo regalarci un prodotto ben riuscito e a tratti anche commovente, una storia universale che nel suo piccolo una certa efficacia ce l’ha eccome e che di certo saprà arrivare a un buon numero di spettatori.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

20° FAR EAST FILM FESTIVAL – DEAR EX di Mag Hsu e Chih-yen Hsu

dear exTITOLO: DEAR EX; REGIA: Mag Hsu, Chih-yen Hsu; genere: drammatico; paese: Taiwan; anno: 2017; durata: 99′

Presentato in anteprima alla 20° edizione del Far East Film Festival, Dear Ex è l’ultimo lungometraggio diretto dai registi taiwanesi Mag Hsu e Chih-yen Hsu.

Song Zhengyuan muore prima dell’inizio del film e, con la sua prematura dipartita, mette inevitabilmente in contatto la sua ex moglie e suo figlio con Jay, il suo compagno con il quale aveva iniziato una nuova vita dopo aver scoperto la propria omosessualità. Il conflitto prenderà il via dalla questione riguardante l’eredità, eppure, con il passare del tempo e dopo aver trascorso parecchi giorni a stretto contatto, i tre avranno modo di imparare molto sia sul loro passato che su loro stessi.

Gli elementi che, in un primo momento, possono ricordarci Le Fate Ignoranti, diretto nel 2001 da Ferzan Ozpetek, dunque, non sono pochi. Eppure, in seguito alla visione di Dear Ex, più che Ozpetek viene in mente un regista come Pedro Almodovar, sia per quanto riguarda la particolare messa in scena adottata, sia, molto semplicemente, per la fotografia, le scenografie e, soprattutto, la scelta dei colori. Sono, infatti, il rosso e il verde a predominare in tutto il lungometraggio. Rosso che sta a indicare l’amore, una passione ancora viva, ma anche il sangue. Il verde, da buona tradizione hitchcockiana, la morte. La morte quale fattore scatenante di tutta la vicenda e che, contrapponendosi alle vite frenetiche dei tre protagonisti, si fa presenza costante all’interno dell’intero lavoro. Ovviamente, il paragone con Almodovar può risultare addirittura azzardato, se si pensa ai non pochi elementi che in Dear Ex non sempre funzionano. Eppure sono questa passionalità urlata, questo susseguirsi frenetico di eventi e, non per ultimi, questi numerosi flashback a ricordarci l’Almodovar del primo periodo che ha avuto modo – grazie al suo stile inconfondibile – di farsi conoscere in tutto il mondo.

Detto questo, seppur complessivamente gradevole, il nostro Dear Ex – come già accennato – le sue pecche le ha eccome. Se si pensa, infatti, alla carriera in ambito televisivo della regista Mag Hsu, poco ci si stupisce del taglio quasi da sit com dell’intero lavoro. E lo script stesso, seppur pregno di spunti interessanti, non fa che collezionare una sfilza di momenti ridondanti, perdendo pericolosamente di mordente man mano che ci si avvicina al finale, soprattutto nel momento che dovrebbe rappresentare il climax dell’intero lungometraggio, in cui Jay, assistito dalla moglie e dal figlio del suo compagno, mette in scena un’opera teatrale dedicata a quest’ultimo, che, secondo le intenzioni dei registi, dovrebbe aiutare i tre protagonisti a elaborare finalmente il lutto.

E così, le buone intenzioni degli autori vengono esplicitate solo in parte. Peccato. Malgrado, infatti, le numerose imperfezioni, Dear Ex resta comunque un lavoro onesto e sentito, che, però, indagando nell’animo umano, non fa che raccogliere una serie di luoghi comuni ed elementi già più volte – e in modo di gran lunga più esaustivo – trattati in passato. D’altronde, si sa, mettere in scena temi universali è un lavoro molto più rischioso di quanto inizialmente possa sembrare.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

20° FAR EAST FILM FESTIVAL – ON HAPPINESS ROAD di Sung Hsin Yin

on happiness roadTITOLO: ON HAPPINESS ROAD; REGIA: Sung Hsin Yin; genere: animazione; paese: Taiwan; anno: 2017; durata: 111′

Presentato in anteprima europea alla 20° edizione del Far East Film Festival di Udine, On Happiness Road è un interessante lavoro di animazione della regista taiwanese Sung Hsin Yin.

Con una forte componente autobiografica, il lavoro ci racconta le vicende di Lin Shu-chi, la quale, dopo essere venuta a conoscenza della morte di sua nonna, decide di tornare per un periodo nella cittadina taiwanese dove è nata e cresciuta – precisamente in via Felicità – e che aveva abbandonato soltanto in età adulta per trasferirsi negli Stati Uniti. L’incontro con i suoi genitori e con alcuni amici d’infanzia l’aiuteranno a riflettere sulla sua vita e sui suoi desideri.

E così, con continui flashback e numerose scene oniriche, le vicende della giovane Chi vanno di pari passo con la storia del Taiwan stesso, con la sua politica, la sua cultura, i suoi movimenti studenteschi e le sue disgrazie. Un lungometraggio sentito e personalissimo, in cui si ripercorrono quarant’anni di storia di un’intera nazione, senza la pretesa di voler lanciare a tutti i costi un preciso messaggio politico, ma dove la messa in scena si fa espressione semplice e diretta di un grande amore nei confronti del proprio paese e delle proprie origini. Origini che, ovviamente, vengono intese anche nell’accezione di vere e proprie tradizioni popolari (particolarmente emblematico, a tal proposito, il personaggio della nonna di Chi, aborigena taiwanese che, come vediamo durante i flashback, ogni volta che va a trovare l’adorata nipote, non fa che presentarle nuove, bizzarre usanze).

Una riflessione particolare, inoltre, merita la realizzazione grafica. Particolarmente suggestiva l’animazione in 2D che prevede fondali realizzati con acquerelli dai toni prevalentemente pastello che contrastano sapientemente con figure dai contorni netti e ben delineati. Per non parlare dei momenti onirici o riguardanti l’immaginario di Chi bambina, dove i contorni spariscono del tutto, le immagini e i personaggi di fanno mutanti e non mancano raffinati riferimenti all’immaginario fiabesco che stanno a ricordarci che, in fondo, nessuno – né la protagonista, né tantomeno noi – ha in realtà mai smesso di essere bambino.

Ed ecco che – con un lungometraggio in cui, per certi versi, si sente forte l’influenza di lavori come Pioggia di Ricordi (1991) o I miei Vicini Yamada (1999), entrambi del maestro Isao Takahata e a cui, forse, si può rimproverare una sceneggiatura che tende a farsi leggermente più sfilacciata man mano che ci si avvicina al finale – il mondo dell’animazione taiwanese ha trovato una degna rappresentante in Sung Hsin Yin, la quale, con grande sensibilità e un lirismo di fondo tipico della cultura orientale, ha saputo mettere in scena una storia personale e universale allo stesso tempo, la storia di una singola persona e quella di un’intera nazione, apologia degli affetti, delle tradizioni e degli antichi valori, che vede in un singolare rapporto nonna-nipote una perfetta connessione tra presente e passato, tra sé stessi e il resto del mondo. Una strada sicura per la felicità.

VOTO: 7/10

Marina Pavido