DOC ANNO ZERO – AL VIA LA 2° SESSIONE 2018

Ricevo e volentieri pubblico

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IL CINEMA DEL REALE, NUOVA VIA DELLA CINEMATOGRAFIA ITALIANA?

Roma, 15 e 16 ottobre 2018

con il sostegno di

institut français                  weegil

In collaborazione con

mamiani                       socrate

romafrica                                ottobre africano

con il patrocinio di

 regione lazio          doc it

PRESENTAZIONE

Dopo la candidatura agli Oscar del documentario di Gianfranco Rosi Fuocoammare, Orso d’Oro alla Berlinale 2016, ci è sembrato naturale inaugurare la prima edizione della Rassegna della neonata Associazione Culturale Cinematografica Raccontar di Cinema concentrando il focus su una programmazione di documentari. Infatti il Cinema del cosiddetto “reale” non è più considerato una sezione separata dalla cinematografia dei generi, ma una sua parte integrante e significativa, con un ruolo ben riconoscibile e non più in subordine. Sempre più nei prestigiosi Festival Internazionali , quali appunto Berlino, ma anche Cannes, oltre che alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia e alla giovane Festa del Cinema di Roma, vengono infatti presi in considerazione documentari, inserendoli nelle competizioni ufficiali dei lungometraggi di genere.

La sessione primaverile di DOC ANNO ZERO si è svolta il 16 aprile 2018 presso il Centro culturale francese INSTITUT FRANÇAIS – CENTRE SAINT-con il patrocinio della Regione Lazio e della all’Associazione DOC.IT – documentaristi italiani. Alla manifestazione hanno collaborato l’Istituto Professionale Rossellini e il Liceo Classico Socrate di Roma con una nutrita rappresentanza di giovani cinefili, ma anche di professori e di un pubblico adulto. Sono intervenuti al dibattito dopo le proiezioni il regista Marco Amenta del quale è stato presentato MAGIC ISLAND (vincitore al Salina Doc Fest) e Gianfranco Pannone che ha presentato CON UGO un ritratto inedito di Ugo Gregoretti, dibattendo quindi del tema proposto dalla manifestazione. E’ stato anche proiettato di Mario Sesti il suo omaggio a Lucio Dalla dal titolo SENZA LUCIO (Premio Libero Bizzarri per il miglior soggetto della sezione Italia Doc 2015). Nell’ambito della manifestazione sono stati presentati pure sei corti doc a tema libero, gentilmente selezionati da Alessandro Zoppo (Karavan Fest) di altrettanti giovani registi che hanno partecipato al Premio Miglior Short Doc 2018 Mario Matteucci che ha visto vincitore IRREGULARS Fabio Palmieri (8′) scelto da una giuria di studenti del Rossellini e del Socrate.

Nella sessione autunnale di DOC ANNO ZERO la scelta è caduta su cinque Registi Italiani. Tre Registi consolidati per esperienza e affermazione quali Gianfranco Pannone, Mario Sesti e Marco Spagnoli, e due giovani registi Christian Carmosimo e Francesco Mattuzzi. Dei primi tre si propongono affreschi della nostra società attraverso la storia del secolo passato e di una icona dell’Italia del boom economico con l’OMAGGIO AL RAGIONIERE PIÙ AMATO D’ITALIA, mentre dei due giovani registi si sono scelte le tematiche legate a popoli che sembrano lontani ma sono vicini a noi. Accanto ai lungometraggi la rassegna vuole essere attenta alle tematiche attuali che dilaniano l’Italia del terzo millennio naturale approdo dei migranti che scappano dalle guerre e dalla fame. Per questo DOC ANNO ZERO sente la necessità impellente di proporre le ultime opere di giovani registi italiani di seconda generazione che si sono cimentati nella realizzazione di cortometraggi e si sono distinti nella recente manifestazione del Roma Africa Film Festival. Ciò anche al fine di abbinare all’esperienza consolidata dei primi le passioni giovanili di questi, meno noti ma non meno interessanti ed attuali. Ne è risultata una rassegna composita sia per stili che per temi affrontati che ci auguriamo avvicinerà il pubblico all’emergente “cinema del reale” per rinvigorire la cultura cinefila e “catturare” altri, giovani e no, alla passione per la settima arte parlando anche di ciò che accade intorno a noi.

Le proiezioni si svolgeranno nella sede dell’ INSTITUT FRANÇAIS – CENTRE SAINT-LOUIS (largo Toniolo 20, Roma) nella giornata del 15 ottobre 2018 e presso la sede del WeGIL (largo Ascianghi 5, Roma) nella giornata del 16 ottobre 2018.

I LUNGOMETRAGGI

Christian Carmosimo: A piedi nudi (Pieds nud) – (2015) La Rivoluzione d’Ottobre in Burkina Faso e la successiva transizione

Francesco Mattuzzi: Il peso dei sogni. – (2016) Aurelio e Latifa sono una coppia. Vivono a bordo del loro camion e sognano una famiglia tradizionale. Presentato ad ALICE nella CITTA’ 2016 sezione Panorama DOC

Gianfranco Pannone: Lasciate stare i Santi (2016) Una processione della durata di un secolo attraverso riti e manifestazioni di religiosità collettiva di grande interesse presentato alla Festa del Cinema di Roma.

Mario Sesti: La voce di Fantozzi – (2017) Le avventure di una delle icone del nostro cinema, con una analisi del pensiero ‘fantozziano’ sviscerato attraverso le testimonianze di scrittori, registi, attori e intellettuali.

Marco Spagnoli: Cinecittà Babilonia – (2017) E’ la storia delle prime dive cinematografiche italiane nel quale il regista mette a frutto la sua abilità di ricercatore per tracciare un ritratto di un periodo storico dell’Italia attraverso il cinema e racconta il sogno hollywoodiano del fascismo e la nascita dell’industria cinematografica italiana.

I CORTI G2

In collaborazione con il Roma Africa Film Festival proponiamo una selezione di quattro cortometraggi di giovani registi italiani di seconda generazione emergenti che hanno partecipano alla sezione G2, spazio alle seconde generazioni insieme al vincitore del Premio Miglior Short Doc 2018 Mario Matteucci IRREGULARS di Fabio Palmieri (8′) pluripremiato in numerosi festival e che parla con un linguaggio cinematografico potente della immigrazione così come è vissuta dalla voce narrante di un immigrato.

Ecco i corti dal Roma Africa FF:

21 Insomnia e Idris di Kassim Yassin Saleh

AMBARADAM di Amin Nour e Paolo Negro

Paura dell’Ignoto di Gabriel Jenkinson

In entrambe le giornate verrà proiettato il cortometraggio di Annamaria Liguori LA NOTTE PRIMA (2018), opera che si avvale della produzione esecutiva della MP FILM di Nicola Liguori e Tommaso Ranchino. La direzione creativa dell’opera è della Proformat Comunicazione ed è promossa da Pfizer. Il corto, dedicato alle donne con tumore al seno metastatico, è stato presentato in anteprima internazionale alla 75ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nella sezione VENICE PRODUCTION BRIDGE.

Si ringraziano tutti i soggetti sopra menzionati e le Società Proformat Comunicazione e Pfizer che hanno reso possibile questa sessione autunnale di DOC ANNO ZERO 2018.

Il Direttore Artistico Luigi Noera

DOC ANNO ZERO è una produzione: www.raccontardicinema.it

LA RECENSIONE – THE WIFE – VIVERE NELL’OMBRA di Bjorn Runge

THE-WIFE-678x381TITOLO: THE WIFE – VIVERE NELL’OMBRA; REGIA: Björn Runge; genere: drammatico; paese: USA, Svezia; anno: 2017; cast: Glenn Close, Jonathan Pryce, Christian Slater; durata: 100′

Nelle sale italiane dal 4 ottobre, The Wife – Vivere nell’Ombra è l’ultimo lungometraggio del regista svedese Björn Runge, tratto dall’omonimo romanzo di Meg Wolitzer.

Lo scrittore Joe Castleman sta per ricevere il Nobel per la Letteratura. Sua moglie Joan, da sempre al suo fianco, non fa che sostenerlo, organizzando le sue giornate e standogli vicino durante i momenti immediatamente precedenti la premiazione. Eppure, la coppia custodisce un importante segreto: per moltissimi anni è stata Joan a scrivere i libri del marito, mentre l’uomo, pur essendosi preso i meriti, si è limitato solo alla correzione delle bozze. La donna sembra sopportare tutto stoicamente, fino a poco prima della premiazione, momento in cui si renderà conto di non riuscire più a reggere tale situazione.

Con una storia dagli echi polanskiani (che, tuttavia, a tratti presenta anche qualche forzatura) e un importante spazio dedicato ai flashback mostrantici una giovane Joan infatuata del suo insegnante di scrittura creativa, The Wife può vantare, ad ogni modo, un certo crescendo di tensione fino all’agognato climax finale. E l’operazione in sé sembra nel complesso funzionare, grazie anche – e soprattutto – all’interpretazione della sempre ottima Glenn Close, particolarmente abile nel trasmettere ogni minima sfaccettatura e ogni sfumatura dei sentimenti della protagonista.

Sembrerebbe quasi uno script pensato per il suo personaggio, quale consacrazione della sua importante carriera. E, di fatto, un film come The Wife sembra volerci dire solo una cosa: dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

 

20° FAR EAST FILM FESTIVAL – DEAR EX di Mag Hsu e Chih-yen Hsu

dear exTITOLO: DEAR EX; REGIA: Mag Hsu, Chih-yen Hsu; genere: drammatico; paese: Taiwan; anno: 2017; durata: 99′

Presentato in anteprima alla 20° edizione del Far East Film Festival, Dear Ex è l’ultimo lungometraggio diretto dai registi taiwanesi Mag Hsu e Chih-yen Hsu.

Song Zhengyuan muore prima dell’inizio del film e, con la sua prematura dipartita, mette inevitabilmente in contatto la sua ex moglie e suo figlio con Jay, il suo compagno con il quale aveva iniziato una nuova vita dopo aver scoperto la propria omosessualità. Il conflitto prenderà il via dalla questione riguardante l’eredità, eppure, con il passare del tempo e dopo aver trascorso parecchi giorni a stretto contatto, i tre avranno modo di imparare molto sia sul loro passato che su loro stessi.

Gli elementi che, in un primo momento, possono ricordarci Le Fate Ignoranti, diretto nel 2001 da Ferzan Ozpetek, dunque, non sono pochi. Eppure, in seguito alla visione di Dear Ex, più che Ozpetek viene in mente un regista come Pedro Almodovar, sia per quanto riguarda la particolare messa in scena adottata, sia, molto semplicemente, per la fotografia, le scenografie e, soprattutto, la scelta dei colori. Sono, infatti, il rosso e il verde a predominare in tutto il lungometraggio. Rosso che sta a indicare l’amore, una passione ancora viva, ma anche il sangue. Il verde, da buona tradizione hitchcockiana, la morte. La morte quale fattore scatenante di tutta la vicenda e che, contrapponendosi alle vite frenetiche dei tre protagonisti, si fa presenza costante all’interno dell’intero lavoro. Ovviamente, il paragone con Almodovar può risultare addirittura azzardato, se si pensa ai non pochi elementi che in Dear Ex non sempre funzionano. Eppure sono questa passionalità urlata, questo susseguirsi frenetico di eventi e, non per ultimi, questi numerosi flashback a ricordarci l’Almodovar del primo periodo che ha avuto modo – grazie al suo stile inconfondibile – di farsi conoscere in tutto il mondo.

Detto questo, seppur complessivamente gradevole, il nostro Dear Ex – come già accennato – le sue pecche le ha eccome. Se si pensa, infatti, alla carriera in ambito televisivo della regista Mag Hsu, poco ci si stupisce del taglio quasi da sit com dell’intero lavoro. E lo script stesso, seppur pregno di spunti interessanti, non fa che collezionare una sfilza di momenti ridondanti, perdendo pericolosamente di mordente man mano che ci si avvicina al finale, soprattutto nel momento che dovrebbe rappresentare il climax dell’intero lungometraggio, in cui Jay, assistito dalla moglie e dal figlio del suo compagno, mette in scena un’opera teatrale dedicata a quest’ultimo, che, secondo le intenzioni dei registi, dovrebbe aiutare i tre protagonisti a elaborare finalmente il lutto.

E così, le buone intenzioni degli autori vengono esplicitate solo in parte. Peccato. Malgrado, infatti, le numerose imperfezioni, Dear Ex resta comunque un lavoro onesto e sentito, che, però, indagando nell’animo umano, non fa che raccogliere una serie di luoghi comuni ed elementi già più volte – e in modo di gran lunga più esaustivo – trattati in passato. D’altronde, si sa, mettere in scena temi universali è un lavoro molto più rischioso di quanto inizialmente possa sembrare.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

20° FAR EAST FILM FESTIVAL – ON HAPPINESS ROAD di Sung Hsin Yin

on happiness roadTITOLO: ON HAPPINESS ROAD; REGIA: Sung Hsin Yin; genere: animazione; paese: Taiwan; anno: 2017; durata: 111′

Presentato in anteprima europea alla 20° edizione del Far East Film Festival di Udine, On Happiness Road è un interessante lavoro di animazione della regista taiwanese Sung Hsin Yin.

Con una forte componente autobiografica, il lavoro ci racconta le vicende di Lin Shu-chi, la quale, dopo essere venuta a conoscenza della morte di sua nonna, decide di tornare per un periodo nella cittadina taiwanese dove è nata e cresciuta – precisamente in via Felicità – e che aveva abbandonato soltanto in età adulta per trasferirsi negli Stati Uniti. L’incontro con i suoi genitori e con alcuni amici d’infanzia l’aiuteranno a riflettere sulla sua vita e sui suoi desideri.

E così, con continui flashback e numerose scene oniriche, le vicende della giovane Chi vanno di pari passo con la storia del Taiwan stesso, con la sua politica, la sua cultura, i suoi movimenti studenteschi e le sue disgrazie. Un lungometraggio sentito e personalissimo, in cui si ripercorrono quarant’anni di storia di un’intera nazione, senza la pretesa di voler lanciare a tutti i costi un preciso messaggio politico, ma dove la messa in scena si fa espressione semplice e diretta di un grande amore nei confronti del proprio paese e delle proprie origini. Origini che, ovviamente, vengono intese anche nell’accezione di vere e proprie tradizioni popolari (particolarmente emblematico, a tal proposito, il personaggio della nonna di Chi, aborigena taiwanese che, come vediamo durante i flashback, ogni volta che va a trovare l’adorata nipote, non fa che presentarle nuove, bizzarre usanze).

Una riflessione particolare, inoltre, merita la realizzazione grafica. Particolarmente suggestiva l’animazione in 2D che prevede fondali realizzati con acquerelli dai toni prevalentemente pastello che contrastano sapientemente con figure dai contorni netti e ben delineati. Per non parlare dei momenti onirici o riguardanti l’immaginario di Chi bambina, dove i contorni spariscono del tutto, le immagini e i personaggi di fanno mutanti e non mancano raffinati riferimenti all’immaginario fiabesco che stanno a ricordarci che, in fondo, nessuno – né la protagonista, né tantomeno noi – ha in realtà mai smesso di essere bambino.

Ed ecco che – con un lungometraggio in cui, per certi versi, si sente forte l’influenza di lavori come Pioggia di Ricordi (1991) o I miei Vicini Yamada (1999), entrambi del maestro Isao Takahata e a cui, forse, si può rimproverare una sceneggiatura che tende a farsi leggermente più sfilacciata man mano che ci si avvicina al finale – il mondo dell’animazione taiwanese ha trovato una degna rappresentante in Sung Hsin Yin, la quale, con grande sensibilità e un lirismo di fondo tipico della cultura orientale, ha saputo mettere in scena una storia personale e universale allo stesso tempo, la storia di una singola persona e quella di un’intera nazione, apologia degli affetti, delle tradizioni e degli antichi valori, che vede in un singolare rapporto nonna-nipote una perfetta connessione tra presente e passato, tra sé stessi e il resto del mondo. Una strada sicura per la felicità.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

20° FAR EAST FILM FESTIVAL – THE BATTLESHIP ISLAND: DIRECTOR’S CUT di Ryoo Seung-wan

battleship-islandTITOLO: THE BATTLESHIP ISLAND: DIRECTOR’S CUT; REGIA: Ryoo Seung-wan; genere: storico, guerra; paese: Corea del Sud; anno: 2017; durata: 151′

Presentato in anteprima alla 20° edizione del Far East Film Festival, The Battleship Island: Director’s Cut è l’ultimo lungometraggio realizzato dal regista sudcoreano Ryoo Seung-wan, del quale al festival è stato proiettato anche Veteran (2015).

Siamo nel 1945. Il direttore d’orchestra Gang-ok è solito tenere concerti a Seul insieme a Sohee, la sua figlioletta di undici anni. In seguito a un flirt con la moglie di un alto ufficiale, però, l’uomo sarà costretto a partire e si imbarcherà, insieme alla figlia, alla volta del Giappone. Non appena giungerà a destinazione, però, Gang-ok si renderà conto di essere stato deportato, insieme a un nutrito gruppo di coreani, su un’isola al largo della costa di Nagasaki, dove molti prigionieri saranno costretti a lavorare in una miniera in condizioni disumane. Tale sito è stato nominato nel 2016 patrimonio dell’UNESCO. Ciò che è accaduto durante la Seconda Guerra Mondiale è una ferita ancora aperta.

Dopo la visione di un lungometraggio come il presente, dunque, non ci si può che sentire arricchiti. Merito non solo della messa in scena di eventi storici tanto importanti quanto meno noti rispetto ad altri, ma anche del pregiato valore artistico dell’intero lavoro. Al di là dell’impeccabile regia – con una macchina da presa agile, perfettamente in grado di gestire gli spazi sia in momenti di calma che durante i combattimenti – al di là delle fedeli ricostruzioni degli ambienti dell’epoca, è soprattutto un sapiente e raffinato lavoro di scrittura a far sì che un prodotto come The Battleship Island non solo non perda mai di ritmo e sappia reggere bene la durata di oltre due ore e mezzo, ma vanti anche al suo interno un nutrito numero di personaggi interessanti e ben caratterizzati. A partire, appunto, proprio da Gang-ok e da sua figlia Sohee. Un accurato lavoro di ricostruzione storica che vede al proprio interno anche un evento doloroso come il lancio della bomba atomica su Nagasaki (particolarmente d’effetto, a tal proposito, le scelte cromatiche attuate dal regista nel mostrarci l’evento, con un improvviso bianco e nero su cui stride il giallo fuoco dei fumi della bomba stessa).

E poi c’è l’Arte. L’Arte come puro amore per il Bello, così come strumento salvifico nel vero senso della parola. È (soprattutto) grazie al loro talento che Sohee e suo padre riescono a ottenere un trattamento meno duro rispetto agli altri durante la loro prigionia. È soltanto durante qualche performance artistica che anche il più spietato dei comandanti giapponesi sembra placarsi anche solo momentaneamente. L’Arte, secondo quanto ha voluto mettere in scena Ryoo Seung-wan, è l’unico elemento che accomuna tutti e che ci rende più umani. E, pertanto, va celebrata.

Ciò che Ryoo Seung-wan ha voluto realizzare è, dunque, sì un film di denuncia contro i crimini di guerra compiuti dai giapponesi (e, più in generale, da ogni essere umano), ma anche – e soprattutto – una dichiarazione d’amore rivolta al proprio paese e alla propria gente: uomini forti e dignitosi, in grado di far fronte alle situazioni più complicate. Che sia, questa, una sorta di “incoraggiamento” rivolto proprio al popolo coreano, in un periodo storico difficile come quello che sta vivendo? Al pubblico il privilegio di ogni personale, soggettiva interpretazione.

Piccola chicca: durante una delle battaglie più cruente di tutto il lungometraggio, il regista ha scelto come sottofondo una musica firmata Ennio Morricone. Non mancano, in tutto il mondo, ottimi estimatori del nostro buon cinema e dei nostri grandi autori. E questo, ovviamente, non può che riempirci di orgoglio.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

20° FAR EAST FILM FESTIVAL – SIDE JOB di Hiroki Ryuichi

sidejobTITOLO: SIDE JOB; REGIA: Hiroki Ryuichi; genere: drammatico; paese: Giappone; anno: 2017; durata: 119′

Presentato in anteprima alla 20° edizione del Far East Film Festival, Side Job è l’ultimo lavoro del cineasta giapponese Hiroki Ryuichi, originario di Fukushima, il quale ci parla proprio della terribile tragedia che ha colpito il suo paese nel 2011.

Viene qui messa in scena la storia della giovane Miyuki Kanazawa, la quale ha perso la madre nel disastro, vive con il padre rimasto praticamente senza occupazione, lavora come impiegata comunale nella città di Iwaki e ogni fine settimana si reca a Tokyo, ufficialmente per seguire un corso di inglese. La ragazza, in realtà, approfitta dei weekend per prostituirsi all’interno di hotel di lusso. Ma qual è il reale motivo per cui ha scelto questa strada? Cosa può darle un’esperienza del genere, dal momento che la giovane non si trova in condizioni economiche precarie?

La risposta, molto banalmente, può essere il desiderio di evasione, di vivere un mondo parallelo e insolito, al fine di scappare dai fantasmi che popolano la vita di tutti i giorni e dai drammatici ricordi di un passato non sempre clemente.

Doloroso al pari del bellissimo Himizu di Sion Sono (2011), al quale si pensa inevitabilmente durante le numerose carrellate che ci mostrano la città che ancora vive i postumi del disastro, Side Job non si limita a raccontarci una singola storia – quella di Miyuki, appunto – bensì la storia di molte persone che ogni giorno devono fare i conti con ciò che è successo: da chi ha deciso di buttarsi a capofitto sul lavoro, al punto di trascurare la propria famiglia, a chi tenta in ogni modo il suicidio; da chi non sa come aiutare i propri figli a vivere una vita “normale” a chi, prendendo sempre più consapevolezza per quanto riguarda l’accaduto, al fine di vivere il presente senza dimenticare ciò che è stato, cerca di fotografare ogni luogo, ogni persona e ogni oggetto legato inevitabilmente alla tragedia.

E, a tal proposito, la scena in cui agli abitanti di Iwaki vengono mostrate le fotografie di una giovane artista, raffiguranti il prima e il dopo tsunami, è forse il momento maggiormente toccante di tutto il film, esplicito, ma mai eccessivo, doloroso ma che evita sapientemente di dirci troppo, lasciando lo spettatore in un momento di doveroso raccoglimento e necessaria meditazione.

Sempre pensando al sopracitato film di Sion Sono, una sostanziale differenza con Side Job c’è eccome: questo ultimo lavoro di Hiroki Ryuichi si differenzia dall’opera di Sono – così come da molti altri lungometraggi sull’argomento – per un’importante iniezione di speranza, mostrandoci un popolo sì profondamente ferito, sì terribilmente sconvolto, ma anche fortemente dignitoso, che, nonostante tutto, non ha mai perso la voglia di rimboccarsi le maniche e di risollevarsi. E, a tal proposito, particolarmente emblematica è una scritta realizzata con un comunissimo spray su di un muro abbandonato, al quale viene dedicata l’ultima inquadratura: “Non preoccupatevi. Siamo sopravvissuti.”. Una scritta che in sé racchiude tutta l’essenza dell’intero lavoro di Hiroki Ryuichi, il quale, malgrado il coinvolgimento in prima persona nei fatti, è riuscito a mantenere anche quel necessario distacco emotivo auspicabile nel momento in cui si dà vita a un’opera. Anche questo, dunque, contribuisce ad accrescere il valore artistico di questo prezioso documento storico.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

20° FAR EAST FILM FESTIVAL – OUR TIME WILL COME di Ann Hui

ourtimewillcomeTITOLO: OUR TIME WILL COME; REGIA: Ann Hui; genere: storico; paese: Hong Kong; anno: 2017; durata: 131′

Presentato in anteprima italiana alla 20° edizione del Far East Film Festival, Our Time will come è l’ultima fatica della celebre cineasta cinese di Hong Kong Ann Hui, la quale, anche qui, ci racconta un’importante episodio della storia del suo paese.

Siamo nel 1942. I giapponesi hanno occupato militarmente Hong Kong e un gruppo di sovversivi cerca di far fuggire dal paese alcuni intellettuali, al fine di aiutarli a sottrarsi al governo nemico. Tra di loro c’è anche la giovane insegnante Fong Lan, la quale ha appena lasciato il fidanzato – schierato con l’esercito dei giapponesi, ma che collabora segretamente con la fazione di Hong Kong – si è lasciata condurre nella lotta dal ribelle Blackie Lau e ha messo a repentaglio addirittura la vita di sua madre, al fine di riuscire a perseguire il proprio scopo.

Un lavoro, dunque, che – ispirato a fatti realmente accaduti e a persone realmente esistite – già dopo una breve, sommaria lettura della sinossi riesce bene a rendere l’idea della propria importanza e della propria imponenza. La figura di questa eroina femminile, simbolo ideale della lotta della popolazione hongkonghese, ma anche degna rappresentante di tutte le protagoniste dei precedenti lungometraggi della Hui, da subito, ben scritta e ben caratterizzata, riesce a prendere in mano le redini di un intero lavoro che – fatta eccezione per qualche piccolo elemento di sceneggiatura lasciato in sospeso come, ad esempio, il rapporto tra la protagonista stessa e lo scrittore da lei ospitato – tutto sommato riesce a reggere bene la lunga durata, senza registrare cali di ritmo e alternando sapientemente momenti altamente drammatici a scene decisamente più leggere e, a loro modo, anche di quando in quando ironiche.

Tutto il resto è in pieno stile di Ann Hui: scenografie curate sin nel minimo dettaglio che ricostruiscono fedelmente una Hong Kong degli anni Quaranta, costumi ora sontuosi, ora miseri e personaggi che – grazie anche alle più che convincenti interpretazioni degli attori protagonisti – sembrano venuti fuori direttamente dal secolo scorso.

Eppure, rispetto ai precedenti lavori della cineasta, Our Time will come una peculiarità tutta sua ce l’ha eccome. A tal proposito, particolarmente azzeccata si è rivelata la scelta di inserire all’interno della messa in scena una sorta di cornice dal taglio documentaristico, in cui vediamo (in un rigoroso bianco e nero) uno degli allievi della protagonista raccontarci, ai giorni nostri, le incredibili vicende vissute dalla propria insegnante. Emblematica e suggestiva, dunque, la scena finale, in cui, tramite un cambio fotografico, vediamo il paesaggio degli anni Quaranta trasformarsi nella Hong Kong di oggi. Segno che la Storia, seppur lontana, si fa sentire ancora viva e pulsante oggi come in passato. Segno che la Memoria è uno dei patrimoni più preziosi di cui disponiamo e che abbiamo il dovere di salvaguardare in tutti i modi possibili.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – IL CRATERE di Silvia Luzi e Luca Bellino

ilcratereTITOLO: IL CRATERE; REGIA: Silvia Luzi, Luca Bellino; genere: drammatico; paese: Italia; anno: 2017; cast: Rosario Caroccia, Sharon Caroccia; durata: 97′

Nelle sale italiane dal 12 aprile, Il Cratere è il primo lungometraggio a soggetto dei documentaristi Silvia Luzi e Luca Bellino, presentato come film d’apertura della Settimana della Critica alla 74° Mostra d’Arte Cinematografia di Venezia.

Sharon è un’adolescente con uno straordinario talento per il canto. Suo padre Rosario è ben consapevole del dono di sua figlia e, stanco di vivere una vita in continue ristrettezze economiche, lavorando come venditore ambulante di peluches durante le fiere, per tutta la vita non ha fatto altro che spronare la figlia a coltivare la sua passione per il canto, sottoponendola a estenuanti esercizi per la voce e procurandole un gran numero di provini. La ragazza, com’è logico che sia, si sentirà eccessivamente sotto pressione, al punto di entrare in una profonda crisi personale.

Ed ecco che, ancora una volta, ci troviamo ad assistere a una sorta di miracolo cinematografico all’interno del nostro Bel Paese. In questo piccolo, ma importante lavoro, infatti, i due giovani cineasti riescono a mettere in scena il delicato rapporto padre-figlia riuscendo a cogliere ogni singola emozione e ogni più recondito sentimento che pervade i due protagonisti (interpretati da Rosario e Sharon Caroccia, padre e figlia anche nella via reale).

Sono ravvicinatissime inquadrature e dettagli del viso regalatici con un costante uso di camera a mano a trasmetterci quel senso di angoscia e claustrofobia che si respira fin dai primi minuti e che, nel corso della narrazione, non fa che diventare sempre più forte, fino a farsi addirittura insopportabile. Lo spettatore, dunque, soffre insieme alla giovane protagonista e viene coinvolto a 360°, grazie alla straordinaria padronanza del mezzo cinematografico da parte dei due registi, oltre che alla bravura degli stessi interpreti, entrambi alla loro prima esperienza sul grande schermo.

Con un piglio decisamente zavattiniano, dunque, Il Cratere si rivela un ottimo manuale di cinema del reale, in grado – proprio grazie alla particolare messa in scena – di colpire lo spettatore nel vivo e di distinguersi all’interno di un panorama cinematografico che, mai come in questo ultimo anno, ha visto comparire sul grande schermo uno spropositato numero di pellicole nostrane.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – L’AMORE SECONDO ISABELLE di Claire Denis

isabelleTITOLO: L’AMORE SECONDO ISABELLE; REGIA: Claire Denis; genere: drammatico; paese: Francia; anno: 2017; cast: Juliette Binoche, Gerard Dépardieu; Valeria Bruni Tedeschi; durata: 94′

Nelle sale italiane dal 19 aprile, L’amore secondo Isabelle è l’ultimo lungometraggio diretto dall’attrice e regista francese Claire Denis, presentato in concorso all’ultima edizione del Torino Film Festival.

Isabelle è una pittrice di successo, divorziata e con una figlia di dieci anni. Cercando incessantemente l’amore, passa da una storia all’altra incontrando solo uomini privi di scrupoli. Solo un veggente saprà aiutarla a capire che l’importante è innanzitutto amare sé stessi, prima di riuscire ad amare qualcun altro.

Con una sempre ottima Juliette Binoche, Claire Denis è riuscita sapientemente a mettere in scena il dramma di una donna non più giovanissima che non riesce a stare da sola, raccontando una storia universale e scandagliando ogni aspetto dell’animo umano con garbo e anche una giusta dose di ironia.

Sono i lunghi dialoghi, alternati a grandi silenzi, i veri protagonisti della pellicola, in cui la regista non ha paura di scadere in banali stereotipi, ma, dimostrando sempre una grande padronanza della messa in scena, ha saputo creare un ritratto della società contemporanea in cui non c’è più tempo per le relazioni e in cui nessuno (o quasi) ha più voglia di impegnarsi.

La Binoche, dal canto suo, con intensi primi piani e repentini cambi di registro, ha dato vita a una Isabelle vera e sincera, nella quale chiunque, prima o poi, ha avuto modo di rispecchiarsi.

Ultima considerazione: il lungo monologo di Gerard Dépardieu in veste di veggente/guru/guida spirituale alla fine del lungometraggio è un vero e proprio valore aggiunto all’intero lavoro.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – UN SOGNO CHIAMATO FLORIDA di Sean Baker

film-in-uscita-un-sogno-chiamato-florida_oggetto_editoriale_800x600TITOLO: UN SOGNO CHIAMATO FLORIDA; REGIA: Sean Baker; genere: drammatico; paese: USA; anno: 2017; cast: Willem Dafoe, Bria Vinaite, Brooklynn Prince; durata: 112′

Nelle sale italiane dal 22 marzo, Un Sogno chiamato Florida è l’ultimo lungometraggio del cineasta indipendente Sean Baker, presentato in anteprima al Torino Film Festival 2017 e che ha visto la candidatura di Willem Dafoe per l’Oscar al Miglior Attore Non Protagonista.

Moonie, Scotty e Jancey sono tre bambini di sei anni che vivono in Florida, alle porte di Disneyland, ma in una zona del tutto periferica e abbandonata, insieme alle rispettive madri. Per loro la vita non è facile, eppure, con i loro occhi di bambini, riusciranno a vedere il bello in tutto, passando una delle estati più felici della loro vita. La giovane madre di Moonie, Halley, tuttavia, al fine di riuscire a pagare la piccola stanza che ha in affitto in un residence insieme alla figlioletta, vive al confine tra legalità e crimine. Questo, ovviamente, presenterà pesanti conseguenze.

A metà strada tra un film truffautiano e una pellicola di Larry Clark, questo prezioso lavoro di Baker ci racconta la squallida periferia statunitense attraverso gli occhi dei bambini, rendendo il tutto incredibilmente gioioso, colorato, vivo come forse non è stato mai. Persino i residence vengono rappresentati alla stregua di case accoglienti o, meglio ancora, di vere e proprie case incantate, con i loro colori pastello e le loro scale che tanto stanno a ricordare i labirinti dei luna park.

Il residence dove abita Moonie insieme alla madre Halley è, nello specifico, rappresentato come una sorta di girone dantesco, con persone che vivono ai margini della società ma con una sorta di angelo custode – interpretato dal grande Willem Dafoe nei panni del sorvegliante del residence stesso – che veglia su di loro ed è pronto a risolvere, spesso con fare severo e paternalistico, ogni loro problema.

E poi ci sono loro: i bambini, sempre pronti a vivere al massimo le loro giornate, accontentandosi di poco e divertendosi anche se non riescono e forse non riusciranno mai ad andare alla vicina Disneyland. Una vita, la loro, fatta di risate e semplici scherzi, in cui sono le madri (i padri sono del tutto assenti) a gestire la loro quotidianità, la cui serenità può essere minata soltanto dalle autorità, con il loro cinismo e le loro regole che spesso vanno contro ogni buonsenso.

Un vero e proprio gioiellino direttamente dal Torino Film Festival, questo lungometraggio di Sean Baker. Una pellicola dolce e amara che, ci auguriamo, non passerà affatto inosservata.

VOTO: 8/10

Marina Pavido