Dal 19 settembre al cinema EAT LOCAL – il vampire movie dallo humor inglese

manifesto_eatlocal-1Ricevo e volentieri pubblico

Il 19 settembre, distribuito in Italia dalla Mediterranea Productions, arriverà al cinema l’opera prima di Jason Flemyng, acclamato attore britannico che esordisce dietro la macchina da presa con un thriller soprannaturale pieno d’azione e dark humour: Eat local – A cena coi vampiri.

Il film, scritto da Danny King, è la perfetta sintesi tra le storiche pellicole Distretto 13 – Le brigate della morte di John Carpenter e Intervista col vampiro di Neil Jordan, risultando un cross-over pieno di risate e schizzi di liquido rosso.

In un tranquillo casolare di campagna i vampiri della Gran Bretagna si radunano per la loro cinquantennale riunione. Ad essi si unisce anche l’inconsapevole Sebastian Crockett, un ragazzo dell’Essex per il quale la promessa di una notte di passione con l’incantevole cougar Vanessa si trasforma presto in una lotta per la sopravvivenza. Mentre la notte di Sebastian diventa sempre più pericolosa, una banda di cacciatori di vampiri guidata dal capitano Bingham decide di irrompere alla festa dando inizio ad uno spargimento di sangue senza precedenti.

i-BBtXKNW-XLNel cast grandi attori inglesi, tra cui Freema Agyeman, Charlie Cox, Mackenzie Crook Annette Crosbie, Tony Curran, Dexter Fletcher, Ruth Jones Lukaz Leong, Jordan Long Eve Myles, Johnny Palmiero, Robert Portal, Vincent Regan e Billy Cook.

Come confermato dall’entusiasmo mostrato dal cast e dalla troupe nel lavorare ad un film con i vampiri, Eat local – A cena coi vampiri si discosta dai soliti prodotti sul tema. La sceneggiatura di Danny King è molto originale e tagliente come i denti dei vampiri. I succhiasangue di questo racconto non sono misteriosi e impalliditi con mantelli lunghi e voluminosi, ma esattamente come noi esseri umani, solo con il dono della vita eterna e fame di sangue fresco. Hanno delle regole e delle leggi, oltre ad un codice nella loro società. Proprio come noi, ognuno di essi ha dei difetti e delle stranezze che li rendono particolari.

Eat local – A cena coi vampiri, inoltre riflette sulla loro mitologia andando al di là della solita retorica del bene e del male. Non ci sono divisioni tra il buoni e cattivi, non c’è bianco e non c’è nero, in quanto, come affermato da Dexter Fletcher, “Il film riesce a umanizzare l’inumano”.

i-qWz5h63-X3E, se da un lato, in mezzo a scontri corpo a corpo ed evidenti sguardi alle dinamiche da cineVgame, non manca neppure un evidente sottotesto-attacco relativo alle industrie farmaceutiche, dall’altro non viene dimenticata la tematica dei migranti, anch’essi motore della nostra società.

Dall’iniziale progetto, si è arrivati ad Eat Local – A cena coi vampiri grazie ad un cast di star e ad un incredibile troupe che ha lavorato senza sosta in un angolo isolato dell’Hertfordshire, per quattro settimane di riprese caratterizzate da un freddo pungente e dal fango. Un elaborato realizzato in dieci anni e una dimostrazione di cosa può nascere dal duro lavoro e dalla dedizione. Si tratta di un progetto ricco di sfide, ma tutte le persone coinvolte hanno scavato a fondo nelle loro competenze nel campo cinematografico per offrire un esperienza sensazionale ed intelligente.

LA RECENSIONE – L’AMORE SECONDO ISABELLE di Claire Denis

isabelleTITOLO: L’AMORE SECONDO ISABELLE; REGIA: Claire Denis; genere: drammatico; paese: Francia; anno: 2017; cast: Juliette Binoche, Gerard Dépardieu; Valeria Bruni Tedeschi; durata: 94′

Nelle sale italiane dal 19 aprile, L’amore secondo Isabelle è l’ultimo lungometraggio diretto dall’attrice e regista francese Claire Denis, presentato in concorso all’ultima edizione del Torino Film Festival.

Isabelle è una pittrice di successo, divorziata e con una figlia di dieci anni. Cercando incessantemente l’amore, passa da una storia all’altra incontrando solo uomini privi di scrupoli. Solo un veggente saprà aiutarla a capire che l’importante è innanzitutto amare sé stessi, prima di riuscire ad amare qualcun altro.

Con una sempre ottima Juliette Binoche, Claire Denis è riuscita sapientemente a mettere in scena il dramma di una donna non più giovanissima che non riesce a stare da sola, raccontando una storia universale e scandagliando ogni aspetto dell’animo umano con garbo e anche una giusta dose di ironia.

Sono i lunghi dialoghi, alternati a grandi silenzi, i veri protagonisti della pellicola, in cui la regista non ha paura di scadere in banali stereotipi, ma, dimostrando sempre una grande padronanza della messa in scena, ha saputo creare un ritratto della società contemporanea in cui non c’è più tempo per le relazioni e in cui nessuno (o quasi) ha più voglia di impegnarsi.

La Binoche, dal canto suo, con intensi primi piani e repentini cambi di registro, ha dato vita a una Isabelle vera e sincera, nella quale chiunque, prima o poi, ha avuto modo di rispecchiarsi.

Ultima considerazione: il lungo monologo di Gerard Dépardieu in veste di veggente/guru/guida spirituale alla fine del lungometraggio è un vero e proprio valore aggiunto all’intero lavoro.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – CARAVAGGIO, L’ANIMA E IL SANGUE di Jesus Garces Lambert

caravaggioTITOLO: CARAVAGGIO – L’ANIMA E IL SANGUE; REGIA: Jesus Garces Lambert; genere: documentario; paese: Italia, USA; anno: 2017

Nelle sale italiane come evento speciale soltanto il 19, 20 e 21 febbraio 2018, Caravaggio – L’Anima e il Sangue è un interessante documentario sulla vita del celebre pittore, diretto dal documentarista Jesus Garces Lambert e prodotto da Sky, in collaborazione con Magnitudo Film.

Un uomo – un Michelangelo Merisi contemporaneo – si fascia la bocca ed il naso con del cellophan. Contemporaneamente, una farfalla, sbattendo le ali, all’interno di una lampada ad olio, sembra voler a tutti i costi fuggire via, senza riuscirci. E così, perfettamente in linea con il carattere del celebre pittore, fin da subito ci è palese quell’energia, quel carattere impetuoso di Merisi, che non pochi problemi con la giustizia gli ha procurato durante la sua breve vita. Una voce fuori campo inizia a raccontarci le gesta del Caravaggio, da quando, insieme alla famiglia, dovette fuggire dalla sua città natale a causa di un’epidemia di peste, per poi illustrarci la sua brillante carriera, fino a parlarci della sua morte prematura, avvenuta in circostanze misteriose. Di quando in quando, è lo stesso Caravaggio ad intervenire – con la voce di Manuel Agnelli – interrompendo la narrazione, per mettere a nudo i suoi sentimenti, i suoi pensieri più intimi. E poi, non per ultima, c’è l’Arte allo stato puro. Circa quaranta opere di Michelangelo Merisi vengono analizzate fin nel dettaglio – con interventi degli studiosi Claudio Strinati, Mina Gregori e Rossella Vodret – con giochi di luce che non stanno a rovinare le immagini originali ed una macchina da presa che, molto ravvicinata, ma anche estremamente riverente, ci mostra, di volta in volta, ogni singolo centimetro dei dipinti presi in esame.

Siamo d’accordo. Dato il tema trattato, non è difficile dar vita ad un prodotto accattivante e ben realizzato. Eppure, la scelta del tipo di messa in scena, come ben sappiamo, la differenza la fa eccome. Se pensiamo, ad esempio, al precedente documentario firmato Sky Raffaello, il Principe delle Arti, di certo ricordiamo alcune scelte registiche rivelatesi successivamente poco indovinate, se non addirittura posticce. Basti pensare, ad esempio, alle poco convincenti scene in live action che, di quando in quando, andavano ad interrompere la narrazione. In questo caso, fortunatamente, Garces Lambert ha optato per una regia molto più semplice, ma efficace, che senza troppi fronzoli arriva dritta al punto e che sa renderci un ritratto a tutto tondo del pittore di Caravaggio . E poi, diciamolo pure, anche l’occhio vuole la sua parte ed un artista come Michelangelo Merisi ancora oggi sa arrivare dritto al cuore di chi ne ammira l’opera.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – BRUTTI E CATTIVI di Cosimo Gomez

brutti e cattiviTITOLO: BRUTTI E CATTIVI; REGIA: Cosimo Gomez; genere: commedia; paese: Italia, Belgio, Francia; anno: 2017; cast: Claudio Santamaria, Sara Serraiocco, Marco D’Amore; durata: 87’

Nelle sale italiane dal 19 ottobre, Brutti e cattivi è l’ultimo lungometraggio di Cosimo Gomez, presentato nella sezione Orizzonti alla 74° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia.

Un’insolita banda di criminali – capeggiata da un paraplegico detto il Papero e formata dalla moglie di lui, una bella ragazza senza braccia detta la Ballerina, da un tossico detto il Merda e da un nano rapper detto Plissé – mette a segno una rapina in una banca alla periferia di Roma, dove un mafioso cinese ha riposto i proventi delle sue attività illecite. Il Papero, tuttavia, non sospetta che, in realtà, sua moglie ed i suoi complici stanno tramando contro di lui. Una volta realizzato il colpo, quindi, le cose prenderanno una piega inaspettata.

Indubbiamente l’idea di mettere in scena la diversità senza ipocriti buonismi e senza scadere nel luogo comune è una trovata interessante. Il vero problema di un film come Brutti e cattivi sta, però, proprio nello script: tanti, troppi eventi ed intrecci di ogni genere si susseguono repentinamente senza, però, far prendere un attimo di respiro al film e seguendo un percorso pericolosamente banale e con esiti fortemente telefonati. Già nel momento in cui vediamo il Merda tradire il suo capo, ad esempio, possiamo facilmente immaginare il finale.

Persino personaggi potenzialmente interessanti come i protagonisti, tra l’altro, vengono tristemente “sprecati”, in quanto privi di reale spessore. Si ha l’impressione che lo stesso Gomez non abbia avuto interesse nello svilupparli come avrebbero meritato. Peccato, soprattutto perché – seguendo (quasi) le orme dei freaks di Tod Browning – tutti loro avrebbero di certo avuto tanto da regalarci.

Cos’è, dunque, Brutti e cattivi? Indubbiamente un tentativo da parte del cinema italiano di staccarsi da quel che è la commedia nostrana di grande distribuzione, ma anche, purtroppo, un’operazione maldestra che denota poca chiarezza di intenti.

VOTO: 4/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – PRIMA DI DOMANI di Ry Russo-Young

prima-di-domani-filmTITOLO: PRIMA DI DOMANI; REGIA: Ry Russo-Young; genere: drammatico, thriller; anno: 2017; paese: USA; cast: Zoey Deutsch, Halston Sage, Logan Miller; durata: 98′

Nelle sale italiane dal 19 luglio, Prima di domani è l’ultimo lungometraggio della regista di Orphans, Ry russo-Young.

La giovane Sam è una bella ragazza all’ultimo anno di liceo, la cui vita sembra a dir poco perfetta: ha una famiglia armoniosa, un ragazzo da far invidia a tutta la scuola e tre migliori amiche che adora e che la adorano a loro volta. Dopo essere stata ad una festa con queste ultime, però, la macchina sulla quale viaggia ha un terribile incidente. La cosa strana è che, immediatamente dopo, la ragazza si risveglierà nel suo letto e rivivrà lo stesso identico giorno, come se nulla fosse mai accaduto. È da qui in poi che la giovane protagonista sembra finita in un loop apparentemente senza fine. Come farà ad uscirne?

prima-di-domani-foto-film_1Seppur non originalissimo – e con non pochi rimandi a pellicole come Sliding doors, Cambia la tua vita con un click ed altre commediole del genere che, in un modo o nell’altro, hanno fatto epoca a loro tempo – bisogna riconoscere che durante i primi minuti, lo script può sembrare anche piuttosto interessante. Soprattutto se si pensa ai possibili ed innumerevoli risvolti che la faccenda potrebbe avere. L’iniziale interesse, però, tende tristemente a scemare dopo poco tempo. Sempre per colpa dello stesso script, il quale, prevede non pochi elementi che rendono il prodotto pericolosamente banale, oltre che decisamente prevedibile. Malgrado i numerosi spunti che un lavoro del genere può offrire, tutto sembra procedere in modo eccessivamente lineare, con risvolti e pseudo colpi di scena piuttosto deboli, oltre a cosiddetti “twist” che, di fatto, twist non sono, in quanto tutto può già essere facilmente immaginato fin dall’inizio.

Stesso discorso vale per le locations o, meglio ancora, il mondo scolastico ricostruito: neanche i più classici dei clichés – le ragazze più ambite della scuola, il belloccio di turno che sembra spezzare cuori a destra e a manca, la ragazzina più introversa, isolata e bullizzata – sembrano essere solide basi per risvolti innovativi. Nulla, tutto resta fermo dov’è, in un contesto stagnante e a dir poco angusto.

coverlg (2)Con premesse del genere, tra l’altro, non è raro che si verifichino scivoloni aventi come risultato un effetto comico involontario – i dialoghi, a tal proposito, giocano un ruolo fondamentale, così come l’ultima frase pronunciata dalla protagonista in chiusura del film – oltre ad un effetto finale che fa tanto stucchevole apologia dei buoni sentimenti.

Niente da fare, dunque, per salvare questo ultimo lavoro di Ry Russo-Young, che, di fatto, con i suoi precedenti lungometraggi aveva anche riscosso un discreto successo. Nel caso di Prima di domani, però, stiamo parlando di qualcosa di completamente diverso. Sarà anche per questo, forse, che la sua permanenza in sala è stata inserita all’interno del palinsesto estivo?

VOTO: 5/10

Marina Pavido

19° FAR EAST FILM FESTIVAL – MY UNCLE di Nobuhiro Yamashita

TITOLO: MY UNCLE; REGIA: Nobuhiro Yamashita; genere: commedia; anno: 2016; paese: Giappone, cast: Ryuhei Matsuda, Riku Ohnishi; durata: 110′

Presentato in anteprima alla diciannovesima edizione del Far East Film Festival, My uncle è una divertente commedia diretta dal regista giapponese Nobuhiro Yamashita.

È questa la storia del giovane Yukio: un bambino dotato di grande sensibilità e molto maturo per la sua età al quale viene chiesto, a scuola, di scrivere un tema su di un adulto di sua conoscenza. Chi potrebbe essere, dunque, il prescelto, se non lo zio che vive a casa con lui? Pigro e taccagno, appassionato di filosofia ed imbranato, l’uomo non ci metterà molto a colpire l’attenzione della maestra di Yukio, la quale deciderà di far partecipare il ragazzo ad un concorso extrascolastico, dove verrà conferito un importante premio a chi avrà scritto il tema migliore. Yukio vincerà, dunque, un viaggio per due persone alle Hawaii e deciderà di andarci proprio con suo zio, il quale nel frattempo si è perdutamente innamorato di una ragazza appena trasferitasi lì.

Se si pensa alla cinematografia di Yamashita, questo suo penultimo film risulta quasi come “staccato” dal resto dei suoi lungometraggi. Interessante l’idea di dar vita ad una commedia brillante, ma, forse, malgrado la qualità nel complesso alta del prodotto in sé, con troppo poco nerbo il risultato finale, se si vuol ripensare, appunto, ad altri lavori dell’autore. Il problema principale è, in questo caso, proprio la gestione dei tempi: parte piuttosto bene la storia nel momento in cui Yukio inizia a scrivere il tema su suo zio. Anche la voce narrante del ragazzo risulta, qui, particolarmente appropriata. Lo stesso non si può dire per quanto riguarda la seconda parte del film, precisamente dal momento in cui i due partono per le Hawaii: il tono iniziale cambia inevitabilmente, le gag risultano eccessivamente forzate e tutto viene tirato per le lunghe. Stesso discorso vale per quanto riguarda la pseudo storia dello zio con la ragazza di cui è innamorato, così come per personaggi che sembrano creati ad hoc per fare da riempitivi, ma che, di fatto, risultano decisamente inutili al fine di far procedere la narrazione. Uno di questi è, ad esempio, l’uomo che lavora nella piantagione di caffè della ragazza dello zio.

Detto questo, però, non mancano momenti interessanti come le scene che vedono i due, zio e nipote – entrati a tal punto in sintonia da indossare addirittura camicie uguali – chiacchierare in riva al mare. Così come proprio quasi tutta la prima parte del film, dove le trovate comiche funzionano alla perfezione: esilaranti i tentativi da parte dello zio di estorcere dei soldi a Yukio per comprarsi dei manga o la sua ricerca spasmodica di lattine per raccogliere il maggior numero di bollini possibile al fine di avere la possibilità di vincere un viaggio alle Hawaii. Il regista, dal canto suo, ha saputo ben raccontare il mondo dal punto di vista del bambino. Un mondo dove, di base, fanno da padroni colori pastello, brevi inserti di animazione ed atmosfere al limite del surreale. Per la sua attenzione nei confronti dell’infanzia potrebbe addirittura, in alcuni momenti, far pensare a Hirokazu Kore’eda, anche se, in questo caso, ci troviamo di fronte ad un prodotto di tutt’altro genere.

Ma, di fatto, è proprio il personaggio dello zio la vera peculiarità di questo lavoro di Yamashita. Talmente ben scritto e ben interpretato dal bravo Ryuhei Matsuda, trova il suo completamento ideale al fianco del giovane nipote. Una coppia talmente ben riuscita, la loro, da far pensare anche ad un possibile sequel. E chissà che non ci abbia pensato lo stesso Yamashita, nel momento in cui ha optato per una sorta di finale aperto con l’ultima parola lasciata al gatto di casa!

VOTO: 7/10

Marina Pavido

19° FAR EAST FILM FESTIVAL – 52HZ, I LOVE YOU di Wei Te-sheng

MV5BNjhhZTlhNzQtYzI0ZC00ZTVlLTgxN2QtZjAwY2NjY2EwMjg1XkEyXkFqcGdeQXVyNzI1MDI2OTY@._V1_SY1000_CR0,0,1499,1000_AL_TITOLO: 52HZ, I LOVE YOU; REGIA: Wei Te-sheng; genere: musical; anno: 2017; paese: Taiwan; cast: Chuan-Ying Chuan, Chung-Yu Lin; durata: 110′

Presentato in anteprima alla diciannovesima edizione del Far East Film Festival, 52HZ, I love you è un musical diretto dal regista taiwanese Wei Te-sheng.

Taipei. Mattino. Ora di punta. La strada è gremita di automobili ferme per il troppo traffico. Una ragazza improvvisamente esce dall’auto, prende un monopattino e, intonando le note di una canzoncina orecchiabile, prosegue dritta per la strada. È il giorno di san Valentino e – tra amori non corrisposti, storie che durano da tanto tempo e che sono ormai al capolinea e coppie gay che sognano di sposarsi e di avere una famiglia tutta loro – tutti sono, chi più, chi meno, in vena di fare festa.

L’inizio, ovviamente, è quello del fortunato lungometraggio di Damien Chazelle, dunque. Il resto è un mix tra l’intramontabile Singining in the rain di Stanley Donen, il bellissimo Les parapluies di Cherbourg di Jacques Demy e lo stesso La La Land. Salvo che, al contrario dei lavori sopra menzionati, quello che questo ultimo lavoro di Wei Te-sheng vuole essere è un inno all’amore universale, senza se e senza ma, comprensivo di tutti i possibili clichés in cui si può incappare affrontando un tema abusato come questo.

Niente ombrelli ma rose rosse, stavolta. Niente Cathrine Deneuve – con tanto di madre dispotica al seguito – ma una giovane fioraia innamorata dell’amore con una zia che vuol essere cinica ma che, in fondo, non sembra proprio riuscirci. Fatta eccezione per le scene in interni, le strade di Taipei – ricostruite rigorosamente in studio, come da tradizione – stanno tanto a ricordarci i musical della Hollywood degli anni d’oro (oltre, ovviamente allo stesso Les parapliues de Cherbourg), quei musical gloriosi resi ottimamente sul grande schermo dallo stesso Stanley Donen, da Vincent Minnelli e compagnia bella. Ce li ricorda, o almeno vorrebbe ricordarceli. Vorrebbe ma non ci riesce. Se non altro i lavori sopra citati si sono distinti a loro tempo (anche) per delle ottime coreografie, cosa che qui pare sia stata quasi saltata a pie’ pari. Probabilmente anche involontariamente o, meglio ancora, inconsapevolmente.

L’amore qui raccontato è banale, estremamente idealizzato, non fiabesco ma irreale per il suo essere così costruito. Talmente finto nella sua rappresentazione da rendere il lungometraggio quasi un puro divertissement, un omaggio all’Omaggio al Cinema (l’Omaggio per eccellenza di cui si è tanto parlato ultimamente), privo di uno sguardo soggettivo dell’autore, così come di ogni qualsivoglia personale peculiarità. Un film apparentemente senza pretesa alcuna. Se non fosse per il fatto che l’autore stesso lo ha definito scherzando (ma non troppo) addirittura più bello di La La Land.

VOTO: 4/10

Marina Pavido

19° FAR EAST FILM FESTIVAL – OVER THE FENCE di Nobuhiro Yamashita

newmain-1540x866TITOLO: OVER THE FENCE; REGIA: Nobuhiro Yamashita; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Giappone; cast: Joe Odagiri, Yu aoi; durata: 112′

Presentato in anteprima alla diciannovesima edizione del Far East Film Festival, Over the fence è il penultmo lavoro del regista, sceneggiatore ed attore giapponese Nobuhiro Yamashita.

Shiraiwa è un quarantenne fresco di divorzio. In attesa di trovare un nuovo impiego si trasferisce al suo paese natale ed inizia una scuola di falegnameria. Una sera, in un locale, incontra la bella e stravagante Satoshi, una cameriera che sa imitare alla perfezione i versi degli uccelli e che, tuttavia, dimostra anche qualche segno di squilibrio mentale. Non sarà facile per i due venirsi incontro ed imparare a conoscersi.

Basterebbero, in realtà, solo i due protagonisti come unici attori sullo schermo, affinché questo ultimo lavoro di Yamashita funzioni. Perché, di fatto, in tutta la loro stranezza sono entrambi talmente perfetti e magnetici da catalizzare immediatamente su di loro l’attenzione. Shiraiwa ha un passato difficile: la sua ex moglie ha cercato di soffocare la loro figlioletta di pochi mesi. E se fosse lui stesso il responsabile della follia della donna? A comprendere ciò può aiutarlo soltanto Satoshi, considerata da tutti eccessivamente sopra le righe, quasi al limite della pazzia. Un uccello prigioniero all’interno di una gabbia costruita dalle più grette convenzioni sociali, alle quali non ha mai voluto adattarsi. È per questo, forse, che solo immedesimandosi nei volatili può immaginare di riuscire a volare lontano dal posto in cui vive. Probabilmente, però, per riuscire a spiccare davvero il volo oltre le barriere della gabbia in cui si trova, avrà bisogno di un compagno, al quale, magari, lei stessa potrà insegnare a volare.

Fin da subito Yamashita, nel raccontarci questi due singolari personaggi, lavora di sottrazione: non vi è spazio – se non quando strettamente richiesto – per dialoghi superflui o musiche ingombranti. Ciò che viene detto ci dà solo una chiave per interpretare il tutto. Le azioni dei due protagonisti sono, a tal proposito, decisamente significative: mentre Satoshi cerca di abbattere le barriere che la circondano liberando tutti gli uccelli dalle gabbie nel luna park in cui lavora, Shiraiwa, dal canto suo, non fa che costruire una sorta di “gabbia” in legno presso la scuola che sta frequentando. Solo con il tempo – e con un lungo, difficile e spesso doloroso percorso interiore, i due riusciranno finalmente a sincronizzare le loro azioni puntando verso uno stesso obiettivo.

Nel frattempo saranno scene di grande poesia e di grande potenza visiva a raccontarci passo passo la loro storia. Di notevole bellezza, a tal proposito, il momento in cui i due ragazzi, di notte, dopo aver raccolto nel luna park deserto una grande quantità di piume di uccelli, le lasciano volare via una dopo l’altra mentre viaggiano in scooter. Momenti che potrebbero essere definiti quasi al limite del surreale che solo uno sguardo attento come quello di Yamashita – il quale, a sua volta, sembra non disdegnare affatto eventuali suggestioni dalla cinematografia del collega Takeshi Kitano – riesce a catturare così bene.

L’unica pecca – se così può essere definita – di Over the fence è, in realtà, una seconda parte eccessivamente telefonata che va a terminare in un finale pericolosamente retorico. Ma, si sa, per la piega che il lungometraggio ha preso fin dall’inizio, aspettarsi un esito del genere è quasi scontato.

Dato il regalo che ci ha fatto con questo suo lavoro, però, scivoloni del genere li si perdona facilmente ad un cineasta come Nobuhiro Yamashita. Il quale, giusto per restare in tema, malgrado la giovane età, il volo lo ha già spiccato da diversi anni.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

19° FAR EAST FILM FESTIVAL – VANISHING TIME: THE BOY WHO RETURNED di Um Tae-hwa

vanishtimeyoungTITOLO: VANISHING TIME: THE BOY WHO RETURNED; REGIA: Um Tae-hwa; genere: fantasy; anno: 2016; paese: Corea del Sud; cast: Kang Dong-won, Shin Eun-soo; durata: 129′

Presentato in anteprima alla diciannovesima edizione del Far East Film Festival, Vanishing time: the boy who returned è l’ultimo lavoro del giovane cineasta sudcoreano Um Tae-hwa.

Una bambina solitaria appassionata di esoterismo. Un compagno di classe innamorato di lei. Un gruppo di amici e la voglia di vivere ogni giorno nuove avventure. È da qui che prende il via tutta la vicenda. La freschezza, la gioia di vivere dei protagonisti fa sì che tutti noi durante i primi minuti torniamo con la mente inevitabilmente a Stand by me. Eppure, nel momento in cui i ragazzi scoprono un misterioso uovo fluorescente all’interno di una grotta, ecco che la situazione sembra prendere tutta un’altra piega: in seguito alla rottura dell’uovo la terra inizia a tremare, la giovane protagonista – allontanatasi per un attimo dal gruppo – si ritrova da sola ed i suoi amici sembrano misteriosamente scomparsi. Sarà proprio lei, unica superstite, ad essere accusata dalla gente del luogo per quanto riguarda la responsabilità dell’accaduto. Ma, di fatto, cos’è che è realmente accaduto?

Ed ecco che il tempo fa il suo gioco, arrestandosi apparentemente per il mondo intero ma continuando a scorrere solo per pochi altri, i quali, a loro volta, saranno inevitabilmente costretti a pagarne le conseguenze.

Dall’altro lato abbiamo la società: severa, impietosa, timorosa nei confronti di ciò che è “diverso”. Quasi come se, con le sue leggi rigide e severe, costringesse ogni singolo abitante ad essere in un determinato modo, giudicandolo e sorvegliandolo costantemente. Molto interessante, a tal proposito, il ruolo che il regista ha assegnato alle telecamere: è inquadrato in dettaglio, non appena partono i titoli di testa, l’obiettivo, ancora chiuso, della telecamera di un’assistente sociale che sta per intervistare la bambina; nel momento in cui tale obiettivo si apre, ecco che prende il via la vicenda. Sono numerose telecamere, tra l’altro, ad essere disseminate per tutta la cittadina. A loro il compito di fermare ogni eventuale sospetto. Sì è costantemente osservati, ogni piccolo gesto viene registrato. Guai a chi prova a sgarrare.

Dal canto suo, anche la location dove si svolge la vicenda è alquanto indicativa: una piccola cittadina circondata da fitti boschi su di un’isola che sembra essa stessa fuori dal tempo. Un’isola da cui non è facile andare via. Un’isola che, in luce di quanto appena detto, diviene degna e fedele trasfigurazione di ciò che è oggi la Corea del Nord.

Dall’altro lato, però, abbiamo il mondo dei bambini. L’unico mondo ad essere rimasto “incontaminato”. Un mondo dove l’amicizia, l’amore, la libertà fanno da protagonisti assoluti insieme a dettagli di volti, di sorrisi, di occhi, di piccoli ma preziosi oggetti messi in risalto da una regia attenta e curata, dove nulla è lasciato al caso. Un mondo, questo dell’infanzia, che, alla fine dei giochi, non può non risultare vincitore assoluto.

Peccato che, al termine di un’operazione così interessante, Um Tae-hwa abbia calcato un po’ troppo la mano, inquadrando i due protagonisti – la bambina ed il suo migliore amico – su di una nave completamente vuota che naviga libera in mare. Tuttavia viene facile perdonare piccole cadute di stile del genere, se si pensa al prodotto nel suo intero. Malgrado, infatti, la relativamente poca esperienza del cineasta coreano, il risultato finale dimostra indubbiamente una straordinaria maturità. Evidentemente l’aver fatto per anni da aiuto regia al grande Park Chan-wook la differenza la fa eccome.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

19° FAR EAST FILM FESTIVAL – AT CAFE’ 6 di Neal Wu

e8517c51e9TITOLO: AT CAFÉ 6; REGIA: Neal Wu; genere: commedia, drammatico; anno: 2016; paese: Taiwan; cast: Zijian Dong, Cherry Ngan; durata: 103′

Presentato in anteprima alla diciannovesima edizione del Far East Film Festival, At Café 6 è l’opera prima del regista taiwanese Neal Wu, tratta dall’omonimo romanzo dello stesso autore.

Quanto può essere forte un amore nato tra i banchi di scuola? Dove è capace di arrivare la vera amicizia? È possibile che una storia resista alla distanza? Sono questi tutti gli interrogativi che il regista qui si pone, raccontandoci le vicende di Guan Ming-lu, studente liceale innamorato della bella Xin-rui. Tra litigi tra compagni di classe, gite e scherzi tra amici, i due alla fine si metteranno insieme. Le cose, però, si faranno complicate nel momento in cui i due ragazzi andranno a frequentare due università diverse.

Che questa sia l’opera prima del regista taiwanese si intuisce facilmente. Innanzitutto, ciò che contraddistingue At Café 6 è una particolare freschezza, una gioia di vivere che permea soprattutto la prima parte del film. È questo il momento in cui, spesso e volentieri, il montaggio sembra seguire delle regole tutte sue, quasi volesse seguire il ritmo di una musica ideale. Non a caso, infatti, è la stessa musica a fare da protagonista in molte sequenze (interessante, a tal proposito, la scena della rissa tra ragazzi, montata per intero al ralenty, con le note di Johann Strauss in sottofondo), stando quasi a ricordare un videoclip. Nella seconda parte del lungometraggio, però, le cose cambiano radicalmente: al via, ora, attese, viaggi, silenzi, litigi ed incomprensioni. Il tutto raccontato con una messa in scena decisamente più classica: montaggio lineare, uso moderato della musica, regia curata ed essenziale. Quasi come se la freschezza dell’adolescenza fosse pian piano svanita. Non sempre Neal Wu riesce a gestire come si deve tale cambio di registro. Più che altro fatica parecchio a dare al tutto una certa, necessaria fluidità. Stesso discorso vale per la gestione dei numerosi flashback presenti: troppi, troppo frequenti, decisamente eccessivi e a volte fuorvianti per una storia che pur partendo bene, man mano che ci si avvicina al finale tende ad essere sempre più forzata e stiracchiata, fino a risultare addirittura troppo caricata. Con tanto di inutile spiegone subito dopo i titoli di coda.

Nonostante ciò, come già è stato detto, questo lungometraggio di Neal Wu ha dalla sua una certa onestà e genuinità. Non pretende di essere più di quello che è e fin da subito si intuisce innanzitutto il fatto che la storia sia sentita dall’autore fino in fondo. Senza contare che, di quando in quando, vi sono non pochi momenti particolarmente interessanti – ed estremamente poetici – da un punto di vista prettamente registico (la scena della gita fuori città con i compagni di liceo ne è un esempio, così come l’immagine del migliore amico del protagonista – ormai adulto – che ricorda il passato in riva al mare, danzando come erano soliti fare entrambi da ragazzi).

Ad ogni modo, un’interessante operazione.

VOTO: 6/10

Marina Pavido