36° TORINO FILM FESTIVAL – WILDLIFE di Paul Dano

Wildlife-filmTITOLO: WILDLIFE; REGIA: Paul Dano; genere: drammatico; paese: USA; anno: 2018; cast: Jake Gyllenhaal, Carey Mulligan, Bill Camp; durata: 104′

Presentato in anteprima alla trentaseiesima edizione del Torino Film Festival, all’interno del concorso ufficiale, Wildlife è l’opera prima dell’attore Paul Dano, tratta dall’omonimo romanzo di Richard Ford.

Con una riuscita e suggestiva ambientazione nell’America degli anni Sessanta, l’attore ha messo in scena un interessante dramma famigliare, in cui vediamo un giovane padre di famiglia (Jake Gyllenhaal) restare improvvisamente disoccupato. Dopo aver trovato una seconda occupazione come pompiere, l’uomo partirà alla volta di un piccolo villaggio montano, intorno al quale v’è un enorme e pericoloso incendio. La moglie di lui (Carey Mulligan), in crisi per la lontananza del marito, finirà inevitabilmente per allontanarsi da lui, facendo sì che anche il figlio adolescente viva in prima persona la crisi all’interno della famiglia.

Ciò che di un lavoro come il presente immediatamente colpisce, è lo straordinario equilibrio delle immagini e delle inquadrature che – unitamente a una fotografia dai toni pastello – sta a indicare una situazione tanto perfetta quanto pericolosamente fragile. E infatti, basta davvero poco a far sì che tutto, pian piano, si sgretoli. Cambia, a questo punto, anche la regia – molto meno “statica” ed equilibrata di quanto non lo era all’inizio – e lo stesso andamento narrativo, che, per quanto accattivante e ben calibrato all’inizio del lungometraggio, tende man mano ad appiattirsi dopo la seconda metà del film, per poi riprendersi nella riuscita scena finale.

Tra le colonne portanti dell’intero lavoro troviamo senza dubbio gli interpreti, tra cui spicca una straordinaria Carey Mulligan, che, per questo suo lavoro, potrebbe anche ricevere importanti premi.

Il tutto converge in un’opera prima riuscita e gradevole, le cui perdonabili imperfezioni sono dovute, probabilmente, solo a una certa inesperienza del regista dietro la macchina da presa.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

13° FESTA DEL CINEMA DI ROMA – THE HATE U GIVE di George Tillman Jr.

hateugive_03-h_2018TITOLO: THE HATE U GIVE; REGIA: George Tillman Jr.; genere: drammatico; paese: USA; anno: 2018; cast: Amandla Stenberg, Regina Hall, Russell Hornsby; durata: 133′

Presentato in anteprima italiana alla tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, The Hate U Give (titolo in italiano Il Coraggio della Verità), presentato all’interno della Selezione Ufficiale, è l’ultimo lavoro diretto da George Tillman Jr. e tratto dall’omonimo romanzo di Angie Thomas.

Questo singolare young adult dai chiari rimandi al cinema di Spike Lee ci racconta la storia di Starr (Amandla Stenberg), adolescente di colore che assiste all’uccisione del suo amico di infanzia Khalil (Algee Smith) per mano di un poliziotto che lo credeva armato. La ragazza è l’unica testimone dei fatti e le sue parole possono far sì che il poliziotto venga incriminato. Dall’altro canto, però, un noto spacciatore della zona, per cui il ragazzo ucciso lavorava, continua a minacciarla, in caso di testimonianza, per evitare che la giovane faccia anche il suo nome.

Lungometraggio ad alto rischio di retorica e di pericolosi luoghi comuni, ma che, tutto sommato, si è rivelato una sorta di sorpresa all’interno della presente manifestazione cinematografica, questo ultimo lavoro di George Tillman Jr. Fatta eccezione, infatti, per qualche sbavatura riguardante la sceneggiatura (vedi le figure delle amiche della protagonista, praticamente inutili al procedere della narrazione) o scelte registiche azzardate e poco appropriate (come la decisione di far apparire durante il processo – nell’immaginazione di Starr – la figura del defunto Khalil), The Hate U Give si è rivelato un prodotto pulito e gradevole, che ben sa miscelare i momenti di spensieratezza tra adolescenti al dramma sociale, con tanto di crescendo man mano che ci si avvicina al finale e un’importante messaggio per nulla banale, che fa del presente lungometraggio un film di denuncia a tutti gli effetti, fruibile da giovani e da meno giovani e che vede nel suo punto di forza la straordinaria interpretazione della promettente Amandla Stenberg nel ruolo della protagonista.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – THE WIFE – VIVERE NELL’OMBRA di Bjorn Runge

THE-WIFE-678x381TITOLO: THE WIFE – VIVERE NELL’OMBRA; REGIA: Björn Runge; genere: drammatico; paese: USA, Svezia; anno: 2017; cast: Glenn Close, Jonathan Pryce, Christian Slater; durata: 100′

Nelle sale italiane dal 4 ottobre, The Wife – Vivere nell’Ombra è l’ultimo lungometraggio del regista svedese Björn Runge, tratto dall’omonimo romanzo di Meg Wolitzer.

Lo scrittore Joe Castleman sta per ricevere il Nobel per la Letteratura. Sua moglie Joan, da sempre al suo fianco, non fa che sostenerlo, organizzando le sue giornate e standogli vicino durante i momenti immediatamente precedenti la premiazione. Eppure, la coppia custodisce un importante segreto: per moltissimi anni è stata Joan a scrivere i libri del marito, mentre l’uomo, pur essendosi preso i meriti, si è limitato solo alla correzione delle bozze. La donna sembra sopportare tutto stoicamente, fino a poco prima della premiazione, momento in cui si renderà conto di non riuscire più a reggere tale situazione.

Con una storia dagli echi polanskiani (che, tuttavia, a tratti presenta anche qualche forzatura) e un importante spazio dedicato ai flashback mostrantici una giovane Joan infatuata del suo insegnante di scrittura creativa, The Wife può vantare, ad ogni modo, un certo crescendo di tensione fino all’agognato climax finale. E l’operazione in sé sembra nel complesso funzionare, grazie anche – e soprattutto – all’interpretazione della sempre ottima Glenn Close, particolarmente abile nel trasmettere ogni minima sfaccettatura e ogni sfumatura dei sentimenti della protagonista.

Sembrerebbe quasi uno script pensato per il suo personaggio, quale consacrazione della sua importante carriera. E, di fatto, un film come The Wife sembra volerci dire solo una cosa: dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

 

LA RECENSIONE – L’ARTE DELLA FUGA di Brice Cauvin

l'arte della fugaTITOLO: L’ARTE DELLA FUGA; REGIA: Brice Cauvin; genere: commedia; paese: Francia; anno: 2018; cast: Laurent Lafitte, Agnès Jaoui, Nicolas Bedos; durata: 98′

Nelle sale italiane dal 31 maggio, L’Arte della Fuga è l’ultimo lungometraggio del regista francese Brice Cauvin, tratto dall’omonimo romanzo di Stephen McCauley.

Ci sono tre fratelli: Antoine, Louis e Gérard. Antoine ha da circa dieci anni una relazione con Adar, uno psicologo che sembra conoscerlo meglio di chiunque altro. Louis è in procinto di sposare – spinto soprattutto dalla famiglia – Julie, la sua fidanzata storica, ma ha da tempo una relazione clandestina con Mathilde. Gérard, infine, si è da poco lasciato con la moglie Hélène – con la quale tenta di tornare disperatamente – e, dopo essere rimasto disoccupato, è tornato a lavorare nel negozio di abbigliamento dei suoi genitori. Dei tre è indubbiamente Antoine colui che sembra avere una situazione più stabile. E se, invece, il suo eccessivo preoccuparsi delle vite sentimentali dei fratelli fosse, in realtà, solo un tentativo di fuggire dai suoi stessi problemi? Tre fratelli, tre singole esistenze costellate da amori e delusioni, insieme a un infinito numero di responsabilità dalle quali fuggire.

Un romanzo americano per una trasposizione cinematografica francese, dunque. Ed è probabilmente anche per questo che un lavoro come L’Arte della Fuga sembra aver attinto a piene mani da diverse cinematografie e da diverse scuole, frutto di una positiva contaminazione di culture e modi di intendere la Settima Arte. Se pensiamo, infatti, al gran numero di commedie francesi che vengono prodotte ogni anno (e che, salvo rare eccezioni, spesso sembrano tutte confondersi e somigliarsi tra loro), in questo lavoro di Cauvin possiamo solo riconoscere la delicatezza e una certa eleganza di fondo (che, diciamolo, non guastano mai). Per il resto, per quanto riguarda sia la messa in scena, sia la caratterizzazione dei personaggi, sia persino il peso che i dialoghi hanno, possiamo dirci di avere di fronte un prodotto che (quasi) in tutto e per tutto sta a ricalcare il cinema statunitense e, in particolare il cinema del maestro Woody Allen. Al via, dunque, momenti frenetici, corse da una parte all’altra della città, personaggi stressati dal lavoro (o dalla mancanza di esso) e poi pranzi, cene e viaggi, viaggi e ancora viaggi. Una messa in scena dinamica che – forte di uno script robusto – sa ben trattare ogni singolo personaggio, caratterizzandolo (in poco più di un’ora e mezza di film) a 360°.

A proposito dei personaggi, bisogna fare delle considerazioni a parte. Presi come sono dai loro problemi, dalle loro nevrosi e dalle loro vite frenetiche, indubbiamente ci viene da pensare a figure tipicamente alleniane. Se a tutto ciò aggiungiamo anche un continuo parlare e, di conseguenza, un copioso utilizzo dei dialoghi (cosa assolutamente non facile da gestire, ma qui trattata in maniera egregia), ecco che le influenze del caro vecchio Woody si fanno sentire forti più che mai. Eppure, a ben guardare, un’altra importante figura che ha influenzato Brice Cauvin nella caratterizzazione dei suoi personaggi (e, in particolare, della frizzante Ariel, collega di Antoine) c’è eccome. Si tratta, come ben si può immaginare, di Pedro Almodovar (l’Almodovar del primo periodo, per intenderci), dal quale il nostro autore riprende principalmente tutto quell’essere costantemente sotto pressione, praticamente sempre “sull’orlo di una crisi di nervi”, come gran parte dei personaggi almodovariani sono stati a loro tempo.

Girato in parte a Parigi, in parte a Bruxelles, non possiamo non notare in L’Arte della Fuga un’estrema cura e un’attenzione nel rappresentare diversi quartieri delle città, con atmosfere calde e accoglienti e con le loro vite sì frenetiche, ma che, al contrario delle turbe interiori dei personaggi, sembrano comunicarci piacevoli sensazioni di pace. Merito, indubbiamente, delle lunghe passeggiate nei parchi o lungo i viali alberati, o anche della presenza – mai “ingombrante”, ma piuttosto marginale – di importanti monumenti. Le città e, di conseguenza, la vita all’interno di esse, vengono messe in scena da Cauvin con lo stesso amore con cui il già citato Woody Allen ci ha mostrato a suo tempo le sue amate New York e Parigi.

Un lavoro, questo di Cauvin, molto più complesso e raffinato di quanto possa inizialmente sembrare, dunque. Un lungometraggio che, forte di questo suo respiro internazionale, si rivela degna trasposizione di un romanzo che già a suo tempo ha saputo conquistare un gran numero di lettori.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – NELLE PIEGHE DEL TEMPO di Ava DuVernay

xnelle-pieghe-del-tempo-spot-681x383.jpg.pagespeed.ic.bfXD_qwYt1TITOLO: NELLE PIEGHE DEL TEMPO; REGIA: Ava DuVernay; genere: fantascienza; paese: USA; anno: 2018; cast: Storm Reid, Oprah Winfrey, Reese Witherspoon; durata: 109′

Nelle sale italiane dal 29 marzo, Nelle Pieghe del Tempo è l’ultimo lungometraggio prodotto dalla Disney e diretto dalla visionaria regista Ava DuVernay, tratto dall’omonimo romanzo scritto nel 1959 da Madeleine L’Engle.

La storia messa in scena è quella della giovane Meg Murry, figlia di due fisici di fama mondiale e con grandi problemi di autostima, in quanto non sempre accettata dai suoi coetanei a scuola. Suo padre è misteriosamente scomparso da anni e sua madre ha il cuore a pezzi. Sarà il fratello minore Charles Wallace, tuttavia, a presentare alla giovane tre singolari guide celesti che condurranno i due ragazzi – insieme ad un compagno di classe di Meg – in un insolito viaggio “nelle pieghe del tempo”, appunto, alla ricerca del padre scomparso.
Una vera e propria apologia dei buoni sentimenti che – mediante la fantascienza – tratta temi come l’amore per la famiglia, il bullismo e l’importanza di essere sé stessi. Letto così, questo maestoso lavoro della DuVernay sembra piuttosto interessante, potenzialmente valido o, quantomeno, “innocuo”. Solo dai primi fotogrammi, tuttavia, con una messa in scena ed una fotografia posticce riguardanti i momenti ambientati “sulla Terra” già iniziano a vacillare quelle buone speranze iniziali che ognuno di noi ha giustificatamente riposto nel presente film. E le cose, man mano che si va avanti, purtroppo non migliorano. Il principale problema di un lavoro come Nelle Pieghe del Tempo, infatti, è soprattutto uno script tanto debole quanto fortemente prevedibile, all’interno del quale vi sono presenti anche non poche forzature che altro non fanno che far perdere di credibilità all’intero lavoro. È questo il caso, ad esempio, del personaggio del padre dei protagonisti, il quale, dopo essersi reso conto – a suo dire – dell’importanza della famiglia, al fine di mettersi in salvo è quasi tentato di abbandonare il figlioletto Charles Wallace in quella sorta di non-luogo in cui egli stesso era finito. Così come è il caso della compagna di classe di Meg, la quale non ha fatto altro che bullizzare la ragazza per anni, ma che, alla fine del lungometraggio, improvvisamente, osservandola dalla finestra e percependo una maggiore sicurezza da parte della stessa Meg, le sorride e la saluta con fare amichevole, come se nulla fosse mai successo.
Detto questo, cosa resta da salvare, dunque, all’interno di un lungometraggio come Nelle Pieghe del Tempo? Indubbiamente, l’interpretazione del giovane Deric McCabe nel ruolo di Charles Wallace, in grado di cambiare registro con incredibile facilità. Su questo non v’è dubbio.
Discorso a parte va fatto, invece, per la regia della DuVernay: visionaria, magnetica, surreale, con immagini ed ambientazioni dai colori psichedelici e scenografie che – ricordando tanto, ma proprio tanto Christopher Nolan – prendono vita man mano che i personaggi si muovono all’interno di esse, rappresenta il vero cavallo di battaglia della Disney all’interno del presente progetto. Eppure, tale elemento non è sufficiente a salvare un intero lavoro, quando altri fattori non funzionano affatto, ma, al contrario, finisce per risultare gratuito, oltre che pericolosamente autoreferenziale.
Diverse domande, a questo punto, sorgono spontanee: dove andrà a finire un’istituzione come la Disney, di questo passo? Quale sarà il suo destino nell’immediato futuro? E, soprattutto, in che modo può riprendersi e tornare ad essere la casa di produzione che tanto abbiamo amato? Questo, ovviamente, solo il tempo potrà dircelo.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – YARDIE di Idris Elba

Yardie - Still 1TITOLO: YARDIE; REGIA. Idris Elba; genere: drammatico; paese: Gran Bretagna; anno: 2018; cast: Aml Ameen, Shantol Jackson, Stephen Graham; durata: 101′

Presentato in anteprima alla 68° Berlinale, all’interno della sezione Panorama, Yardie è l’opera prima dell’attore britannico Idris Elba, tratto dall’omonimo romanzo di Victor Headley.

Siamo in Giamaica, nel 1973. Il giovane D è un bambino allegro e vivace, innamorato di Yvonne e affezionatissimo a suo fratello maggiore Jerry, che considera la sua guida. Un giorno, però, in seguito ad una sparatoria tra gang rivali, Jerry viene ucciso. Dieci anni dopo, nel 1983, D, divenuto ormai adulto e padre di una bambina avuta con la sua amata Yvonne, decide di trasferirsi a Londra insieme alla famiglia, al fine di trovare un posto più tranquillo in cui crescere sua figlia. Anche qui, tuttavia, il passato tornerà a bussare e, lavorando come trafficante di droga, il ragazzo avrà modo di incontrare anche l’assassino di suo fratello.

Che un prodotto come Yardie sia fortemente sentito da Elba, è chiaro fin dall’inizio. Ma non sempre questa forte empatia nei confronti di qualcosa a cui si sta lavorando è cosa positiva. O meglio, lo è, ma, come nel caso del presente Yardie, spesso non permette di tenere la giusta distanza, quel distacco emotivo necessario a mettere in scena qualcosa. Il problema di Elba regista, nel nostro caso, è che, proprio per questo suo girare “di pancia”, si sia calcata troppo la mano nel voler a tutti i costi enfatizzare alcuni momenti o anche i sentimenti stessi dei personaggi. È il caso, questo, ad esempio, delle scene in cui al giovane protagonista appare il fantasma del fratello scomparso o anche dei momenti riguardanti la vita di D insieme alla sua famiglia, con un commento musicale a tratti eccessivamente invadente, al punto da diventare addirittura stucchevole. Paradossalmente, però, è proprio la musica a rappresentare uno degli elementi più interessanti di un lavoro come Yardie: coinvolgenti pezzi reggae ben rendono l’atmosfera di un paese come la Giamaica e, per quanto riguarda i momenti “londinesi”, la vita di chi, lontano dalla propria patria, ha trovato una propria comunità anche in terra straniera.

Il problema principale di un lungometraggio come Yardie è, purtroppo, una sceneggiatura che fa acqua da tutte le parti e dove, di fianco a troppe e troppo poco credibili coincidenze, vi sono anche numerose forzature che altro non fanno che far perdere irrimediabilmente di credibilità ad un lavoro già di per sé piuttosto debole e che fatica a decollare già dopo i primi minuti. Poco convince, ad esempio, il fatto che – pur di evitare che un uomo malmenato da D si vendichi – sua moglie decida di parlare a quest’ultimo faccia a faccia, facendogli notare che prima di tutto bisogna pensare al bene dei propri figli ed alla loro serenità.

Eppure, malgrado ciò, bisogna riconoscere al presente lungometraggio una certa onestà di base: Idris Elba, dal canto suo, ce l’ha messa davvero tutta e ci ha creduto fino in fondo, questo è evidente. Il suo Yardie è, più che altro, un prodotto estremamente ingenuo che per la sua scarsa originalità, oltre che per la sua dubbia riuscita, probabilmente finirà presto nel dimenticatoio, ma che, allo stesso tempo, proprio per questa sua ingenuità fa quasi tenerezza. D’altronde, si sa, non è facile spostarsi da un lato all’altro della macchina da presa come se nulla fosse.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – CHIAMAMI COL TUO NOME di Luca Guadagnino

chiamami col tuo nomeTITOLO: CHIAMAMI COL TUO NOME; REGIA: Luca Guadagnino; genere: drammatico; paese: Italia, Francia, Brasile, USA; anno: 2017; cast: Thimothée Chalamet, Armie Hammer, Michael Stuhlbarg; durata: 132′

Nelle sale italiane dal 25 gennaio, Chiamami col tuo nome è l’ultimo lavoro del cineasta italiano, ma trapiantato all’estero, Luca Guadagnino, presentato in anteprima alla 67° Berlinale e che ha recentemente ricevuto ben quattro Nomination ai Premi Oscar, tra cui Miglior Film e Miglior Sceneggiatura non Originale (scritta da James Ivory).

Tratto dall’omonimo romanzo di André Aciman, il film – terzo capitolo della trilogia del desiderio dopo Io sono l’amore (2009) e A bigger splash (2015) ed ambientato nel 1983 – racconta la storia d’amore tra Elio, diciassettenne residente in un paesino del Nord Italia ed Oliver, giovane studente americano ospitato durante l’estate dalla famiglia del ragazzo. Non sarà facile per entrambi scoprire sé stessi ed ancor più difficile sarà, alla fine delle vacanze, separarsi.

Osannato dalla critica italiana ed internazionale, considerato da un cineasta del calibro di Paul Thomas Anderson uno dei migliori film del 2017, Chiamami col tuo nome ha tutte le carte in regola per passare alla storia. Almeno sulla carta. Nulla da dire, infatti, sulla regia, così come sulle atmosfere poetiche ed evocative ricostruite che, grazie alla bravura degli interpreti e, non da meno, ad un coinvolgente commento musicale, riescono fin da subito a far breccia nel cuore dello spettatore ed a far sì che egli stesso si senta parte integrante della storia. I sentimenti dei due giovani, dal canto loro, vengono messi in scena in modo discreto e delicato, quasi a voler richiamare alcune opere della Nouvelle Vague.

Ma allora, con tali premesse, cos’è che di un film come Chiamami col tuo nome proprio sembra non andare giù? Forse, paradossalmente, è proprio lo sguardo del regista. Non fraintendiamoci, dal punto di vista della messa in scena in sé stiamo parlando di un film inappuntabile. L’impressione che si ha – anche, e soprattutto, in luce di quanto un cineasta come Guadagnino ha girato in passato – è che lo stesso autore sia un po’ troppo distaccato da ciò che sta girando, quasi come se l’importante fosse autocelebrarsi come grande maestro, ma senza entrare davvero nel vivo della vicenda. Lo dimostrano, giusto per fare qualche esempio, i primi e primissimi piani troppo enfatici – ed anche piuttosto gratuiti – dei due protagonisti, così come campi lunghi che ci mostrano il paesaggio estivo e si soffermano fissi anche dopo che i personaggi sono usciti di scena, senza che ce ne sia una reale necessità.

Eppure, nonostante ciò, la confezione del prodotto in sé è riuscita eccome. E pare siano in tanti ad essersene accorti. Di fatto, Chiamami col tuo nome è un lungometraggio che da solo presenta parecchi spunti interessanti. Non ci resta che stare a vedere se l’Academy lo riterrà meritevole di qualche statuetta.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – THOR: RAGNAROCK di Taika Waititi

thor-ragnarok-hela-copertinaTITOLO: THOR RAGNAROCK; REGIA: Taika Waititi; genere: fantastico; paese: USA; anno: 2017; cast: Chris Hemsworth, Cate Blanchett, Mark Ruffalo; durata: 130’

Nelle sale italiane dal 25 ottobre, Thor: Ragnarock, diretto da Taika Waititi e basato sull’omonimo personaggio dei fumetti Marvel Comics, è il terzo film della saga di Thor (dopo Thor e Thor: The dark World), nonché diciassettesimo film della Marvel Cinematic Universe.

Thor, il potente dio del tuono, dopo aver perso il proprio martello, si trova imprigionato sul pianeta Sakaar. Sarà un’impresa piuttosto ardua tornare ad Asgard e fermare la pericolosa Hela, sua sorella (diventata dea della morte), al fine di impedire, così, il Ragnarock, terribile battaglia tra le potenze della luce e quelle delle tenebre.

Che l’ultimo film della trilogia di Thor sia uno dei titoli maggiormente attesi dai fan della Marvel, è cosa risaputa. Da subito, infatti, le vicende del fortissimo – e biondissimo – dio del tuono hanno avuto un effetto a dir poco magnetico sul pubblico. E Thor: Ragnarock, ultimo capitolo, di certo non ha deluso le aspettative. Al contrario, rispetto ai precedenti film – Thor e Thor: The dark World, appunto – questo ultimo lavoro si è rivelato addirittura ancora più interessante. Che sia merito dello spiccato tono da commedia che il giovane Taika Waititi ha voluto conferirgli? O invece dei personaggi di Hulk e della terribile Hela – interpretata da un’insolita, ma sempre vincente Cate Blanchett? Probabilmente, di un insieme di fattori che hanno contribuito alla realizzazione di una degna conclusione della trilogia.

Lo stesso Waititi – cineasta neozelandese, qui alla sua prima produzione con un importante budget alle spalle – sembra particolarmente a proprio agio in questo nuovo progetto. Particolarmente evidente è soprattutto il fatto che si sia addirittura divertito nel mettere in scena i vari combattimenti e le situazioni più estreme vissute dai protagonisti. Che venga scelto anche per qualche altro lungometraggio targato Marvel? A questo punto, non possiamo che augurarcelo. Una nuova avventura, tra l’altro, sembra essere imminente. Almeno secondo i titoli di coda che fanno tanto, ma proprio tanto saga di 007.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – L’INFANZIA DI UN CAPO di Brady Corbet

coverlg (1)TITOLO: L’INFANZIA DI UN CAPO; REGIA: Brady Corbet; genere: drammatico; paese: USA, Francia, Canada, Belgio, Ungheria, Regno Unito, Svezia; anno: 2015; cast: Robert Pattinson, Berenice Bejo, Stacy Martin; durata: 113′

Nelle sale italiane dal 29 giugno, L’infanzia di un capo – ispirato all’omonimo racconto di Jean-Paul Sartre ed al romanzo Il mago di John Fowles – è la pluripremiata opera prima dell’attore Brady Corbet, vincitrice, nel 2015, del Premio Orizzonti alla Miglior Regia e del Premio Luigi De Laurentiis alla Miglior Opera Prima alla Mostra del Cinema di Venezia.

Il film si divide in quattro atti che segnano la formazione del carattere del giovane Prescott. La Prima Guerra Mondiale è finita da poco. Il bambino, figlio di un diplomatico e di una donna molto religiosa, vive appena fuori Parigi ed è soggetto a frequenti scatti d’ira che, di volta in volta, staranno a stravolgere gli equilibri famigliari costituitisi. La sua formazione caratteriale ed il suo divenire un importante uomo di potere staranno a simboleggiare il male del fascismo che proprio in quegli anni iniziò a prendere piede.

linfanzia_di_un_capo_scenaGirato in 35mm, questo primo lungometraggio di Corbet non stupisce solo per l’impeccabile confezione stilistica in sé, ma soprattutto per la straordinaria maturità e lucidità che traspaiono da un lavoro così complesso e così profondo. Fin dai primi minuti le immagini di un treno in corsa di notte, unite ad una musica quasi ansiogena riescono fin da subito a catapultare lo spettatore in un ambiente sinistro, che è quello della casa di Prescott, culla di pericolosi ideali nascituri.

La macchina da presa è nelle mani di Corbet agile e coraggiosa: non ha paura di osare ed andare oltre gli schemi. Particolarmente degne di nota, a tal proposito, sono la sequenza finale, in cui vediamo un Prescott adulto scendere dalla macchina tra una folla adorante, e la fine del terzo atto, quando il protagonista, ancora bambino, cade per terra al termine di un ultimo scatto d’ira e la stessa macchina da presa si capovolge, indicandoci la distruzione di ogni equilibrio.

The_Childhood_of_a_Leader_1_-_Tom_SweetDalle ambientazioni alle musiche, dalla scelta degli interpreti all’ottima qualità delle immagini, tutto sembra impeccabile. E, in seguito alla visione di questo primo lungometraggio di Corbet in molti – a ragione – hanno urlato al miracolo. Si pensi che il compianto Jonathan Demme – presidente della giuria Orizzonti all’epoca – ha addirittura paragonato il giovane cineasta ad Orson Welles. E, di fatto, L’infanzia di un capo, opera imponente e maestosa, i premi vinti li ha meritati eccome. Peccato solo che in Italia ci abbia messo ben due anni ad uscire in sala.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

19° FAR EAST FILM FESTIVAL – AT CAFE’ 6 di Neal Wu

e8517c51e9TITOLO: AT CAFÉ 6; REGIA: Neal Wu; genere: commedia, drammatico; anno: 2016; paese: Taiwan; cast: Zijian Dong, Cherry Ngan; durata: 103′

Presentato in anteprima alla diciannovesima edizione del Far East Film Festival, At Café 6 è l’opera prima del regista taiwanese Neal Wu, tratta dall’omonimo romanzo dello stesso autore.

Quanto può essere forte un amore nato tra i banchi di scuola? Dove è capace di arrivare la vera amicizia? È possibile che una storia resista alla distanza? Sono questi tutti gli interrogativi che il regista qui si pone, raccontandoci le vicende di Guan Ming-lu, studente liceale innamorato della bella Xin-rui. Tra litigi tra compagni di classe, gite e scherzi tra amici, i due alla fine si metteranno insieme. Le cose, però, si faranno complicate nel momento in cui i due ragazzi andranno a frequentare due università diverse.

Che questa sia l’opera prima del regista taiwanese si intuisce facilmente. Innanzitutto, ciò che contraddistingue At Café 6 è una particolare freschezza, una gioia di vivere che permea soprattutto la prima parte del film. È questo il momento in cui, spesso e volentieri, il montaggio sembra seguire delle regole tutte sue, quasi volesse seguire il ritmo di una musica ideale. Non a caso, infatti, è la stessa musica a fare da protagonista in molte sequenze (interessante, a tal proposito, la scena della rissa tra ragazzi, montata per intero al ralenty, con le note di Johann Strauss in sottofondo), stando quasi a ricordare un videoclip. Nella seconda parte del lungometraggio, però, le cose cambiano radicalmente: al via, ora, attese, viaggi, silenzi, litigi ed incomprensioni. Il tutto raccontato con una messa in scena decisamente più classica: montaggio lineare, uso moderato della musica, regia curata ed essenziale. Quasi come se la freschezza dell’adolescenza fosse pian piano svanita. Non sempre Neal Wu riesce a gestire come si deve tale cambio di registro. Più che altro fatica parecchio a dare al tutto una certa, necessaria fluidità. Stesso discorso vale per la gestione dei numerosi flashback presenti: troppi, troppo frequenti, decisamente eccessivi e a volte fuorvianti per una storia che pur partendo bene, man mano che ci si avvicina al finale tende ad essere sempre più forzata e stiracchiata, fino a risultare addirittura troppo caricata. Con tanto di inutile spiegone subito dopo i titoli di coda.

Nonostante ciò, come già è stato detto, questo lungometraggio di Neal Wu ha dalla sua una certa onestà e genuinità. Non pretende di essere più di quello che è e fin da subito si intuisce innanzitutto il fatto che la storia sia sentita dall’autore fino in fondo. Senza contare che, di quando in quando, vi sono non pochi momenti particolarmente interessanti – ed estremamente poetici – da un punto di vista prettamente registico (la scena della gita fuori città con i compagni di liceo ne è un esempio, così come l’immagine del migliore amico del protagonista – ormai adulto – che ricorda il passato in riva al mare, danzando come erano soliti fare entrambi da ragazzi).

Ad ogni modo, un’interessante operazione.

VOTO: 6/10

Marina Pavido