LA RECENSIONE – TOUCH ME NOT di Adina Pintilhe

touch me notTITOLO: TOUCH ME NOT; REGIA: Adina Pintilhe; genere: documantario; paese: Romania; anno: 2018; cast: Laura Benson, Tomas Lemarquis, Grit Uhlemann; durata: 125′

Presentato in concorso alla 68° Berlinale, Touch me not, diretto dalla giovane regista rumena Adina Pintilhe, è il vincitore dell’Orso d’Oro, oltre che dell’Orso d’Argento alla Miglior Opera Prima, della prestigiosa manifestazione.

 

A metà strada tra il documentario e la fiction, Touch me not indaga i problemi di un’affascinante cinquantenne, la quale non riesce a stabilire alcun contatto fisico con persone dell’altro sesso. Tra discussioni con attempati transessuali e rapporti “platonici” con giovani gigolò, la donna cercherà di superare il proprio blocco emotivo. Parallelamente, vediamo una serie di incontri tra persone diversamente abili, le quali esplorano i loro corpi e definiscono il loro rapporto con il sesso confrontandosi tra di loro.

Ad una prima, sommaria lettura della sinossi, la cosa sembrerebbe interessante eccome. Ma allora, perché questa opera prima della Pintilhe ha disturbato così tanto sia pubblico che critica? Il problema, di fatto, sta “banalmente” alla base del tutto, ossia riguarda principalmente lo sguardo della stessa regista ed il suo modo di porsi nei confronti di ciò che sta raccontando. Con qualche sporadica “comparsata” da dietro a davanti l’obiettivo della macchina da presa, la giovane cineasta tratta un argomento tanto complesso e delicato banalizzandolo con ogni possibile cliché sul corpo umano e non disdegnando neanche elementi di facile presa come il tema del sesso nella vita dei disabili, dimostrandosi a tratti gratuita e quasi voyeurista. Non dice nulla di nuovo, questo suo lungometraggio. Al termine della visione non ci si sente né arricchiti, né tantomeno si ha la percezione di conoscere meglio noi stessi e l’umanità che ci circonda. La protagonista del documentario, peraltro attrice di professione, non riesce a comunicare quasi nulla allo spettatore, ma, al contrario, risulta quasi sterile, nel suo “non evolversi”, “non cambiare” praticamente mai (se non, appunto, in modo drastico e poco convincente immediatamente prima del finale), fino ad un telefonato epilogo durante il quale a tutti i numerosi clichés presenti nell’intero lavoro, va a sommarsi l’ennesimo cliché finale che vede la protagonista danzare davanti alla macchina da presa, finalmente libera di essere sé stessa.

Se, dunque, in un poco riuscito lavoro come questo della Pintilhe riuscissimo a leggere una certa ingenuità di fondo, oltre ad una prevedibile inesperienza con il mezzo cinematografico stesso, magari riusciremmo ad essere molto più indulgenti con esso. Il problema principale, però, è proprio quello sguardo ruffiano e quasi ipocrita che proprio non riesce a farci andare giù una vittoria tanto inaspettata quanto tristemente immeritata, soprattutto se si pensa ai numerosi, interessanti titoli presenti in concorso durante questa ricchissima 68° Berlinale.

VOTO: 4/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – YARDIE di Idris Elba

Yardie - Still 1TITOLO: YARDIE; REGIA. Idris Elba; genere: drammatico; paese: Gran Bretagna; anno: 2018; cast: Aml Ameen, Shantol Jackson, Stephen Graham; durata: 101′

Presentato in anteprima alla 68° Berlinale, all’interno della sezione Panorama, Yardie è l’opera prima dell’attore britannico Idris Elba, tratto dall’omonimo romanzo di Victor Headley.

Siamo in Giamaica, nel 1973. Il giovane D è un bambino allegro e vivace, innamorato di Yvonne e affezionatissimo a suo fratello maggiore Jerry, che considera la sua guida. Un giorno, però, in seguito ad una sparatoria tra gang rivali, Jerry viene ucciso. Dieci anni dopo, nel 1983, D, divenuto ormai adulto e padre di una bambina avuta con la sua amata Yvonne, decide di trasferirsi a Londra insieme alla famiglia, al fine di trovare un posto più tranquillo in cui crescere sua figlia. Anche qui, tuttavia, il passato tornerà a bussare e, lavorando come trafficante di droga, il ragazzo avrà modo di incontrare anche l’assassino di suo fratello.

Che un prodotto come Yardie sia fortemente sentito da Elba, è chiaro fin dall’inizio. Ma non sempre questa forte empatia nei confronti di qualcosa a cui si sta lavorando è cosa positiva. O meglio, lo è, ma, come nel caso del presente Yardie, spesso non permette di tenere la giusta distanza, quel distacco emotivo necessario a mettere in scena qualcosa. Il problema di Elba regista, nel nostro caso, è che, proprio per questo suo girare “di pancia”, si sia calcata troppo la mano nel voler a tutti i costi enfatizzare alcuni momenti o anche i sentimenti stessi dei personaggi. È il caso, questo, ad esempio, delle scene in cui al giovane protagonista appare il fantasma del fratello scomparso o anche dei momenti riguardanti la vita di D insieme alla sua famiglia, con un commento musicale a tratti eccessivamente invadente, al punto da diventare addirittura stucchevole. Paradossalmente, però, è proprio la musica a rappresentare uno degli elementi più interessanti di un lavoro come Yardie: coinvolgenti pezzi reggae ben rendono l’atmosfera di un paese come la Giamaica e, per quanto riguarda i momenti “londinesi”, la vita di chi, lontano dalla propria patria, ha trovato una propria comunità anche in terra straniera.

Il problema principale di un lungometraggio come Yardie è, purtroppo, una sceneggiatura che fa acqua da tutte le parti e dove, di fianco a troppe e troppo poco credibili coincidenze, vi sono anche numerose forzature che altro non fanno che far perdere irrimediabilmente di credibilità ad un lavoro già di per sé piuttosto debole e che fatica a decollare già dopo i primi minuti. Poco convince, ad esempio, il fatto che – pur di evitare che un uomo malmenato da D si vendichi – sua moglie decida di parlare a quest’ultimo faccia a faccia, facendogli notare che prima di tutto bisogna pensare al bene dei propri figli ed alla loro serenità.

Eppure, malgrado ciò, bisogna riconoscere al presente lungometraggio una certa onestà di base: Idris Elba, dal canto suo, ce l’ha messa davvero tutta e ci ha creduto fino in fondo, questo è evidente. Il suo Yardie è, più che altro, un prodotto estremamente ingenuo che per la sua scarsa originalità, oltre che per la sua dubbia riuscita, probabilmente finirà presto nel dimenticatoio, ma che, allo stesso tempo, proprio per questa sua ingenuità fa quasi tenerezza. D’altronde, si sa, non è facile spostarsi da un lato all’altro della macchina da presa come se nulla fosse.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – UNSANE di Steven Soderbergh

claire-foy-unsaneTITOLO: UNSANE; REGIA: Steven Soderbergh; genere: thriller; paese: USA; anno: 2018; cast: Claire Foy, Joshua Leonard, Jay Pharoah; durata: 98′

Presentato fuori concorso alla 68° edizione del Festival di Berlino, Unsane  l’ultimo lavoro del cineasta statunitense Steven Soderbergh, il quale, prendendo spunto dal discussissimo caso Weinstein, mette in scena una forte critica al sistema americano.

Sawyer Valentini è una giovane donna con brillanti prospettive di carriera ed un’intensa vita sociale. Il suo passato, tuttavia, non è sempre stato facile, infatti la ragazza è stata stalkerata per ben due anni da un uomo che abitava nella sua città natale. Tale evento le ha procurato un trauma talmente forte da vedere in chiunque uomo le capiti di incontrare un potenziale maniaco e da sentire il bisogno di rivolgersi ad uno psicologo. A tal fine, la giovane si reca in una rinomata clinica, dove, tuttavia, verrà ricoverata senza apparente motivo insieme ad altri malati di mente. Quello che le è capitato le sembra assurdo, fino al momento in cui incontra proprio il suo persecutore, il quale lavora come infermiere nella stessa clinica.

Già da una prima, sommaria lettura della sinossi, possiamo immaginare fino a che punto il genio di Soderbergh sia riuscito a spingersi. Quello a cui ha dato vita è, di fatto, un claustrofobico thriller dagli echi polanskiani, che non ha paura di osare, che si diverte a giocare con lo spettatore facendogli credere determinate cose, per poi ribaltare drasticamente la realtà e che sa ogni volta reinventarsi evitando il già detto o il già visto. A contribuire alla riuscita finale, l’uso – al posto della macchina da presa – di un i-phone, il cui obiettivo leggermente grandangolare si è rivelato particolarmente adatto a rendere il forte senso di spaesamento e quasi di soffocamento provato dalla protagonista. Sono, a tal proposito, primi e primissimi piani spesso presi dal basso verso l’alto, occhi dei personaggi che bucano lo schermo e quasi ci minacciano personalmente e, non per ultimo, l’espressivo volto della protagonista (una Claire Foy in stato di grazia), truccato all’occorrenza per enfatizzare uno sguardo da un lato ingenuo e spaesato, dall’altro terrorizzato e consapevole a fare da valore aggiunto a tutto il lungometraggio. E, non per ultima, non poteva mancare anche quella giusta dose di (non troppo) velata ironia, come tradizione soderberghiana vuole.

Un prodotto, Unsane, che cavalca sì l’onda delle tendenze mediatiche, ma, in modo intelligente e mai gratuito, mette in scena anche una tagliente critica al sistema sanitario nazionale e, non per ultimo, al governo statunitense. Esemplare, a tal proposito, la battuta pronunciata da uno degli internati, diventato una sorta di alleato della protagonista, il quale afferma che alla clinica stessa conviene, per motivi puramente economici, far sì che essi stessi restino ricoverati. Riprendendo, dunque, alcuni elementi del precedente Effetti collaterali (2013), Soderbergh amplia un discorso aperto in passato e dà vita ad un prodotto girato in poco tempo e con un budget bassissimo, ma tutt’altro che modesto, dove a fare da padrona di casa è una forte satira del nostro presente e che si classifica di diritto come una delle chicche di questa 68° Berlinale.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – DON’T WORRY. HE WON’T GET FAR ON FOOT di Gus van Sant

dont-worry-he-wont-get-far-on-footTITOLO: DON’T WORRY. HE WON’T GET FAR ON FOOT; REGIA: Gus van Sant; genere: biografico; paese: USA; anno: 2018; cast: Joaquin Phoenix, Jonah Hill, Rooney Mara; durata: 113′

Presentato in concorso alla 68° edizione del Festival di Berlino, Don’t worry. He won’t get far on Foot è l’ultimo lungometraggio del regista statunitense Gus van Sant, basato sulle memorie del disegnatore John Callahan, scomparso nel 2010 e amico dello stesso van Sant.

Calcando fedelmente lo schema del biopic, ma, allo stesso tempo, riuscendo ad evitare pericolosi clichés e manierismi tipici di molti lungometraggi del genere, van Sant, dopo averci mostrato John Callahan – magistralmente interpretato da Joaquin Phoenix – nell’intento di tenere un discorso di fronte ad una platea gremita di gente, dà il via ad un lungo flashback in cui vediamo il fumettista alle prese con problemi di alcool, assiduo frequentatore di feste, solito condurre una vita allo sbando e che fa fatica ad accettare il fatto di essere stato abbandonato da sua madre quando era ancora un bambino. La sua vita cambierà di punto in bianco, la sera in cui, in seguito ad un incidente automobilistico, l’uomo perderà l’uso delle gambe. Sarà grazie alla frequentazione di una comunità di ex alcolisti e all’amore per la bella Annu, tuttavia, che John troverà il coraggio di andare avanti e scoprirà il suo grande talento di disegnatore.

Non è un film perfetto, questo di Gus van Sant. Non è perfetto, ma è anche vero che, se prima abbiamo affermato che già realizzare di per sé un biopic può essere rischioso, bisogna considerare che lo è ancor di più raccontare la vita e le gesta di chi – come nel caso di Callahan – è diversamente abile o soffre di malattie di qualsiasi genere. E, fortunatamente, visto che van Sant, al di là del gusto personale, fino a prova contraria, col mezzo cinematografico ci sa fare, questo suo lavoro risulta tutto sommato un prodotto onesto, pulito, che – fatta eccezione per una certa retorica che prevede, ad esempio, un commento musicale eccessivamente invasivo, soprattutto per quanto riguarda i momenti finali – procede per circa due ore senza rilevanti intoppi e ci regala un ritratto fedele e sincero del giovane disegnatore recentemente scomparso. Non ci è dato vedere la tormentata infanzia del protagonista. Non vediamo la sua morte prematura, né quella del suo più caro amico. Per tutta la durata del lungometraggio, il regista si concentra quasi esclusivamente sull’interiorità di Callahan, sul suo percorso di crescita emotiva e, non per ultima, sulla sua arte. Particolarmente interessanti, a tal proposito, le divertenti animazioni di alcune vignette originali che, di quando in quando, vanno ad intervallarsi al racconto stesso.

Ciò che, registicamente parlando, meno convince di un prodotto come Don’t worry. He won’t get far on Foot è, probabilmente, la scena in cui Callahan vede, o crede di vedere, una sorta di “fantasma” della propria madre, la quale lo esorta ad andare avanti ed a lasciarsi il passato alle spalle. Analogamente, ci sembra del tutto fuori luogo una macchina da presa che tende eccessivamente ad indugiare su primi piani dei personaggi, dandoci involontariamente, di quando in quando, un’idea di ciò che sta per accadere totalmente diversa da ciò che successivamente realmente accade. È il caso, questo, ad esempio, del momento in cui vediamo il protagonista salutare la fidanzata appena salita in macchina: il soffermarsi della telecamera sul volto di lei sta quasi a dare l’impressione che stia per accadere qualcosa di tragico. Cosa, questa, neanche lontanamente contemplata.

Con un lavoro come questo presentato alla Berlinale, van Sant continua a coltivare il suo lato prettamente hollywoodiano. Quello che lo ha visto realizzare film del calibro di Will Hunting – Genio ribelle, Milk o Scoprendo Forrester, per intenderci. Ed anche se i film sopracitati hanno avuto una riuscita di gran lunga migliore del presente lungometraggio o anche se, probabilmente, in molti preferiscono di gran lunga il lato maggiormente indie dello stesso van Sant, bisogna riconoscere che, soprattutto per il fatto che Don’t worry. He won’t get far on Foot sia un’opera così intimamente sentita dallo stesso autore, all’interno dell’ottima selezione della 68° Berlinale riesce a trovare una sua collocazione più che dignitosa. Cosa, questa, certamente non da poco.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – SEASON OF THE DEVIL di Lav Diaz

season of the devilTITOLO: SEASON OF THE DEVIL; REGIA: Lav Diaz; genere: musicaldrammatico; paese: Filippine; anno: 2018; cast: Piolo Pascual, Shaina Magdayao, Pinky Amador; durata: 234′

Presentato in concorso alla 68° edizione del Festival di Berlino, Season of the Devil è l’ultimo lavoro del cineasta filippino Lav Diaz, il quale, appena due anni dopo il triondo a Venezia del suo The Whoman who left, ha tentato la strada del musical.

Fedele, sotto molti aspetti, alla sua poetica originaria, anche con questo suo lavoro Diaz ci racconta una porzione di storia delle Filippine, mettendo in scena il dramma di un villaggio che – intorno alla fine degli anni Settanta – viene occupato militarmente e all’interno del quale, privati di ogni libertà di parola e di operato, gli abitanti vivono costantemente nel terrore. Prendendo spunto – come ci viene detto da una voce fuori campo in apertura del lungometraggio – da vicende di personaggi realmente conosciuti dall’autore, vengono messe in scena, qui, le tristi vicende di Hugo, giovane poeta rivoluzionario, e di Lorena, sua moglie, la quale ha da poco avviato una clinica all’interno del proprio villaggio. Di fronte alla necessità di combattere e di reagire, il ragazzo entrerà in profonda crisi e, per un certo periodo, si allontanerà da casa.

Su una cosa siamo d’accordo: pur presentandosi come un autore tendenzialmente ostico, il buon vecchio Lav col cinema ci sa fare eccome. Sempre magnetiche e di forte impatto visivo, ad esempio, sono le numerose inquadrature – rigorosamente a camera fissa – degli ambienti ricostruiti, così come dei rari, rarissimi primi piani dei personaggi, tutte rigorosamente in un curato e contrastato quanto basta bianco e nero, vero e proprio marchio di fabbrica – insieme alle lunghe attese ed ai piani sequenza – dell’intera opera dell’autore. Privo, d’altronde, di ogni qualsivoglia arrangiamento musicale, l’intero lavoro prevede pochissimi dialoghi parlati, accanto a suggestivi canti a cappella. Il problema di un prodotto come Season of the Devil, però, è che – nonostante la presenza al suo interno di elementi più che validi – risulta sostanzialmente molto meno equilibrato – per quanto riguarda la stessa struttura narrativa – rispetto ai soliti lavori del regista. È il caso, questo, di intere sequenze che si ripetono per parecchi minuti di fila e che finiscono per risultare pericolosamente ridondanti (ne è un esempio il momento in cui il giovane Hugo si rende conto dell’importanza di agire contro l’occupazione militare), così come di temi musicali ripetuti molto più spesso di quanto realmente necessario. Se, ad esempio, prendiamo in considerazione tutta la precedente filmografia di Diaz, possiamo convenire che, malgrado la lunghissima durata dei suoi lavori, ogni singolo elemento – all’interno della narrazione – era sfruttato come si deve e perfettamente pertinente al contesto. Proprio la durata, in quei casi, era pienamente giustificata. In Season of the Devil, però, forse proprio perché non perfettamente in sintonia con un genere come quello del musical, Diaz non sempre sembra a proprio agio e, di quando in quando sembra gestire male i tempi, oltre che i suoi stessi interpreti, molti dei quali sono chiaramente cantanti, al contrario di altri che si sono – in occasione delle riprese – improvvisati tali.

Detto questo, Season of the Devil è complessivamente un buon film. D’altronde, un autore come Lav Diaz sa il fatto suo e ci sa ben fare per quanto riguarda la messa in scena in generale e momenti di grande effetto come quelli in cui vediamo il protagonista da bambino incontrare una misteriosa figura in maschera o anche trovate indovinate come quella di aver creato il temutissimo comandante Narciso come una sorta di mostro a due facce.

Che, nonostante tutto, si voglia bene ad un cineasta come Lav Diaz, è praticamente scontato. Ed è forse proprio questo ad aver deluso maggiormente le aspettative dei suoi sostenitori. Sul fatto che, tuttavia, momenti di crisi possono capitare anche ai migliori, non vi sono dubbi. Bisogna, a questo punto, stare a vedere quale piega prenderà la sua carriera ed in che modo il celebre regista filippino saprà di nuovo sorprenderci ed emozionarci.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – UTOYA 22.JULI di Erik Poppe

utoyaTITOLO: UTOYA 22.JULI; REGIA: Erik Poppe; genere: drammatico; paese: Norvegia; anno: 2018; cast: Andrea Berntzen, Aleksander Holmen, Brede Fristad; durata: 90′

Presentato in concorso alla 68° Berlinale, Utoya 22. Juli è l’ultimo lungometraggio del cineasta norvegese Erik Poppe, ispirato agli attentati – da parte di giovani estremisti norvegesi – avvenuti il 22 luglio 2011 e, in particolare alla sparatoria sull’isola di Utoya, dove molti ragazzi stavano partecipando ad un campus organizzato dal Partito Laburista e in seguito alla quale morirono ben 69 persone.

I personaggi messi in scena da Poppe non esistono né sono realmente esistiti. Al fine di realizzare il film, il regista si è sì attenuto principalmente alle testimonianze dei sopravvissuti, ma ha preferito dar vita a personaggi del tutto inventati, i quali, nonostante ciò, fin da subito ci appaiono più veri che mai. Questo è il caso, ad esempio, della diciannovenne Kaja, protagonista della pellicola, la quale – recatasi sull’isola per trascorrere un paio di giorni insieme alla sorella Emilie – viene seguita passo passo fin dall’inizio. È lei, dunque, che, dopo che ci sono state mostrate le immagini di repertorio riguardanti l’esplosione dell’autobomba, comincia con lo sfondare la quarta parete, rivolgendosi direttamente allo spettatore guardando in macchina, mentre è impegnata in una conversazione telefonica con la madre che le dà informazioni sull’attentato appena avvenuto. Questa è l’unica interazione diretta che la ragazza ha con il pubblico. Da questo momento in avanti, la macchina da presa non smetterà di seguirla per un solo istante, con un lungo piano sequenza – realizzato rigorosamente con macchina a mano – della durata di ben 72 minuti. 72 minuti, la durata esatta della sparatoria sull’isola di Utoya. Una scelta registica che mai e poi mai avrebbe potuto avvicinarsi maggiormente alla realtà.

Pochissimi minuti dopo l’entrata in campo della giovane Kaja, dunque, dopo aver assistito ad un litigio tra la giovane protagonista e sua sorella Emilie, veniamo subito catapultati nel vivo della vicenda nello stesso istante in cui, fuori campo, udiamo degli spari e vediamo, immediatamente dopo, alcuni ragazzi che iniziano a fuggire terrorizzati.

Da questo momento in avanti, Poppe riesce con eccezionale maestria a portare avanti la vicenda seguendo uno script semplice e con uno schema classico, dimostrando una straordinaria padronanza del mezzo cinematografico, grazie alla quale riesce a toccare nel vivo ogni più recondita paura dello spettatore e giocando quasi con esso, forte del fatto che l’idea di mostrare sul grande schermo qualcosa di realmente accaduto non possa far altro che accrescere quel senso di terrore e di disagio come anche nelle migliori pellicole horror – genere di cui Poppe rispecchia, qui, fedelmente tutti i canoni – raramente accade. Ed ecco che – fatta eccezione per pochissimi secondi appena prima del finale – praticamente mai ci vengono mostrati gli attentatori. Non sappiamo chi siano, non sappiamo che aspetto abbiano. Inizialmente qualcuno dei malcapitati afferma addirittura che gli uomini armati siano addirittura dei poliziotti. Quello che ci è dato vedere è principalmente la giovane protagonista terrorizzata che corre da una parte all’altra alla disperata ricerca della sorella e, allo stesso tempo, che cerca di salvarsi dai proiettili, che presta soccorso ad una ragazza gravemente ferita e, infine, che – pur di estraniarsi per un attimo dalla realtà – inizia a canticchiare le prima note di True Colors di Cindy Lauper. Fuori campo, costantemente, urla di terrore e spari, ora più distanti, ora pericolosamente vicini.

Come il cineasta austriaco Michael Haneke ha saputo insegnarci, spesso è proprio il “non mostrare” che contribuisce a far crescere la giusta tensione nello spettatore. Erik Poppe, dal canto suo, ha saputo sfruttare appieno tale tecnica e, seguendo praticamente alla lettera anche le indicazioni di Zavattini, ha saputo dar vita ad una regia del tutto personale, dimostrando coraggio anche nello scavalcare alcune regole fondamentali e senza paura di spostare la sua attenzione – ad un certo punto – dalla giovane protagonista ad un ragazzo appena conosciuto.

In poche parole, come diceva François Truffaut, anche soltanto aprendo un giornale si può trovare la giusta ispirazione per realizzare un film. E mettendo in scena fatti sì tragici, Poppe è risultato indubbiamente particolarmente ispirato. Questo suo Utoya 22. Juli è, pertanto, un prodotto fortemente disturbante e doloroso, praticamente impeccabile nella sua resa finale, ulteriore dimostrazione che anche dal più classico degli schemi – se trattato con le giuste competenze – si può ottenere qualcosa di assolutamente nuovo e del tutto personale.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

68° BERLINALE – TRANSIT di Christian Petzold

transitTITOLO: TRANSIT; REGIA: Christian Petzold; genere: drammatico; paese: Germania; anno: 2018; cast: Franz Rogowski, Paula Beer, Lilien Batman; durata: 101′

Presentato in concorso alla 68° edizione del Festival di Berlino, Transit è l’ultimo lungometraggio del cineasta tedesco Christian Petzold.

La storia qui messa in scena è una storia dal respiro universale, ambientata in Francia, per l’esattezza – durante l’occupazione tedesca – ma con location e costumi contemporanei. La storia senza tempo di un uomo, Georg, il quale si ritrova a Marsiglia con oggetti appartenenti ad uno scrittore appena suicidatosi, tra cui lettere, testamento e vecchie fotografie e del quale ben presto assumerà l’identità. Una volta in città, l’uomo avrà modo di incontrare la famiglia di un suo amico – di cui fanno parte una donna sordomuta ed il figlioletto di otto anni – e la moglie del defunto – la quale non ha mai smesso di cercare il marito. Tra innumerevoli trafile burocratiche per ottenere il permesso di lasciare la Francia e dirigersi in Messico e un’ininterrotta ricerca della propria identità, nasceranno nuovi amori ed importanti affetti con una delle più grandi tragedie dell’umanità sullo sfondo.

Siamo d’accordo: un paese come la Germania ha più e più volte fatto “mea culpa”, cinematograficamente parlando, per quanto riguarda la salita al potere di Hitler prima e l’olocausto poi. Basti pensare all’elevata percentuale di titoli tedeschi ed austriaci che trattano l’argomento. E lo stesso Petzold ha già avuto modo di prendere in esame la cosa, regalandoci nel 2013 una pellicola come Il segreto del suo volto (con un’intensa Nina Hoss), dove, anche in questo caso, il tema dell’identità perduta era alla base di tutto il lungometraggio. È appena pochi anni più tardi, però, che l’autore tedesco riesce a spiccare il cosiddetto salto di qualità – con Transit, appunto – dando vita a qualcosa di molto più complesso e stratificato, in cui i temi del nazismo, della ricerca della propria identità e dell’immigrazione si fondono l’un l’altro in modo del tutto naturale. Il risultato finale è, probabilmente, uno dei più maturi lavori di Petzold, che non ha paura di osare e di distaccarsi dalla realtà e dove i personaggi raccontati ed i rapporti che tra di loro nascono ci appaiono tanto effimeri quanto intensi. Rapporti che, in una città di transito (anche a tal proposito, mai titolo fu più azzeccato) come Marsiglia nascono e muoiono da un giorno all’altro, ma che, in un modo o nell’altro, sono comunque destinati a cambiare la vita di chi ne è coinvolto in prima persona. Molto delicata ed intensa, ad esempio, l’amicizia che nasce tra Georg ed il figlioletto del suo amico: una sorta di surrogato del rapporto padre-figlio che potrebbe influire sulla decisione del protagonista di lasciare o meno la città. Ma le cose, ovviamente, non sono poi così semplici. Non ci è dato conoscere, ad esempio, tutto il background dei personaggi, il quale viene volutamente a malapena abbozzato. Ciò che conta è come sono essi nel preciso istante in cui li vediamo sullo schermo, in questa fase di transito in cui i destini di ognuno sembrano cambiare repentinamente da un momento all’altro.

Vi è solo una persona che, osservando con il dovuto distacco la commedia umana presentataci, ci racconta, con il fare di un romanziere, le vicende del nostro protagonista, stando ad arricchire ulteriormente un lavoro già di per sé meravigliosamente trasbordante, il quale, a sua volta, arriva addirittura al punto di creare una dimensione fantasmagorica perfettamente incastrata nel contesto.

Ad un lungometraggio come questo di Petzold si può rimproverare, forse, solo il susseguirsi troppo velocemente – man mano che ci si avvicina al finale – dei numerosi snodi narrativi presenti in sceneggiatura. Ma, indubbiamente, anche questo fa parte del gioco. E noi non possiamo far altro che lasciarci condurre per mano lungo le stradine di questa Marsiglia così cosmopolita, così affascinante e così misteriosa come quella raccontataci in questa suggestiva storia senza tempo.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

68° BERLINALE – DOVLATOV di Alexej German jr.

dovTITOLO: DOVLATOV; REGIA: Alexej German Jr.; genere: drammatico; paese: Russia; anno: 2018; cast: Milan Maric, Danila Kozlovsky, Helena Sujecka; durata: 126′

Presentato in concorso alla 68° Berlinale, Dovlatov è l’ultimo lungometraggio del cineasta russo Alexej German Jr.

Un’opera sentita, complessa, profondamente dolorosa questa realizzata da German, la quale – ambientata nel novembre 1971 – ci racconta una settimana della vita del giovane scrittore sovietico Sergej Donatovič Dovlatov, il quale, lavorando principalmente come giornalista, ma frequentando i maggiori intellettuali dell’epoca (tra cui il poeta, nonché suo caro amico Joseph Brodsky), vede continuamente i manoscritti dei suoi romanzi essere respinti dalle principali case editrici, in quanto egli stesso in quanto autore è da sempre particolarmente inviso al regime.

È, dunque, nell’arco di soli sette giorni che questo lavoro di German si svolge. Sette, intensi giorni, durante i quali non solo la resistenza, ma anche il fermento culturale e la voglia di cambiamento fanno da protagonisti assoluti. Tale fermento è ben reso dai dialoghi che – al pari di un vero e proprio flusso di coscienza – si susseguono ininterrottamente per tutta la durata del lungometraggio, unitamente ad una macchina da presa che – vicina ma mai invadente e con lunghi, lunghissimi piani sequenza– si fa strada, di volta in volta, tra i personaggi presenti nel quadro, quasi come se – con empatia, ma anche con dovuto distacco – volesse darci un’idea generale di ciò che era l’ambiente intellettuale russo di quegli anni. A contribuire alla messa in scena, una fotografia dai toni decisamente smorzati, eccessivamente tenui, dove la nebbia della città sembra invadere anche ogni ambiente interno e che si rivela particolarmente adatta a raccontare in che modo le voci degli intellettuali dell’epoca venissero “soffocate”. Nulla è lasciato al caso, in questo lungometraggio di German. Persino la scelta di una messa in scena differente dal suo solito.

Come mai, dunque, delle scelte così estreme e, se vogliamo, così drastiche? La risposta, di fatto, sta nel sottotesto del lungometraggio stesso. Chi ha avuto modo di apprezzare anche i lavori del padre del regista – ossia del grande Alexej German, scomparso nel 2013 – ben sa quali difficoltà l’autore abbia dovuto affrontare a causa del regime e quanto i suoi stessi lavori siano stati censurati in patria. Ed ecco che il Sergej Dovlatov qui protagonista non è più il Sergej Dovlatov scrittore, o meglio, non solo, ma è, soprattutto, trasfigurazione dello stesso padre del regista, del quale viene qui ripreso anche in parte lo stile di messa in scena. Forse non tutti ricorderanno, ad esempio, il bellissimo It’s hard to be a God (2013), dello stesso Alexej German padre, uscito postumo e presentato in anteprima anche alla Festa del Cinema di Roma 2013. Ecco, tale opera si distingueva per la singolarissima messa in scena, in cui, unitamente ad un curato bianco e nero, abbiamo potuto ammirare una serie di lunghi piani sequenza che ci mostravano – grazie a movimenti di macchina molto simili a quelli scelti per Dovlatov – gli abitanti di questa singolare città che tanto stava a ricordarci un quadro di Bruegel. Che sia, dunque, questo personalissimo lungometraggio di Alexej German jr un sentito omaggio a suo padre, che per tanto tempo ha dovuto scontrarsi con il potere, è cosa palese. E lo stesso German padre, simbolo di coraggio ed amore per l’Arte si fa qui paladino della libertà di parola e di opinione, che, anche in un’epoca come la nostra, non sempre vengono salvaguardate come dovuto.

Un film universale, questo magnifico Dovlatov. Universale, maestoso e meravigliosamente sincero. Un’opera di fronte alla quale non possiamo far altro che lasciarci trasportare come se fosse un fiume in piena e fermarci ad osservarla, dal basso verso l’alto, con ossequiosa riverenza.

VOTO: 9/10

Marina Pavido

68° BERLINALE – EVA di Benoit Jacquot

evaTITOLO: EVA; REGIA: Benôit Jacquot; genere: drammatico, noir; paese: Francia; anno: 2018; cast: Isabelle Huppert, Gaspard Ulliel, Julia Roy; durata: 102′

Presentato in concorso alla 68° edizione del festival di Berlino, Eva è l’ultimo lungometraggio del cineasta francese Benôit Jacquot, con protagonisti la grande Isabelle Huppert e l’attore-rivelazione Gaspard Ulliel.

Intrigante l’incipit che vede un giovane Ulliel, il quale, costretto per ristrettezze economiche a prostituirsi, va a far visita ad un anziano drammaturgo e, in seguito all’improvvisa morte di quest’ultimo all’interno della vasca da bagno, decide di rubargli il manoscritto della sua ultima opera. Conseguentemente a ciò, nel momento in cui, con una forte ellissi temporale vediamo lo stesso giovane autore diventare un affermato commediografo, ci chiediamo quale sarà la pena da scontare per il furto precedentemente commesso. E invece, inaspettatamente, tale episodio finisce per non avere più alcun peso per tutto il resto del lungometraggio, in cui viene messa in scena – con trovate anche piuttosto discutibili e spesso poco credibili – la passione che scoppierà tra il giovane autore ed una donna più matura – interpretata dalla divina Huppert – che, mentre il marito è in carcere, per arrotondare si prostituisce anch’ella.

Come si può facilmente intuire da una sommaria lettura della sinossi, il principale problema di un lungometraggio come Eva è proprio lo script: tanti, troppi gli elementi tirati in ballo e lasciati in sospeso (il sopracitato furto del manoscritto è solo un esempio), così come numerose sono le situazioni decisamente poco credibili (come può il personaggio della Huppert mettere in piedi una tale messa in scena, senza che i numerosi conoscenti del marito – anch’essi residenti nella piccola cittadina in cui la donna lavora – vengano a conoscenza della situazione?). Per il resto, a fare da protagonisti sono una serie di snodi narrativi tanto deboli quanto inutili che vedono in prima linea, di volta in volta, la sfortunata fidanzata del protagonista ed il di lui capo.

Tale tentativo di Jacquot, se osservato con il dovuto distacco, sembrerebbe addirittura volersi rifare – senza riuscirci – a Paul Verhoeven o, addirittura, ad un Roman Polanski minore (giusto per non fare altri nomi come Claude Chabrol e via discorrendo), finendo per mettere in scena non solo qualcosa di trito e ritrito, ma, soprattutto, una brutta copia posticcia e raffazzonata di qualcosa che altri hanno saputo realizzare in modo indiscutibilmente encomiabile.

Ultima considerazione: le numerose ellissi presenti ed il susseguirsi eccessivamente vorticoso degli eventi non ha affatto aiutato la resa finale. Per non parlare degli imbarazzanti primi piani al ralenty che vedono prima la Huppert all’interno di una vasca da bagno e poi lo stesso Ulliel, poco prima dei titoli di coda, lungo le strade di Parigi. Un insuccesso decisamente poco in linea con il curatissimo programma della Berlinale 2018, ma che, visti i precedenti lavori del cineasta francese (primo fra tutti Tre Cuori, presentato in anteprima alla 71° Mostra del Cinema di Venezia) non è stato neanche del tutto inaspettato.

VOTO: 4/10

Marina Pavido

68° BERLINALE – INLAND SEA di Kazuhiro Soda

inland-seaTITOLO: INLAND SEA; REGIA: Kazuhiro Soda; genere: documentario; paese: USA, Giappone; anno: 2018; durata: 122′

Presentato in anteprima alla 68° edizione del Festival di Berlino, all’interno della sezione Forum, Inland Sea è l’ultimo, toccante documentario – il quale ci racconta di Ushimado, un piccolo villaggio di pescatori destinato a rimanere deserto – del regista giapponese Kazuhiro Soda.

Un anziano uomo, con il volto pieno di rughe, sale sulla sua barca da pesca e si dirige, come di routine da moltissimi anni a questa parte, verso il paesino in cui abita. La telecamera, inizialmente, si limita a osservare ossequiosamente i gesti dell’uomo, spostandosi, di quando in quando, dalla sua figura al paesaggio circostante. I ritmi sono lenti, contemplativi, non vi sono tagli di montaggio o ellissi temporali. Quasi come se ci si volesse preparare, in religioso silenzio, all’arrivo in un posto tanto isolato quanto affascinante come Ushimado. Ed è una volta giunti qui che lo stesso regista inizia ad interagire con i pochi, anziani abitanti del posto, ascoltando rapito le loro storie e sinceramente curioso di come siano soliti trascorrere le loro giornate. Si tratta di persone dedite principalmente alla pesca o alla vendita stessa del pesce, perfettamente integrate in un contesto come quello di Ushimado e che, trascorrendo il loro tempo libero dando da mangiare ai numerosi gatti randagi che popolano il villaggio e prendendosi cura delle tombe al cimitero, sembrano ormai rassegnate al fatto che, ben presto, il loro amato villaggio resterà deserto.

Kazuihiro Soda – giapponese di nascita, ma statunitense di adozione, che da sempre ha dato vita a prodotti dai toni particolarmente contemplativi che tanto, soprattutto in alcuni momenti, sembrano volerci ricordare addirittura i lavori del celebre cineasta filippino Lav Diaz– sembra fin da subito perfettamente in sintonia con ciò che sta raccontando. Al punto di volersi dedicare quasi del tutto da solo alla realizzazione del documentario, per il quale, appunto, non ha curato solo la regia, ma anche la fotografia ed il montaggio. Ciò che fin da subito maggiormente colpisce, però è l’elegante bianco e nero adottato, che sta a darci l’idea di un luogo senza tempo, di personaggi che esistono ai giorni nostri, ma che sarebbero potuti esistere anche dieci, venti, cinquanta anni fa. Un bianco e nero nostalgico e malinconico, che, allo stesso tempo, sembra guardare Ushimado come un luogo già appartenente ad un’altra epoca.

Non si può non affezionarsi agli anziani abitanti intervistati. Ognuno di loro, malgrado la calma raggiunta, non smette mai di sorprendere con storie spesso anche violente e dolorose, storie di un passato non facile, il quale appare nei loro occhi oggi vivo più che mai.

E poi ci sono i gatti. Trattati alla stregua di veri e propri bambini, il villaggio di Ushimado ne è pieno: gatti randagi, di fatto senza padrone, ma, in realtà con tante persone che si prendono cura di loro; gatti in carne, giocherelloni ed affettuosi, che, abituati ad essere sempre coccolati, si sentono fin da subito perfettamente a loro agio davanti alla macchina da presa di Kazuhiro Soda, avvicinandosi e rotolandosi davanti ad essa senza alcuna remora.

Ma questo viaggio fuori dal tempo, come tutte le cose, ha una fine. E così, verso sera, è ora per il regista e per la sua piccola troupe di salutare le persone incontrate. Un momento malinconico e quasi commovente, che trova la sua giusta conclusione con brevi inquadrature di stradine deserte, illuminate solo dalla luce dei lampioni.

Viaggio o sogno? Sembra voler essere questa la domanda che il regista vuol fare in modo che lo spettatore si ponga. Probabilmente entrambe le cose. E così, quasi come a svegliarsi da un lungo sogno, nell’ultima inquadratura, il bianco e nero lascia pian piano il posto al colore. Scelta registica suggestiva e potente che si classifica come il giusto coronamento di un lavoro pregiato e ben realizzato. Una delle inaspettate sorprese di questa ricchissima 68° Berlinale.

VOTO: 8/10

Marina Pavido