LA RECENSIONE – LE GRIDA DEL SILENZIO di Sasha Alessandra Carlesi

le grida del silenzioTITOLO: LE GRIDA DEL SILENZIO; REGIA: Sasha Alessandra Carlesi; genere: thriller; paese: Italia; anno: 2018; cast: Alice Bellagamba, Luca Avallone, Manuela Zero; durata: 90′

Nelle sale italiane dal 10 maggio, Le Grida del Silenzio è l’opera prima della giovane regista Sasha Alessandra Carlesi.

Viene qui messa in scena la storia di sette ragazzi, tutti soliti frequentare – chi per lavoro, chi, semplicemente, per hobby – un club sportivo, tutti i cerca di relax ed emozioni. Un giorno decidono di andare tutti insieme in campeggio in mezzo ai boschi, dove, tuttavia, non tarderanno ad accadere eventi inspiegabili.

Un esordio, questo della Carlesi, che si rifà sì ai canoni del genere slasher (o quantomeno, inizialmente così sembra), ma che, pian piano prende pieghe inaspettate e del tutto soggettive, che non disdegna né i toni del thriller, così come la presenza di elementi soprannaturali né, soprattutto, echi da film sentimentale.

La cosa in sé è indubbiamente interessante. Se non altro perché il cinema italiano ha indubbiamente bisogno di giovani autori che abbiano voglia di sperimentare e di tentare il nuovo. La Carlesi, a tal proposito, ha avuto il coraggio di osare, dimostrando anche una discreta padronanza con la macchina da presa e riuscendo a dar vita a personaggi ben caratterizzati e con i quali è fin da subito facile empatizzare.

I limiti che un lungometraggio come Le Grida del Silenzio può avere, tuttavia, oltre a essere inevitabilmente dovuti a limiti di budget, stanno soprattutto nello script, con qualche elemento lasciato in sospeso (vedi, ad esempio, il personaggio della ex ragazza di Desirée incontrato al club) e un finale con trovate poco riuscite (come la trasmissione televisiva in cui la ex di uno dei ragazzi è invitata a raccontarsi al pubblico) e che tende a essere tirato un po’ troppo per le lunghe.

Ma, dunque, in fin dei conti, come può essere considerato un lavoro come Le Grida del Silenzio? Di certo questa opera prima di Sasha Alessandra Carlesi è un’interessante apologia dell’importanza dell’essere sé stessi e di accettare ciò che ci accade, senza restare, per forza di cose, ancorati al passato. Un film che vuole parlare un linguaggio universale attraverso un linguaggio di genere e che, malgrado le numerose imperfezioni, risulta ad ogni modo un’opera sincera e sentita.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – NELLE PIEGHE DEL TEMPO di Ava DuVernay

xnelle-pieghe-del-tempo-spot-681x383.jpg.pagespeed.ic.bfXD_qwYt1TITOLO: NELLE PIEGHE DEL TEMPO; REGIA: Ava DuVernay; genere: fantascienza; paese: USA; anno: 2018; cast: Storm Reid, Oprah Winfrey, Reese Witherspoon; durata: 109′

Nelle sale italiane dal 29 marzo, Nelle Pieghe del Tempo è l’ultimo lungometraggio prodotto dalla Disney e diretto dalla visionaria regista Ava DuVernay, tratto dall’omonimo romanzo scritto nel 1959 da Madeleine L’Engle.

La storia messa in scena è quella della giovane Meg Murry, figlia di due fisici di fama mondiale e con grandi problemi di autostima, in quanto non sempre accettata dai suoi coetanei a scuola. Suo padre è misteriosamente scomparso da anni e sua madre ha il cuore a pezzi. Sarà il fratello minore Charles Wallace, tuttavia, a presentare alla giovane tre singolari guide celesti che condurranno i due ragazzi – insieme ad un compagno di classe di Meg – in un insolito viaggio “nelle pieghe del tempo”, appunto, alla ricerca del padre scomparso.
Una vera e propria apologia dei buoni sentimenti che – mediante la fantascienza – tratta temi come l’amore per la famiglia, il bullismo e l’importanza di essere sé stessi. Letto così, questo maestoso lavoro della DuVernay sembra piuttosto interessante, potenzialmente valido o, quantomeno, “innocuo”. Solo dai primi fotogrammi, tuttavia, con una messa in scena ed una fotografia posticce riguardanti i momenti ambientati “sulla Terra” già iniziano a vacillare quelle buone speranze iniziali che ognuno di noi ha giustificatamente riposto nel presente film. E le cose, man mano che si va avanti, purtroppo non migliorano. Il principale problema di un lavoro come Nelle Pieghe del Tempo, infatti, è soprattutto uno script tanto debole quanto fortemente prevedibile, all’interno del quale vi sono presenti anche non poche forzature che altro non fanno che far perdere di credibilità all’intero lavoro. È questo il caso, ad esempio, del personaggio del padre dei protagonisti, il quale, dopo essersi reso conto – a suo dire – dell’importanza della famiglia, al fine di mettersi in salvo è quasi tentato di abbandonare il figlioletto Charles Wallace in quella sorta di non-luogo in cui egli stesso era finito. Così come è il caso della compagna di classe di Meg, la quale non ha fatto altro che bullizzare la ragazza per anni, ma che, alla fine del lungometraggio, improvvisamente, osservandola dalla finestra e percependo una maggiore sicurezza da parte della stessa Meg, le sorride e la saluta con fare amichevole, come se nulla fosse mai successo.
Detto questo, cosa resta da salvare, dunque, all’interno di un lungometraggio come Nelle Pieghe del Tempo? Indubbiamente, l’interpretazione del giovane Deric McCabe nel ruolo di Charles Wallace, in grado di cambiare registro con incredibile facilità. Su questo non v’è dubbio.
Discorso a parte va fatto, invece, per la regia della DuVernay: visionaria, magnetica, surreale, con immagini ed ambientazioni dai colori psichedelici e scenografie che – ricordando tanto, ma proprio tanto Christopher Nolan – prendono vita man mano che i personaggi si muovono all’interno di esse, rappresenta il vero cavallo di battaglia della Disney all’interno del presente progetto. Eppure, tale elemento non è sufficiente a salvare un intero lavoro, quando altri fattori non funzionano affatto, ma, al contrario, finisce per risultare gratuito, oltre che pericolosamente autoreferenziale.
Diverse domande, a questo punto, sorgono spontanee: dove andrà a finire un’istituzione come la Disney, di questo passo? Quale sarà il suo destino nell’immediato futuro? E, soprattutto, in che modo può riprendersi e tornare ad essere la casa di produzione che tanto abbiamo amato? Questo, ovviamente, solo il tempo potrà dircelo.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – UTOYA 22.JULI di Erik Poppe

utoyaTITOLO: UTOYA 22.JULI; REGIA: Erik Poppe; genere: drammatico; paese: Norvegia; anno: 2018; cast: Andrea Berntzen, Aleksander Holmen, Brede Fristad; durata: 90′

Presentato in concorso alla 68° Berlinale, Utoya 22. Juli è l’ultimo lungometraggio del cineasta norvegese Erik Poppe, ispirato agli attentati – da parte di giovani estremisti norvegesi – avvenuti il 22 luglio 2011 e, in particolare alla sparatoria sull’isola di Utoya, dove molti ragazzi stavano partecipando ad un campus organizzato dal Partito Laburista e in seguito alla quale morirono ben 69 persone.

I personaggi messi in scena da Poppe non esistono né sono realmente esistiti. Al fine di realizzare il film, il regista si è sì attenuto principalmente alle testimonianze dei sopravvissuti, ma ha preferito dar vita a personaggi del tutto inventati, i quali, nonostante ciò, fin da subito ci appaiono più veri che mai. Questo è il caso, ad esempio, della diciannovenne Kaja, protagonista della pellicola, la quale – recatasi sull’isola per trascorrere un paio di giorni insieme alla sorella Emilie – viene seguita passo passo fin dall’inizio. È lei, dunque, che, dopo che ci sono state mostrate le immagini di repertorio riguardanti l’esplosione dell’autobomba, comincia con lo sfondare la quarta parete, rivolgendosi direttamente allo spettatore guardando in macchina, mentre è impegnata in una conversazione telefonica con la madre che le dà informazioni sull’attentato appena avvenuto. Questa è l’unica interazione diretta che la ragazza ha con il pubblico. Da questo momento in avanti, la macchina da presa non smetterà di seguirla per un solo istante, con un lungo piano sequenza – realizzato rigorosamente con macchina a mano – della durata di ben 72 minuti. 72 minuti, la durata esatta della sparatoria sull’isola di Utoya. Una scelta registica che mai e poi mai avrebbe potuto avvicinarsi maggiormente alla realtà.

Pochissimi minuti dopo l’entrata in campo della giovane Kaja, dunque, dopo aver assistito ad un litigio tra la giovane protagonista e sua sorella Emilie, veniamo subito catapultati nel vivo della vicenda nello stesso istante in cui, fuori campo, udiamo degli spari e vediamo, immediatamente dopo, alcuni ragazzi che iniziano a fuggire terrorizzati.

Da questo momento in avanti, Poppe riesce con eccezionale maestria a portare avanti la vicenda seguendo uno script semplice e con uno schema classico, dimostrando una straordinaria padronanza del mezzo cinematografico, grazie alla quale riesce a toccare nel vivo ogni più recondita paura dello spettatore e giocando quasi con esso, forte del fatto che l’idea di mostrare sul grande schermo qualcosa di realmente accaduto non possa far altro che accrescere quel senso di terrore e di disagio come anche nelle migliori pellicole horror – genere di cui Poppe rispecchia, qui, fedelmente tutti i canoni – raramente accade. Ed ecco che – fatta eccezione per pochissimi secondi appena prima del finale – praticamente mai ci vengono mostrati gli attentatori. Non sappiamo chi siano, non sappiamo che aspetto abbiano. Inizialmente qualcuno dei malcapitati afferma addirittura che gli uomini armati siano addirittura dei poliziotti. Quello che ci è dato vedere è principalmente la giovane protagonista terrorizzata che corre da una parte all’altra alla disperata ricerca della sorella e, allo stesso tempo, che cerca di salvarsi dai proiettili, che presta soccorso ad una ragazza gravemente ferita e, infine, che – pur di estraniarsi per un attimo dalla realtà – inizia a canticchiare le prima note di True Colors di Cindy Lauper. Fuori campo, costantemente, urla di terrore e spari, ora più distanti, ora pericolosamente vicini.

Come il cineasta austriaco Michael Haneke ha saputo insegnarci, spesso è proprio il “non mostrare” che contribuisce a far crescere la giusta tensione nello spettatore. Erik Poppe, dal canto suo, ha saputo sfruttare appieno tale tecnica e, seguendo praticamente alla lettera anche le indicazioni di Zavattini, ha saputo dar vita ad una regia del tutto personale, dimostrando coraggio anche nello scavalcare alcune regole fondamentali e senza paura di spostare la sua attenzione – ad un certo punto – dalla giovane protagonista ad un ragazzo appena conosciuto.

In poche parole, come diceva François Truffaut, anche soltanto aprendo un giornale si può trovare la giusta ispirazione per realizzare un film. E mettendo in scena fatti sì tragici, Poppe è risultato indubbiamente particolarmente ispirato. Questo suo Utoya 22. Juli è, pertanto, un prodotto fortemente disturbante e doloroso, praticamente impeccabile nella sua resa finale, ulteriore dimostrazione che anche dal più classico degli schemi – se trattato con le giuste competenze – si può ottenere qualcosa di assolutamente nuovo e del tutto personale.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – DARK NIGHT di Tim Sutton

dark-night-633x356TITOLO: DARK NIGHT; REGIA: Tim Sutton; genere: drammatico; paese: USA; anno: 2016; cast: Robert Jumper, Eddie Cacciola, Aaron Purvis; durata: 85′

Nelle sale italiane dal 1° marzo, Dark night è l’ultimo lungometraggio del regista-rivelazione Tim Sutton, presentato in anteprima alla 73° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, nella sezione Orizzonti.

Il film è ispirato ad un recente fatto di cronaca avvenuto il 20 luglio 2012, quando, all’interno di un cinema in Colorado, durante la proiezione di mezzanotte di The Dark Knight Rises di Christopher Nolan, un ragazzo ha sparato con diverse armi da fuoco contro gli spettatori presenti in sala, provocando la morte di dodici persone e ferendone una settantina. Ciò che Sutton mette in scena sono sei storie di sei ragazzi coinvolti nella sparatoria – compreso il killer – ambientate nelle ore immediatamente precedenti l’avvenimento.

Ciò che maggiormente colpisce di un lungometraggio come Dark Night è la straordinaria maturità artistica del regista – il quale aveva già avuto modo di farsi conoscere ed apprezzare con Pavillion (2012) e Memphis (2013), anch’esso presentato a Venezia. Con un sapiente uso del montaggio alternato (come lo stesso David W. Griffith insegna), le storie dei sei ragazzi viaggiano in parallelo, con un crescendo emotivo che ci fa pensare che chiunque dei sei possa diventare il futuro carnefice. L’andamento registico e narrativo, tuttavia, facendo da contrappunto al tema trattato, è sorprendentemente, ma anche necessariamente contemplativo, quasi come se volesse rappresentare la noia ed il nichilismo dei giovani protagonisti, i quali hanno tutti in comune un forte bisogno di scosse, di un qualcosa che rivoluzioni le loro stesse esistenze. Tale quiete, sapientemente messa in scena, fa nascere, volutamente, una certa tensione nello spettatore, il quale, perfettamente a conoscenza di ciò che sta per avvenire, sa che essa stessa non durerà per sempre.

I giovani raccontati da Sutton ricordano tanto alcuni lungometraggi di Larry Clark, e, malgrado uno stile registico totalmente diverso, viene anche da pensare, data la struttura narrativa adoperata ed una scena in particolare in cui uno dei ragazzi è impegnato a giocare con un violento videogioco, al bellissimo Elephant di Gus van Sant, in cui veniva raccontata una sparatoria all’interno di un liceo americano.

Ed ecco che, ancora una volta, Tim Sutton non delude le aspettative. Il regista e fotografo statunitense ha tutte le carte in regola per entrare ben presto a far parte dell’Olimpo dei Grandi. Non resta che attendere con impazienza, dunque, i suoi lavori futuri.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – 15:17 ATTACCO AL TRENO di Clint Eastwood

Film Review The 15:17 to ParisTITOLO: 15:17 ATTACCO AL TRENO; REGIA: Clint Eastwood; genere: drammatico; paese: USA; anno: 2017; cast: Spencer Stone, Anthony Sadler, Alek Skarlatos; durata: 94′

Nelle sale italiane dall’8 febbraio, 15:17 Attacco al treno è l’ultima fatica del celeberrimo cineasta ed attore statunitense Clint Eastwood.

Tratto da una storia vera, il lungometraggio racconta la vita dei tre ragazzi americani – qui presenti anche in qualità di interpreti nel ruolo di sé stessi – che salvarono la vita a più di 500 persone durante un attacco terroristico ad un treno diretto a Parigi avvenuto il 21 agosto 2015.

Questo attesissimo lavoro di Eastwood ci racconta, nello specifico, tre storie di tre ragazzi problematici sin dall’infanzia, che, tuttavia, ben presto si sono rivelati dei veri e propri eroi. Interessante, a tal proposito, l’idea di voler raccontare come determinati personaggi relegati quasi ai margini della società possano poi rivelarsi tra i più meritevoli esempi di coraggio ed amore per il proprio paese. Ed è, come tradizione eastwoodiana vuole, proprio l’amore per la propria nazione, unito anche ad una profonda religiosità (da notare, a tal proposito, la presenza costante di crocefissi ed immagini sacre nelle scene ambientate in interni) il leit motiv dell’opera di Eastwood, nonché vera e propria colonna portante di tutta la sua cinematografia.

Ciò che, però, di un lungometraggio come 15:17 Attacco al treno proprio non convince è il fatto che Eastwood stesso, evidentemente in difficoltà nel dover arrivare al punto e nel portare avanti la storia, abbia attuato scelte registiche e di sceneggiatura in cui vediamo una serie di elementi posticci, collocati all’interno dello script solo per colmare un problematico vuoto, che vengono lasciati cadere senza mai più essere ripresi. È questo il caso, ad esempio, dei personaggi incontrati durante le già di per sé problematiche scene del viaggio dei ragazzi. Senza contare che il viaggio stesso sembra più una sorta di “video promozionale” per qualche agenzia turistica; un momento del tutto superfluo che non ha fatto altro che far perdere punti al film stesso e che avrebbe potuto essere tagliato di oltre mezz’ora.

Nulla da dire dal punto registico, questo è chiaro. Che Eastwood sappia il fatto suo per quanto riguarda la gestione del mezzo cinematografico, è qualcosa che abbiamo avuto modo di appurare già da tempo. Però una cosa è certa: i tempi gloriosi di Mystic River – ma anche del recentissimo Sully – ci sembrano, oggi, lontani anni luce. Peccato.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

35° TORINO FILM FESTIVAL – 2557 di Roderick Warich

2557TITOLO: 2557; REGIA: Roderick Warich; genere: drammatico, thriller; paese: Germania, Thailandia; anno: 2017; cast: Leonel Dietsche, Wason Dokkathum; durata: 111′

Presentato alla 35° edizione del Torino Film Festival nella sezione Onde, 2557 è l’opera prima del giovane regista e sceneggiatore tedesco Roderick Warich.

Ci troviamo a Bangkok, nell’anno 2557. Due studenti tedeschi passano le loro serate a bere e divertirsi nei locali della città. Una sera, uno di loro fa la conoscenza e si innamora di una bella ragazza del posto, al punto di decidere, insieme all’amico, di tornare nel suo paese e recuperare dei soldi necessari ad aprire un ristorante in Thailandia. Una volta tornato, però, verrà derubato di tutto il denaro dalla sua stessa ragazza, la quale sparirà misteriosamente.

Un thriller/non thriller, in realtà, questa opera prima di Roderick Warich. Una volta avvenuto il furto, infatti, tutto il lungometraggio sembra abbandonare i toni iniziali, per cominciare una riflessione sul tempo e sulla caducità dell’esistenza umana. Cosa, questa, spesso in linea con autori come Hou Hsiao-Hsien o Wong Kar-Wai, a cui lo stesso Warich si ispira dichiaratamente.

L’operazione, tuttavia, pur essendo sotto molti aspetti piuttosto interessante, può dirsi riuscita solo a metà. Ottima la regia, che prevede intense carrellate ed immagini di una Bangkok notturna non sempre a fuoco, con tutte le sue luci ed i suoi colori. Stesso discorso vale per le poche scene in diurna, dove vediamo la giovane rifugiarsi insieme a due amici in una casa in riva al mare. L’andamento volutamente lento, tra l’altro, rende bene il concetto della precarietà della vita e dello scorrere del tempo che lo stesso regista ha voluto trasmetterci. Il reale problema di un lungometraggio come 2557 è, in realtà, proprio la mancanza di spontaneità dello stesso Warich. Si ha l’impressione che il regista, volendo a tutti i costi rifarsi agli autori sopracitati, si sia lasciato prendere eccessivamente la mano, perdendo pericolosamente di genuinità e svolgendo quasi un compitino impeccabile nella sua forma, ma, in fin dei conti, praticamente fine a sé stesso.

Sia ben chiaro, se tutte le opere prime che ogni anno vengono prodotte fossero allo stesso livello di 2557, non potremmo far altro che gioire. Il livello complessivo dell’opera, di fatto, è piuttosto alto, malgrado tutto. I problemi sopracitati sono, in questo caso, frutto di un’evidente immaturità stilistica, come se Warich dovesse ancora trovare una propria dimensione all’interno dell’universo cinematografico. Poco male, però. Giovane com’è, ha tutto il tempo di scoprire quale sia la sua strada.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

 

LA RECENSIONE – GRAMIGNA di Sebastiano Rizzo

_MG_4965TITOLO: GRAMIGNA; REGIA: Sebastiano Rizzo; genere: drammatico, biografico; paese: Italia; anno: 2017; cast: Biagio Izzo, Gianluca Di Gennaro, Teresa Saponangelo; durata: 95′

Nelle sale italiane dal 23 novembre, Gramigna è l’ultimo lavoro del regista Sebastiano Rizzo.

Il lungometraggio narra la vera storia di Luigi, figlio di Diego, potente boss della malavita campana che ancora oggi sta scontando l’ergastolo. Luigi, fin dall’infanzia, cercherà di rigare dritto e di non seguire le orme del padre. Le tentazioni, però, saranno forti e il giovane, anche se per un breve periodo, dovrà passare del tempo in carcere. Saranno sua madre, sua moglie ed il suo allenatore di calcio, però, ad aiutarlo a non perdersi.

Interessante operazione, questa da cui nasce il lungometraggio. Dal momento che il progetto è destinato ad essere diffuso nelle scuole, si rivela un ottimo modo per parlare ai ragazzi.

Cinematograficamente parlando, interessante la scelta di voler lasciare molto spazio ai flashback, alternandoli sapientemente con i momenti vissuti in carcere dal protagonista. Quello che convince meno, è proprio la messa in scena, con delle musiche sempre più “invadenti” man mano che ci si avvicina al finale ed un tono da fiction televisiva che poco sembra adattarsi al grande schermo. Peccato, soprattutto perché di spunti interessanti ce n’è eccome.

Capita, però, che in questi casi, soprattutto quando si vuol mettere in scena una storia di tale portata, ci si lasci prendere eccessivamente la mano dall’emotività. Poco male. L’importante è che il lavoro, in questo caso specifico, riesca a centrare il suo obiettivo primario e riuscire a trasmettere l’importante messaggio al suo interno ai ragazzi. Staremo a vedere in che modo verrà accolto, in sala e fuori.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – 120 BATTITI AL MINUTO di Robin Campillo

photoTITOLO: 120 BATTITI AL MINUTO; REGIA: Robin Campillo; genere: drammatico; paese: Francia; anno: 2017; cast: Nahuel Pérez Biscayart, Arnaud Valois, Adèle Haenel; durata: 135′

Nelle sale italiane dal 5 ottobre, 120 battiti al minuto è l’ultimo lungometraggio di Robin Campillo, presentato in concorso al 70° Festival di Cannes, dove è stato premiato con il Grand Prix, e candidato per la Francia all’Oscar come Miglior Film Straniero.

Le storie messe in scena sono quelle di tanti ragazzi. Giovani affetti dal virus dell’HIV, come il fragile ma coraggioso Sean, o che, come nel caso di Nathan, vogliono saperne di più. Ragazzi e ragazze che, in una Parigi degli anni Novanta, militano nell’associazione Act Up Paris, al fine di chiedere un intervento tempestivo contro l’Aids alla politica nazionale ed alle case farmaceutiche. Non hanno paura, questi ragazzi, di andare oltre, di superare i confini di ciò che è lecito e di ciò che non lo è più. Non si fanno scrupoli davanti alla legge o ai cosiddetti potenti. Ciò che conta è il loro fine ultimo.

Nostalgici del compianto Jonathan Demme, che pure nel 1993, con il bellissimo Philadelphia, aveva trattato lo stesso argomento, non disdegnamo, tuttavia, questo ultimo lungometraggio di Campillo, il quale, dal canto suo, dimostra un’ottima padronanza del tema trattato, oltre ad avere un passato come militante proprio all’interno di Act Up.

Ed è già dai primi minuti, dunque, che vediamo questo nutrito gruppo di attivisti in azione, intenti a scagliare palloncini pieni di sangue finto durante una convention proprio sull’Aids. Un urlo di rabbia, il loro, che non cesserà mai durante tutta la durata del lungometraggio. Ciò che maggiormente è riuscito nella messa in scena di 120 battiti al minuto, a tal proposito, è proprio la coralità dei personaggi. Cosa, come sappiamo, assolutamente non facile da gestire. Stesso discorso vale per quanto riguarda alcune sequenze che vedono i protagonisti ballare seguendo una musica ritmata – 120 battiti al minuto, appunto – con effetti visivi dai colori psichedelici e figure che, piano piano, sembrano assumere le forme di molecole di DNA.

In linea di massima a suo agio, dunque, Robin Campillo, nel gestire questo suo terzo film da regista. Gli unici momenti in cui il lungometraggio in sé sembra zoppicare sono, paradossalmente, proprio quelli in cui la storia d’amore tra Nathan e Sean viene messa in primo piano, scadendo pericolosamente nel già visto e facendo perdere, di conseguenza, non pochi punti a tutto il lavoro. Un lavoro che, malgrado il malcelato desiderio (inconscio?) di Campillo di emulare, a tratti, il suo “maestro” Laurent Cantet – con il quale ha lavorato per anni come montatore – si è rivelato un prodotto di tutto rispetto. Dimostrazione del fatto che, appena pochi anni dopo l’uscita in sala del poco convincente Eastern Boys (secondo lungometraggio di Campillo), il cineasta sta davvero prendendo, finalmente, una strada tutta sua.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – LA MIA FAMIGLIA A SOQQUADRO di Max Nardari

la-mia-famiglia-a-soqquadroTITOLO: LA MIA FAMIGLIA A SOQQUADRO; REGIA: Max Nardari; genere: commedia; anno: 2017; paese: Italia; cast: Gabriele Caprio, Marco Cocci, Bianca Nappi, Eleonora Giorgi; durata: 90′

Nelle sale italiane dal 30 marzo, La mia famiglia a soqquadro è il secondo lungometraggio diretto da Max Nardari, ispirato al libro Figli violati di Renea Rocchino Nardari, madre dell’autore.

Martino (interpretato dal giovane Gabriele Caprio) è un ragazzino undicenne appartenente alla classica famiglia del Mulino Bianco, emarginato a scuola perché considerato “diverso”, in quanto unico ragazzino con i genitori ancora uniti, che, però, al fine di integrarsi, farà di tutto affinché il suo nucleo famigliare si spacchi in due.

fam01Dato il tono di tutto il lungometraggio, anche se inizialmente il bambino può farci non poca simpatia, una volta entrati nel vivo della vicenda ed aver assistito alla presentazioni di personaggi e situazioni talmente stereotipati da sembrare addirittura irreali, ecco che, di punto in bianco, la storia inizia a perdere di ogni qualsivoglia interesse. Uno stereotipo dopo l’altro, una carrellata di luoghi comuni e buonismi di ogni genere, che culminano in un finale – che vede il giovane protagonista fare il suo discorso d’effetto, volto a chiarire qualsiasi equivoco e a riportare l’armonia in casa – ambientato, guarda caso, durante il periodo pre-natalizio. E chi più ne ha più ne metta.

la_mia_famiglia_a_soqquadro_clip_esclusiva_commedia-660x350Eppure, ripensando alle iniziali intenzioni dell’autore ed alla genesi del lungometraggio stesso, non si può non riconoscere una certa ingenuità ed anche una sorta di genuinità che manca, di fatto, a commedie recentissime come Mamma o papà?, diretta da Riccardo Milani, o La verità, vi spiego, sull’amore, di Max Croci – tutte nate da grandi produzioni. Il fatto di aver scelto di adattare per il grande schermo un libro scritto dalla propria madre e di averlo fatto con la propria casa di produzione, in realtà fa quasi tenerezza. Ed ecco che iniziamo a considerare La mia famiglia a soqquadro più come una specie di goliardata in famiglia che come un qualcosa che vuole definirsi a tutti i costi “il prodotto dell’anno”. E così iniziamo a “perdonare” tutti gli stereotipi presenti, gli attori eccessivamente sopra le righe, la disarmante prevedibilità della trama e via dicendo. Sul fatto che il lungometraggio di Nardari possa riuscire a fare o meno eccezione all’interno del palinsesto, però, vi sono ancora parecchie perplessità, per non dire addirittura scetticismi. Ma sta bene. Contenti loro, contenti tutti.

VOTO: 4/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – IL GGG di Steven Spielberg

gggTITOLO: IL GGG; REGIA: Steven Spielberg; genere: animazione, fantasy; anno: 2016; paese: USA; cast: Mark Rylance, Rebecca Hall, Ruby Barnhill; durata: 110′

Nelle sale italiane da 30 dicembre, Il GGG è l’atteso lungometraggio diretto da Steven Spielberg tratto dall’omonimo romanzo per ragazzi di Roald Dahl.

Sophie ha dieci anni e vive in un orfanotrofio di Londra. Una notte una misteriosa creatura va a farle visita: si tratta di un gigante buono proveniente dalla Terra dei Giganti che, essendo stato notato dalla ragazzina, decide di rapirla affinché nessuno venga a conoscenza della sua esistenza.

ilggg-e1449670628617Che dire? Per quanto riguarda la maestria di Spielberg, ormai non vi è più nulla da dover dimostrare. Se ad essa aggiungiamo una storia d’effetto come quella inizialmente ideata da Dahl (e magistralmente adattata per il grande schermo dalla grande Melissa Mathison, purtroppo recentemente scomparsa), insieme alle sempre giuste musiche del maestro John Williams, a scenografie ben dettagliate e ad un cast di tutto rispetto dove tra tutti si distingue il bravo Mark Rylance (già apprezzato – e pluripremiato – ne Il ponte delle spie, sempre per la regia di Spielberg), oltre a Rebecca Hall, Penelope Wilton e Rafe Spall, ecco che otteniamo un lungometraggio che di certo farà impazzire grandi e piccini, destinato a diventare un grande classico del periodo natalizio. Una favola senza tempo che diverte e fa riflettere e che -perché no? – insegnerà a tutti, in qualche modo, a “diventare grandi”.

7cd734caa9La riuscita commistione tra computer grafica e live action, unita ad una regia che ben sa gestire i tempi narrativi e l’alternarsi di momenti di riflessione con scene di vera e propria adrenalina fa sì che questo ultimo lungometraggio di Spielberg – pur non essendo al medesimo livello di suoi precedenti capolavori – abbia una certa, ben definita identità e possa essere annoverato tra le migliori trasposizioni dei classici per ragazzi, tra cui non possiamo non menzionare il Canto di Natale di Dickens (in particolare la versione Disney) ed Oliver Twist (sia il più recente – diretto da Polanski – che il classico di David Lean, con un indimenticabile Alec Guinness).

Ultima considerazione: le numerose gag ambientate all’interno di Buckingham Palace sono davvero irresistibili!

VOTO: 8/10

Marina Pavido