LA RECENSIONE – TUTTI IN PIEDI di Franck Dubosc

Tutti-in-piedi-3TITOLO: TUTTI IN PIEDI; REGIA: Franck Dubosc; genere: commedia; paese: Francia; anno: 2018; cast: Franck Dubosc, Alexandra Lamy, Gérard Darmon; durata: 107′

Nelle sale italiane dal 27 settembre, Tutti in piedi è l’ultima commedia diretta dall’attore e sceneggiatore francese Franck Dubosc, qui alla sua opera prima da regista.

Jocelyn è un seduttore impenitente alla soglia dei cinquant’anni. Appena rimasto orfano della madre – con la quale era da tempo ai ferri corti – l’uomo è incapace di avere relazioni durature con le donne. Tutto sembra cambiare, però, in seguito all’incontro con la bella violinista Florence, la quale è paraplegica. Per una serie di equivoci, però, la donna si convincerà che anche Jocelyn è paraplegico. Non sarà facile, dunque, mettere in piedi una farsa, al fine di non ferire i sentimenti di Florence.

Una commedia molto classica nella sua impostazione, che dalla sua ha soprattutto il fatto di ridere con garbo e delicatezza della disabilità, ritraendo personaggi forti e determinati, i quali, a loro volta, ben sanno rendere l’idea di ciò che i disabili vivono ogni giorno.

Cosa non facile, dunque, soprattutto a causa del rischio di scadere nella retorica. Questo,però, è stato fortunatamente evitato dal regista – qui nei panni dello stesso protagonista – il quale, pur avendo dimostrato di saper gestire al meglio determinati elementi, non ha evitato scivoloni e scelte poco azzeccate tipiche di chi per la prima volta si rapporta al lavoro dietro la macchina da presa.

Ed ecco che espedienti comici spesso forzati (vedi il collega musicista di Florence che è solito accompagnarsi ai transessuali o anche gli imbarazzanti controlli della prostata a cui il protagonista deve sottoporsi) si alternano spesso a un personaggio principale gestito non al meglio, in quanto, come, purtroppo, sovente accade, nel momento in cui il ruolo di regista e quello di attore protagonista vengono ricoperti dalla stessa persona, il rischio che una pericolosa megalomania e un fastidioso egocentrismo abbiano la meglio sulla qualità complessiva del lavoro è più che mai elevato.

E questo è, purtroppo, ciò che è accaduto in Tutti in piedi, che, tutto sommato, avrebbe potuto essere complessivamente un lavoro pulito e gradevole. Che ciò dipenda (solo) all’inesperienza di Dubosc come regista? Questo, ovviamente, soltanto il tempo potrà dircelo.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – TUTTI GLI UOMINI DI VICTORIA di Justine Triet

tutti-gli-uomini-di-victoriaTITOLO: TUTTI GLI UOMINI DI VICTORIA; REGIA: Justine Triet; genere: commedia; paese: Francia; anno: 2016; cast: Virginie Efira, Vincent Lacoste, Melvil Poupaud; durata: 98′

Nelle sale italiane dal 25 gennaio, Tutti gli uomini di Victoria è l’ultimo lungometraggio della regista francese Justine Triet, presentato come film d’apertura della Semaine de la Critique al Festival di Cannes 2016.

Victoria, brillante avvocato e madre divorziata di due bambine, ogni giorno cerca di dividersi tra casa e lavoro con scarsi risultati. I suoi problemi sembrano aumentare nel momento in cui dovrà difendere in tribunale un suo amico, accusato di aver aggredito la compagna. Per fortuna, in suo aiuto arriverà il giovane praticante Sam, il quale diventerà per lei una sorta di angelo custode.

Siamo d’accordo: il tema trattato non è particolarmente originale, né promette – almeno ad una prima, sommaria lettura della sinossi – rivoluzionari colpi di scena. Eppure, come ben sappiamo, dal momento che la meravigliosa macchina del cinema può realizzare le cose più impensabili, una semplice storia può acquisire personalità e singolarità anche – e soprattutto – grazie alla propria messa in scena. E questo, fortunatamente, è ciò che accade con questo ultimo lavoro della Triet, dove una regia sapiente e ben calibrata ha contribuito a dar vita ad un prodotto piccolo ma raffinato nel proprio genere, a suo modo coraggioso ma mai eccessivo e che, di quando in quando, riesce a strappare anche qualche sorriso allo spettatore. Ma andiamo per gradi.

Inevitabilmente, quando pensiamo ad una commedia francese contemporanea, ci viene da pensare ad una serie di lavori molto simili tra loro che – salvo qualche eccezione – non sempre riescono a convincere fino in fondo. Eppure, nel nostro caso, quando iniziamo a seguire le vicende della giovane – ma non più giovanissima – Victoria (interpretata da una capace Virginie Efira), fin da subito ci rendiamo conto di trovarci di fronte a qualcosa che va oltre, che mette in primo piano il dramma di una donna e lo fa in modo sì sottile e profondamente empatico, ma anche, quando serve, leggero e giocoso. Oltre alla buona scrittura ed alla bravura della protagonista, dunque, ciò che è particolarmente degno di nota è una regia essenziale e priva di fronzoli, la quale, unitamente ad un commento musicale ridotto quasi al minimo ed a lunghi, ma necessari silenzi, tanto sta a ricordarci le commedie della cineasta tedesca Maren Ade e, nello specifico, del suo fortunato lungometraggio Vi presento Toni Erdmann (2016).

E così, già dopo pochi minuti, non possiamo che affezionarci a una protagonista tanto indaffarata quanto buffa, tanto indipendente quanto bisognosa di amore e – vedendola sovente correre ripresa dall’alto da plongé che tanto stanno a ricordarci il Godard di Fino all’ultimo respiro (1960) – finiamo anche noi per sentirci parte di ciò che Justine Triet ha voluto questa volta raccontarci.

D’accordo, un film del genere di certo non può classificarsi come uno dei lungometraggi dell’anno, questo no. Eppure stupisce come, malgrado il proprio garbo e la propria eleganza, sia passato quasi in sordina al Festival di Cannes. Che sano solo i grandi nomi a catalizzare l’attenzione di stampa e pubblico? Ci auguriamo di no. L’importante, però, è che, nonostante tutto, un piccolo lavoro ben realizzato possa ottenere i propri giusti riconoscimenti.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

35° TORINO FILM FESTIVAL – LA MADRE, EL HIJO Y LA ABUELA di Benjamin Brunet

MADRE-HIJO-Y-LA-ABUELATITOLO: LA MADRE, EL HIJO Y LA ABUELA; REGIA: Benjamin Brunet; genere: drammatico; paese: Cile; anno: 2017; cast: Ana Gallegos, Maria Munoz, Gonzalo Aburto; durata: 84′

Presentato alla 35° edizione del Torino Film festival, La madre, el hijo y la abuela è l’ultimo lungometraggio diretto dal giovane regista cileno Benjamin Brunet.

È la storia, questa, del giovane Cristobal, fotografo e regista indipendente che, dopo aver scoperto di essere stato adottato, torna nel suo paesino natale, al fine di realizzare un documentario sulle sue origini e scoprire ulteriori dettagli riguardanti il suo passato. Qui il ragazzo si imbatte in Ana, donna di mezza età che vive con l’anziana madre Maria, malata di stomaco. La donna, sentendo la mancanza del figlio Gonzalo che da anni non va più a trovarla, decide di ospitare Cristobal in casa propria. In pochi giorni, tra i tre si creerà un forte legame, quasi come se il giovane fosse davvero un membro della famiglia.

Tre capitoli, tre personaggi principali, la realtà che piano piano si fa cinema. E poi il sogno, il quotidiano, le festività religiose, la pioggia che cade a dirotto, il coniglio pasquale che, protagonista di scene oniriche, si fa simbolo di morte e risurrezione. Il tutto avviene sotto gli occhi della telecamera di Cristobal, pronta a registrare ogni momento ed a rendere immortale chiunque venga immortalato dal suo obiettivo.

Il tempo, analogamente, diventa elemento centrale dell’intera opera: un tempo che scorre via impietoso, che nessuno può fermare. O forse no? Non è compito della fotografia e del cinema quello di arrestare il tempo?

Non vi è spazio, in questa opera di Brunet, per inutili virtuosismi registici. I punti macchina sono ridotti al minimo, la telecamera viene adoperata sempre a mano, in modo da darci l’impressione di fare noi stessi parte dell’ambiente mostratoci. Tutto molto semplice, eppure, appunto, studiato nel dettaglio.

In poche parole, un piccolo gioiello della cinematografia sudamericana. Un’opera che probabilmente da noi non verrà mai apprezzata come merita, ma la cui visione si rivela un’esperienza visiva che di certo non può lasciare indifferenti.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – MALARAZZA di Giovanni Virgilio

malarazza-678x381TITOLO: MALARAZZA; REGIA: Giovanni Virgilio; genere: drammatico; paese: Italia; anno: 2017; cast: Stella Egitto, Paolo Briguglia; David Coco; durata: 98′

Nelle sale italiane dal 9 novembre, Malarazza è l’opera seconda del giovane regista Giovanni Virgilio.

È a tutti gli effetti una storia universale, quella che ci viene qui presentata: la storia della giovane Rosaria, madre di un ragazzo di quattordici anni, la quale, dopo essere stata costretta a sposarsi perché incinta, viene costantemente maltrattata dal marito Tommasino Malarazza, un boss locale quasi caduto in rovina che chiede a sua moglie anche i pochi soldi guadagnati in lavanderia. Non sarà facile per la donna prendere la decisione di andarsene di casa insieme a suo figlio, anche se pronto ad aiutarla c’è suo fratello Franco, transessuale costretto a prostituirsi per poter arrivare a fine mese. Una volta libera, però, la situazione non sembrerà, poi, così semplice.

Colpisce fin da subito il cinismo e l’estrema lucidità con cui il regista ha messo in scena la storia di Rosaria. Quello che abbiamo davanti agli occhi è quel che si dice un film arrabbiato, particolarmente sentito, un urlo di dolore che, però, allo stesso tempo, risulta del tutto privo di speranza in un futuro migliore. Molto ben riuscite, a tal proposito, le ambientazioni: la bellissima città di Catania – a tutti gli effetti coprotagonista del lungometraggio – si è dimostrata teatro ideale per ciò che si è voluto raccontare, grazie ai suoi quartieri ed alle sue strade con palazzi antichi ma dall’aspetto decadente, apparentemente trascurati, ma al contempo quasi magnetici nella loro bellezza. La stessa vita di periferia viene ben resa sullo schermo anche grazie a musiche in questo contesto particolarmente indovinate ed alla maggior parte di scene girate in notturna.

Quel che meno convince di questo lavoro di Giovanni Virgilio è, in realtà, l’eccessivo stile da fiction televisiva (ma, d’altronde, lo stesso regista ha affermato di voler trarre una serie proprio da Malarazza), oltre a qualche incongruenza dal punto di vista dello stesso script, come, ad esempio, problemi che vengono risolti in modo eccessivamente sbrigativo (vedi la convocazione di Rosaria presso la centrale di polizia dopo l’uccisione del marito) o un andamento narrativo talvolta discontinuo. Ed è probabilmente proprio il fatto di voler dar vita ad una serie che fa immaginare il lungometraggio quasi come un prodotto pensato per un ambito diverso dalla sala cinematografica. Da qui, appunto, l’impressione che al lavoro stesso sia stato tolto un po’ troppo respiro, che sia stato collocato suo malgrado in un contesto non suo, il quale, di conseguenza, può addirittura risultargli stretto.

Poco male, però. Dalla sua, Malarazza ha di certo il fatto di non essere scaduto in una pericolosa retorica o in facili buonismi. Dato il tema trattato, infatti, questo è uno degli errori più comuni che siano mai stati commessi.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

12° FESTA DEL CINEMA DI ROMA – LIFE AND NOTHING MORE di Antonio Méndez Esparza

35.La-vida-y-nada-mas_740x442TITOLO: LIFE AND NOTHING MORE; REGIA: Antonio Méndez Esparza; genere: drammatico; paese: Spagna, USA; anno: 2017; cast: Andrew Bleechington, Regina Williams, Robert Williams; durata: 114′

Presentato in anteprima alla 12° edizione della Festa del Cinema di Roma, Life and Nothing More è il secondo lungometraggio del regista spagnolo Antonio Méndez Eparza, suo primo lavoro in lingua inglese.

La storia raccontata è quella di Andrew – quattordicenne malinconico e solitario con una difficile esperienza in riformatorio alle spalle – e di sua madre Regina – desiderosa di rifarsi una vita dopo il fallimento del suo primo matrimonio, ma con numerose difficoltà ad arrivare a fine mese. L’incontro di quest’ultima con un uomo responsabile ed innamorato potrebbe, in qualche modo, aiutarla nella quotidianità. Le cose, però, prenderanno presto una piega inaspettata.

La cosa più interessante che il regista ha qui voluto mettere in scena è probabilmente proprio la vita della periferia americana ai giorni nostri. Ben descritti, a tal proposito, gli ambienti, con le loro strade semi deserte ed esterni che sembrano quasi dimenticati dal resto del mondo, oltre ad interni squallidi ed angusti. Il problema di un lungometraggio come Life and Nothing More è, in realtà, proprio lo script. Sono molti, come è stato detto, gli spunti da cui la vicenda prende il via. Peccato, però, che – durante le quasi due ore di lungometraggio – Méndez Esparza sembri prendere ogni volta una direzione diversa, senza mai portare a termine ciò che ha inizialmente iniziato e, soprattutto, rendendo tutto il lavoro quasi completamente privo di ritmo o di picchi narrativi. Ed ecco che, se all’inizio la macchina da presa sembrava concentrarsi esclusivamente sul giovane Andrew, dopo circa mezz’ora prende a seguire Regina senza mai staccarsi da lei e mettendo da parte, inspiegabilmente, il ragazzo. Il punto è che non si tratta, però, né di un film corale, né, tantomeno, di un lungometraggio ad episodi. Stesso discorso si può fare per altri importanti elementi che vengono via via tirati in ballo, per essere poi totalmente abbandonati senza logica alcuna. Ѐ questo, ad esempio, il caso del personaggio del compagno di Regina, il quale esce quasi improvvisamente di scena per poi non tornare più e facendo sì che la sua stessa presenza risulti del tutto inutile ai fini della narrazione stessa. Allo stesso modo, il discorso del trumpismo e del conseguente razzismo – che viene affrontato nel momento in cui Andrew, dopo essere stato trattato in malo modo da una coppia al parco, finisce per minacciare questi ultimi con un coltello – cade improvvisamente nel vuoto, nel momento in cui il ragazzo viene rilasciato (ovviamente fuoricampo e, anche qui, senza un minimo di tensione). La vera scena madre, però, si trova quasi verso il finale, quando vediamo Regina dare una lettera ad Andrew che lei stessa ha scritto. Ѐ qui che, mentre il ragazzo è intento a leggere, si sente la voce della madre fuoricampo che pronuncia le parole da lei scritte. Peccato che quest’ultima si trovi, allo stesso momento, proprio di fianco al figlio.

Che questo lungometraggio di Méndez Esparza, dunque, non sia proprio quel che si dice un film riuscito, siamo d’accordo tutti. Eppure, volendo fare un discorso esclusivamente sulla regia, le scelte adoperate dall’autore sono anche piuttosto interessanti: perfettamente in linea con la teoria zavattiniana, la macchina da presa segue costantemente i personaggi con movimenti essenziali, adoperando ogni volta pochissimi punti macchina e dando al tutto un interessante tono quasi documentaristico. Peccato, dunque, essersi bruciati un film così. Chissà, magari, con un suo prossimo lavoro, il giovane cineasta spagnolo saprà come farsi perdonare. Questo, almeno, è quello che ci auguriamo.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – RITRATTO DI FAMIGLIA CON TEMPESTA di Hirokazu Kore’eda

covermd_home (1)TITOLO: RITRATTO DI FAMIGLIA CON TEMPESTA; REGIA: Hirokazu Kore’eda; genere: drammatico; paese: Giappone; anno: 2016; cast: Hiroshi Abe, Yoko Maki, Kirin Kiki; durata: 117′

Nelle sale italiane dal 25 maggio, Ritratto di famiglia con tempesta è l’ultimo lungometraggio del regista giapponese Hirokazu Kore’eda, presentato nella sezione Un certain regard al Festival di Cannes 2016.

Ryoto è un ex scrittore di successo con il vizio del gioco d’azzardo che, al fine di poter pagare gli alimenti al figlio, collabora con un detective privato. Rimasto da poco orfano del padre, l’uomo farà ritorno per qualche giorno alla sua cittadina natale, dove abita ancora la sua arzilla ma anziana madre e dove avrà modo di vedere suo figlio e la sua ex moglie. Un minaccioso temporale farà sì che tutta la famiglia riunita sia costretta a trascorrere la notte sotto lo stesso tetto.

ats_08Ma cosa comporterà, in realtà, la tempesta? Il protagonista, di fatto – come spesso affermato dalla sua stessa madre – è un eterno bambino mai cresciuto, un albero di mandarini che non dà frutti né fiori, ma che è molto utile a sfamare i bruchi destinati a trasformarsi in splendide farfalle. Ryoto, dal canto suo, di certo non può dirsi maturato fino in fondo, eppure sarà in grado ad insegnare al proprio figlio – eccessivamente maturo per la sua età – quant’è bello sognare ad occhi aperti e coltivare i propri sogni, indipendentemente dal fatto di riuscire o meno a realizzarli. Sarà la tempesta, dunque, a spazzare via ogni qualsivoglia dubbio nei confronti dei rapporti con i propri famigliari ed ogni timore per quanto riguarda il futuro. Ed ecco che Ryoto padre non ha più paura di riscoprirsi Ryoto figlio, riconciliandosi in qualche modo con il genitore defunto dopo aver preso definitivamente coscienza dell’affetto che quest’ultimo nutriva per lui.

Ancora una volta, dunque, la figura paterna diventa tema centrale in Kore’eda. È stato così per il bellissimo Father and son (2013), così come per il recente Little sister (2015), dove la figura del padre scomparso darà il via all’intera vicenda. Anche qui è il genitore defunto ad avere un peso centrale nello sviluppo del protagonista: è a causa del rapporto irrisolto tra i due che Ryoto rifiuta inconsciamente di crescere, è a causa delle loro incomprensioni che l’uomo cerca a tutti i costi di non commettere gli stessi errori con il proprio figlio e di spronarlo a coltivare i propri sogni.

Ritratto-di-Famiglia-con-TempestaUn lungometraggio, dunque, piuttosto complesso e stratificato. Una storia assolutamente non facile ed estremamente delicata che solo un cineasta del calibro di Kore’eda – con il suo sguardo attento e mai invasivo – avrebbe potuto mettere in scena. Ed ecco che piccoli gesti di normale quotidianità come il preparare i letti o l’amorevole attenzione e cura nel cucinare diventano attraverso la macchina da presa pura poesia. Una macchina da presa che, dal canto suo, si colloca sempre all’altezza del personaggio, quasi alla ozuiana maniera, riuscendo ad entrare così nel suo intimo senza mai risultare invadente. È soprattutto questa, dunque, l’abilità di Kore’eda: la capacità di riuscire a mantenere, da adulto, la freschezza e lo sguardo limpido di un bambino, facendo in modo che anche noi tutti possiamo ritornare, anche solo per un paio d’ore, a vedere il mondo come eravamo soliti fare tanti, tanti anni fa.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – LA MIA FAMIGLIA A SOQQUADRO di Max Nardari

la-mia-famiglia-a-soqquadroTITOLO: LA MIA FAMIGLIA A SOQQUADRO; REGIA: Max Nardari; genere: commedia; anno: 2017; paese: Italia; cast: Gabriele Caprio, Marco Cocci, Bianca Nappi, Eleonora Giorgi; durata: 90′

Nelle sale italiane dal 30 marzo, La mia famiglia a soqquadro è il secondo lungometraggio diretto da Max Nardari, ispirato al libro Figli violati di Renea Rocchino Nardari, madre dell’autore.

Martino (interpretato dal giovane Gabriele Caprio) è un ragazzino undicenne appartenente alla classica famiglia del Mulino Bianco, emarginato a scuola perché considerato “diverso”, in quanto unico ragazzino con i genitori ancora uniti, che, però, al fine di integrarsi, farà di tutto affinché il suo nucleo famigliare si spacchi in due.

fam01Dato il tono di tutto il lungometraggio, anche se inizialmente il bambino può farci non poca simpatia, una volta entrati nel vivo della vicenda ed aver assistito alla presentazioni di personaggi e situazioni talmente stereotipati da sembrare addirittura irreali, ecco che, di punto in bianco, la storia inizia a perdere di ogni qualsivoglia interesse. Uno stereotipo dopo l’altro, una carrellata di luoghi comuni e buonismi di ogni genere, che culminano in un finale – che vede il giovane protagonista fare il suo discorso d’effetto, volto a chiarire qualsiasi equivoco e a riportare l’armonia in casa – ambientato, guarda caso, durante il periodo pre-natalizio. E chi più ne ha più ne metta.

la_mia_famiglia_a_soqquadro_clip_esclusiva_commedia-660x350Eppure, ripensando alle iniziali intenzioni dell’autore ed alla genesi del lungometraggio stesso, non si può non riconoscere una certa ingenuità ed anche una sorta di genuinità che manca, di fatto, a commedie recentissime come Mamma o papà?, diretta da Riccardo Milani, o La verità, vi spiego, sull’amore, di Max Croci – tutte nate da grandi produzioni. Il fatto di aver scelto di adattare per il grande schermo un libro scritto dalla propria madre e di averlo fatto con la propria casa di produzione, in realtà fa quasi tenerezza. Ed ecco che iniziamo a considerare La mia famiglia a soqquadro più come una specie di goliardata in famiglia che come un qualcosa che vuole definirsi a tutti i costi “il prodotto dell’anno”. E così iniziamo a “perdonare” tutti gli stereotipi presenti, gli attori eccessivamente sopra le righe, la disarmante prevedibilità della trama e via dicendo. Sul fatto che il lungometraggio di Nardari possa riuscire a fare o meno eccezione all’interno del palinsesto, però, vi sono ancora parecchie perplessità, per non dire addirittura scetticismi. Ma sta bene. Contenti loro, contenti tutti.

VOTO: 4/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – PER UN FIGLIO di Suranga D. Katugampala

arton2538TITOLO: PER UN FIGLIO; REGIA: Suranga D. Katugampala; genere: drammatico; anno: 2017; paese: Italia; cast: Kaushalya Fernando, Julian Wijesekara, Nella Pozzerle; durata: 75′

Nelle sale italiane dal 30 marzo, Per un figlio è l’opera prima del giovane regista originario dello Sri Lanka Suranga D. Katugampala, prodotta da Antonio Augugliaro, già noto per aver diretto il documentario Io sto con la sposa.

Sunita è una donna srilankese di mezza età che lavora come badante presso un’anziana signora in una cittadina di provincia del nord Italia. La donna ha un figlio adolescente da poco giunto in Italia, con il quale, però, c’è un rapporto tutt’altro che facile, sia per il fatto di non averlo seguito durante i suoi primi anni di vita, sia per il tentativo di quest’ultimo di integrarsi in un contesto culturale che la stessa Sunita fa fatica ad accettare.

Per-un-figlio-2Per un figlio racconta, dunque, la storia di tante donne che, al fine di garantire ai propri figli una vita dignitosa, sono costrette ad abbandonarli fin da piccoli per andare a vivere e lavorare all’estero. Da qui la decisione da parte del giovane regista di focalizzare l’attenzione esclusivamente sulla donna, secondo una messa in scena che rispecchia in tutto e per tutto le teorie del pedinamento zavattiniano. Ed ecco che ci troviamo di fronte ad un lungometraggio estremamente asciutto e realista, dove non v’è spazio per ogni qualsivoglia abbellimento, ma che ci mostra la cruda realtà così com’è. Ciò che vediamo è la quotidianità di una donna divisa tra un lavoro non facile e la gestione di un figlio adolescente che nutre nei suoi confronti non pochi rancori. Una donna che non sa come dividersi e che ogni giorno corre da una parte all’altra della cittadina con il proprio scooter, senza avere un attimo di tregua per sé stessa. La macchina da presa, dal canto suo, sembra allontanarsi dalla protagonista solo per mostrarci brevi stralci della vita del ragazzo fuori casa, insieme agli amici, nel tentativo di trovare un proprio posto nella società.

Per-un-figlio-1La storia di una singola persona che, però, è la storia di tanta gente costretta a fare scelte non sempre facili. Non a caso, dunque, la protagonista, Sunita, è l’unico personaggio ad essere identificato con un nome proprio. Tutti gli altri sono attori di una pièce che sembra ripetersi quasi quotidianamente, indipendentemente dal luogo o dal contesto in cui ci si trova. Una pièce che, in questo caso, è stata messa in scena grazie ad uno sguardo sì giovane, ma anche estremamente maturo e consapevole, per quanto riguarda il linguaggio cinematografico. Di conseguenza, Per un figlio rappresenta un ottimo esordio sulla scena di Katugampala, da sempre attento alle problematiche del suo paese di origine e che di sicuro ha in serbo non poche sorprese per il futuro.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

67° FESTIVAL DI BERLINO – FELICITE di Alain Gomis

feliciteTITOLO: FELICITÉ; REGIA: Alain Gomis; genere: drammatico; anno: 2017; paese: Francia, Congo; cast: Véro Tshanda Beya; durata: 123′

Presentato in concorso alla 67° edizione del Festival di Berlino, Felicité è l’ultimo lungometraggio del cineasta senegalese Alain Gomis.

La storia messa in scena è una storia apparentemente come tante. Felicité è una giovane ragazza madre dalle straordinarie doti canore che, al fine di garantire al figlio adolescente una vita dignitosa, ogni sera si esibisce in un locale della cittadina in cui vive, nel cuore del Congo. La situazione si fa complicata il giorno in cui il ragazzo ha un incidente con la motocicletta e rischia di perdere una gamba. L’operazione per salvarlo è assai costosa, così Felicité sarà costretta a trovare le più disparate soluzioni, al fine di garantire l’intervento a suo figlio.

Ad una prima lettura della sinossi, l’idea di base sembrerebbe suggerire qualcosa simile ai film dei fratelli Dardenne. Eppure, dopo aver adottato una certa linea iniziale, ecco che il lungometraggio di Gomis si concentra in particolare sull’interiorità della protagonista stessa, sui suoi cambiamenti, sulla sua crescita interiore e, soprattutto, sulla sua presa di coscienza circa il fatto che, nella vita, bisogna anche saper accettare un aiuto da parte di chi ci è vicino.

Il tutto viene realizzato con un copioso uso di camera a spalla, per una messa in scena apparentemente priva di particolari virtuosismi registici, che si alterna a momenti in cui la musica ed i colori di un popolo fanno da protagonisti assoluti, facendoci dimenticare, per un attimo, le sventure della protagonista stessa. Sono queste le scene in cui Felicité si esibisce al locale e, di volta in volta, intensi suoi primi piani ci mostrano il suo stato d’animo. Nel raccontare il percorso della protagonista, ampio spazio è dedicato – in modo non del tutto riuscito, a dire il vero – anche alla dimensione onirica. Sono questi i momenti in cui Felicité viene mostrata nell’atto di camminare di notte dentro un bosco, per poi immergersi in un lago e sentirsi improvvisamente più serena, quasi fosse tornata nella placenta materna. Particolarmente riuscito, inoltre, il parallelismo tra la donna ed il proprio figlio a metà della pellicola: dopo l’amputazione della gamba di quest’ultimo, ecco che la madre intraprende un nuovo percorso interiore che la fa abbandonare ciò che era prima, tagliandosi in modo emblematico i capelli.

Il vero problema di un lungometraggio come Felicité è fondamentalmente uno script piuttosto sfilacciato, che, dopo aver adottato una certa linea iniziale, cambia quasi repentinamente registro, facendo sì che il film sia spaccato in due senza una logica apparente. Molti elementi, inoltre, vengono tirati in ballo per poi essere lasciati in sospeso (vedi la zebra incontrata dalla protagonista durante i sogni), rivelando sì buoni intenti da parte del regista, ma anche un’importante dose di incertezza, che, di fatto, il suo peso ce l’ha eccome. Nulla di veramente riuscito, in pratica. Eppure, vuoi per le ambientazioni, vuoi per la musica calda e coinvolgente, al termine della visione questo ultimo lungometraggio di Gomis non lascia fortunatamente del tutto scontenti.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

34° TORINO FILM FESTIVAL – CHRISTINE di Antonio Campos

RTOA9788.jpgTITOLO: CHRISTINE; REGIA: Antonio Campos; genere: drammatico, biografico; anno: 2016; paese: USA, UK; cast: Rebecca Hall, Michael C. Hall Maria Dizzia; durata: 116′

Presentato in concorso al 34° Torino Film Festival – per la sezione Torino 34Christine è l’ultimo lungometraggio diretto da Antonio Campos, già apprezzato autore del cinema underground.

Christina Chubbuck, giornalista per un’emittente televisiva di Sarasota, in Florida, nel lontano 1974 ha deciso di togliersi la vita sparandosi in testa durante una diretta. Il gesto estremo, gli ultimi, drammatici istanti di vita di Christine Chubbuck non sono – in questo lungometraggio di Campos – che un episodio quasi “marginale” in confronto alla lunga lotta contro la depressione affrontata per molti anni dalla giovane protagonista. Quella che ci appare sullo schermo è una Christine estremamente sensibile, frustrata da un lavoro in cui i suoi meriti non sembrano ottenere il giusto riconoscimento e da una madre da cui è sempre stata trattata come un’amica, ma mai come una figlia. Una Christine sognatrice e forse un po’ naïve, che, una volta scontratasi con lo spietato mondo degli “adulti”, non è riuscita a reggerne il colpo.

E, dunque, per la scelta di raccontare la depressione di Christine in modo trasversale, delicato e privo di stereotipi, peculiarità di questo lavoro di Campos è proprio una buona sceneggiatura, che, anche se apparentemente non mette in scena nulla di “nuovo”, ad uno sguardo più approfondito rivela un’attenzione ed una sensibilità che purtroppo non sempre ci capita di trovare, senza disdegnare anche momenti di humour nero che – dato il tema trattato – stanno ad alleggerire il tutto nei momenti giusti. Il risultato è una protagonista altamente empatica, che – malgrado una malattia come quella della depressione sia ancora oggi realmente sconosciuta ai più – riesce fin da subito ad entrare a contatto con il pubblico. O meglio, possiamo addirittura affermare che è il pubblico stesso a “diventare Christine”, la quale viene, finalmente, compresa nel suo modo di essere “stramba”.

Merito della riuscita di tale intento è anche una regia priva di fronzoli, ma con interessanti momenti – come quando, ad esempio, vediamo l’immagine frammentata della protagonista intenta a guardarsi allo specchio, segno che è la stessa Christine a non riconoscersi quasi più, oppure quando, durante le scene ambientate all’interno dello studio televisivo, vediamo presente ma mai eccessivamente esplicito anche il metacinema, con pellicole, macchine da presa e proiettori trattati dal regista alla stregua di veri e propri personaggi – insieme ad un’ottima performance attoriale della brava Rebecca Hall, capace di repentini cambi di registro senza, però, mai eccedere e che, grazie a questa sua interpretazione, potrebbe anche aggiudicarsi importanti riconoscimenti.

In poche parole, Christine è un film piccolo ma ben confezionato, che ci racconta qualcosa di universale senza mai essere giudicante, partendo dalla storia di una persona ormai quasi del tutto dimenticata. Un film che magari non avrà l’attenzione che merita, ma che, senza dubbio, è un’ulteriore dimostrazione del talento di Campos e che fa in modo che, dopo la sua visione, ci si rifletta, di quando in quando, su. Qualità, questa, purtroppo non sempre facile da incontrare.

VOTO: 7/10

Marina Pavido