LA RECENSIONE – CHIAMAMI COL TUO NOME di Luca Guadagnino

chiamami col tuo nomeTITOLO: CHIAMAMI COL TUO NOME; REGIA: Luca Guadagnino; genere: drammatico; paese: Italia, Francia, Brasile, USA; anno: 2017; cast: Thimothée Chalamet, Armie Hammer, Michael Stuhlbarg; durata: 132′

Nelle sale italiane dal 25 gennaio, Chiamami col tuo nome è l’ultimo lavoro del cineasta italiano, ma trapiantato all’estero, Luca Guadagnino, presentato in anteprima alla 67° Berlinale e che ha recentemente ricevuto ben quattro Nomination ai Premi Oscar, tra cui Miglior Film e Miglior Sceneggiatura non Originale (scritta da James Ivory).

Tratto dall’omonimo romanzo di André Aciman, il film – terzo capitolo della trilogia del desiderio dopo Io sono l’amore (2009) e A bigger splash (2015) ed ambientato nel 1983 – racconta la storia d’amore tra Elio, diciassettenne residente in un paesino del Nord Italia ed Oliver, giovane studente americano ospitato durante l’estate dalla famiglia del ragazzo. Non sarà facile per entrambi scoprire sé stessi ed ancor più difficile sarà, alla fine delle vacanze, separarsi.

Osannato dalla critica italiana ed internazionale, considerato da un cineasta del calibro di Paul Thomas Anderson uno dei migliori film del 2017, Chiamami col tuo nome ha tutte le carte in regola per passare alla storia. Almeno sulla carta. Nulla da dire, infatti, sulla regia, così come sulle atmosfere poetiche ed evocative ricostruite che, grazie alla bravura degli interpreti e, non da meno, ad un coinvolgente commento musicale, riescono fin da subito a far breccia nel cuore dello spettatore ed a far sì che egli stesso si senta parte integrante della storia. I sentimenti dei due giovani, dal canto loro, vengono messi in scena in modo discreto e delicato, quasi a voler richiamare alcune opere della Nouvelle Vague.

Ma allora, con tali premesse, cos’è che di un film come Chiamami col tuo nome proprio sembra non andare giù? Forse, paradossalmente, è proprio lo sguardo del regista. Non fraintendiamoci, dal punto di vista della messa in scena in sé stiamo parlando di un film inappuntabile. L’impressione che si ha – anche, e soprattutto, in luce di quanto un cineasta come Guadagnino ha girato in passato – è che lo stesso autore sia un po’ troppo distaccato da ciò che sta girando, quasi come se l’importante fosse autocelebrarsi come grande maestro, ma senza entrare davvero nel vivo della vicenda. Lo dimostrano, giusto per fare qualche esempio, i primi e primissimi piani troppo enfatici – ed anche piuttosto gratuiti – dei due protagonisti, così come campi lunghi che ci mostrano il paesaggio estivo e si soffermano fissi anche dopo che i personaggi sono usciti di scena, senza che ce ne sia una reale necessità.

Eppure, nonostante ciò, la confezione del prodotto in sé è riuscita eccome. E pare siano in tanti ad essersene accorti. Di fatto, Chiamami col tuo nome è un lungometraggio che da solo presenta parecchi spunti interessanti. Non ci resta che stare a vedere se l’Academy lo riterrà meritevole di qualche statuetta.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – L’INCREDIBILE VITA DI NORMAN di Joseph Cedar

coverlg_homeTITOLO: L’INCREDIBILE VITA DI NORMAN; REGIA: Joseph Cedar; genere: drammatico, commedia; Paese: USA, Israele; anno: 2017; cast: Richard Gere, Lior Ashkenazi, Charlotte Gainsbourg; durata: 118′

Nelle sale italiane dal 28 settembre, L’incredibile vita di Norman – La moderata ascesa e la tragica caduta di un faccendiere newyorchese è il primo lungometraggio in lingua inglese dell’israeliano Joseph Cedar, che qui si è ispirato alla favola archetipica dell’Ebreo cortigiano, la quale ci racconta di un faccendiere ebreo dedito a fare regali o favori a uomini sconosciuti che diventeranno in seguito uomini di potere e con i quali lo stesso faccendiere inizierà a collaborare come uomo di fiducia.

Norman Oppenheimer è un uomo timido, impacciato, apparentemente solo al mondo, che cerca di accattivarsi le amicizie di uomini potenti facendogli innumerevoli favori, presentandogli persone altrettanto importanti e seguendoli passo passo nella loro scalata verso il successo. È stato così, ad esempio, con un giovane politico israeliano, a cui Norman ha regalato un costoso paio di scarpe e che, in seguito, è diventato Primo Ministro. Ma le cose si sono messe davvero bene anche per Norman, in realtà? Parrebbe proprio di no. Come tradizione vuole, non c’è lieto fine per il nostro Ebreo cortigiano.

Peccato. Perché il Norman qui messo in scena è, in realtà, un personaggio che, più che altro, fa tenerezza e con il quale si tende a simpatizzare fin da subito. Non ci viene detto praticamente nulla della sua vita privata, né del suo passato. Gli unici elementi fornitici sono l’esistenza di una figlia e di una moglie defunta. Ma sarà poi vero? O è solo una storia che lo stesso Norman tende a raccontare alle sue nuove conoscenze, al fine di apparire più “umano”? Poco ci importa, alla fine. Ciò che ha reale importanza è soprattutto il fatto che questo buffo personaggio riesce a catalizzare l’attenzione su di sé per circa due ore di fila. Merito, ovviamente, di un buono script, ma anche, dobbiamo riconoscerlo, di Richard Gere, qui in una delle sue interpretazioni più convincenti, il quale si è riuscito pienamente a riscattare dopo il disastroso The dinner (diretto da Oren Moverman, che per L’incredibile vita di Norman, invece, ha partecipato alla produzione), presentato alla 67° Berlinale.

Il vero pezzo forte di questo ultimo lungometraggio di Cedar è, però, proprio la regia: finti split screens, dissolvenze incrociate che ci mostrano le immagini mentre ruotano come in una sorta di coreografia, audaci plongés ed un sapiente uso della musica che tende a sdrammatizzare anche i momenti emotivamente più “difficili da digerire”, rivelano un talento da non sottovalutare e da tenere d’occhio. Non ci resta che attendere, dunque, il prossimo lavoro del giovane Cedar. E chissà se la prossima volta porterà avanti anche la riuscita collaborazione con lo stesso Richard Gere!

VOTO: 8/10

Marina Pavido

67° FESTIVAL DI BERLINO – PREMI E CONCLUSIONI

c_2_fotogallery_3009249_27_imageEd eccoci giunti, anche quest’anno, alla conclusione di uno dei più importanti eventi cinematografici dell’anno. La sera di sabato 18 febbraio, infatti, sono stati proclamati i vincitori di questa 67° edizione della Berlinale, dove la giuria presieduta da Paul Verhoeven ha assegnato i premi in calce al presente articolo.

Anche quest’anno, come ogni anno, l’offerta è stata più che valida, oltre ad essere incredibilmente ricca e variegata. Per Entr’Acte è stato un onore ed un piacere prendere parte a tale manifestazione! Salutando, dunque, questa ormai passata edizione della Berlinale, vi presentiamo tutti i nomi dei vincitori!

Orso d’oro per il miglior film:
On body and soul di Ildikó Enyedi

Orso d’argento Gran Premio della Giuria:
Félicité di Alain Gomis

Premio Alfred Bauer per l’innovazione:
Agnieszka Holland per Pokot

Orso d’argento per la miglior regia:
Aki Kaurismaki per The other side of hope

Orso d’argento per la migliore attrice:
Kim Min-hee per On the Beach at Night Alone

Orso d’argento per il miglior attore:
Georg Friedrich per Helle Nächte (Bright Nights)

Orso d’argento per la miglior sceneggiatura:
Sebastian Lelio e Gonzalo Maza per Una mujer fantastica

Orso d’argento per il miglior contributo tecnico:
Dana Bunescu per il montaggio di Ana, mon amour

Premio per la migliore opera prima:
Summer 1993 di Carla Simon

Premio per il miglior documentario:
Istiyad Ashbah (Ghost Hunting) di Raed Antoni

Marina Pavido

67° FESTIVALDI BERLINO – ACHT STUNDEN SIND KEIN TAG di Rainer Werner Fassbinder

media-title-acht_-5TITOLO: ACHT STUNDEN SIND KEIN TAG; REGIA: Rainer Werner Fassbinder; genere: serie televisiva, commedia; anno: 1972; paese: Germania Ovest; cast: Hanna Schygulla, Gottfried John, Luise Ullrich; durata: 478′

Presentata in versione restaurata e rimasterizzata alla 67° Berlinale, Acht STunden sind kein Tag è una serie televisiva girata nel 1972 dal grande Rainer Werner Fassbinder.

Cinque episodi per altrettante storie all’interno di una famiglia della media borghesia di Colonia. La nonna, un’amabile e brillante signora (Luise Ullrich), compie sessant’anni. A festeggiarla ci sono tutti: le due figlie, il marito di una di loro ed i nipoti. Jochen (Gottfried John), uno dei ragazzi, dopo aver incontrato per caso, vicino ad un distributore di bibite, la bella Marion (Hanna Schygulla), invita la ragazza alla festa a casa sua. Ed ecco, finalmente, iniziare le presentazioni. Da questo momento in poi – senza eufemismo alcuno – iniziamo noi stessi a far parte della famiglia a tutti gli effetti ed a voler letteralmente bene ad ogni singolo personaggio. Perché fin dai primi fotogrammi, Acht Stunden sind kein Tag ha il pregio di trasmettere quell’allegria, quella gioia di fondo che sarà caratteristica fondante di tutta la serie. Sullo sfondo, inoltre, la lotta operaia, uno dei temi portanti della cinematografia del regista bavarese.

In questo mondo sereno ed un po’ naïf, di fatto, quello che manca – ripensando, appunto, a gran parte della produzione di Fassbinder – è proprio quel pessimismo di fondo, quella sorta di male di vivere che porterà il cineasta di lì a pochi anni a togliersi la vita. Ed è proprio il tono di Acht Stunden sind kein Tag ad aver sollevato a suo tempo – nel 1972 – non poche critiche, soprattutto per quanto riguarda la sottotrama trattante i movimenti operai, considerati, all’epoca, come rappresentati in modo quasi irreale ed un po’ troppo semplicistico. Al punto di spingere Fassbinder stesso a fermarsi al quinto episodio. Eppure, ripensando alle scene più emozionanti di tutta la serie, non possiamo non ricordarne una ambientata proprio all’interno della fabbrica dove lavora Jochen, nel momento in cui gli operai decidono di firmare un foglio in cui chiedono al loro capo di riconoscergli alcuni diritti fondamentali: nessuno stacco di montaggio, un’unica carrellata in plongé che sta a simboleggiare, appunto, il forte legame tra i lavoratori e, infine, i volti sorridenti di tutto il gruppo. Il messaggio che Fassbinder ha voluto comunicarci è arrivato, così, indubbiamente forte e chiaro. Come, d’altronde, è sempre stato in tutte le sue produzioni.

Certo, a pensare che inizialmente ci fosse stata l’idea di girare più di cinque episodi, un po’ di rabbia viene eccome. Se non altro per il fatto che non ci si stancherebbe mai di questa sorta di favola fuori dal mondo. Così come non ci si stancherebbe mai di ascoltare e riascoltare l’allegro motivetto presente nella sigla di apertura e di chiusura di ogni singolo episodio, quando, con la fabbrica sullo sfondo, vediamo un timido sole sorgere lentamente sulla città di Colonia, dove le storie di Jochen, di Marion, di Monika, di Manfred, di Gregor e della mitica Oma, la nonna, stanno per intrattenerci per un’altra ora e mezzo che, come ogni volta, sembrerà durare appena poche decine di minuti.

VOTO: 9/10

Marina Pavido

67° FESTIVAL DI BERLINO – RETURN TO MONTAUK di Voelker Schloendorff

201719812_1-h_2017TITOLO: RETURN TO MONTAUK; REGIA: Völker Schlöndorff; genere: drammatico; anno: 2017; paese: Germania, USA; cast: Stellan Skarsgård, Nina Hoss; durata: 106′

Presentato in concorso alla 67° edizione della Berlinale, Return to Montauk è l’ultimo lungometraggio diretto dall’autore tedesco Völker Schlöndorff.

Ci troviamo a New York, dove l’acclamato scrittore Max Zorn – ormai non più giovanissimo – è appena arrivato con la moglie per presentare il suo ultimo romanzo, che parla di un vecchio amore finito male. Il caso vuole che la sua antica fiamma – un’avvenente avvocato di origini tedesche – lavori e viva proprio a New York. I due, ovviamente, si incontreranno e decideranno di trascorrere un fine settimana insieme a Montauk, località sul mare dove erano soliti passare parecchio tempo insieme. Sarà ancora amore o soltanto nostalgia dei tempi passati?  Comunque vadano le cose, arriveremo ad un punto in cui il destino dei due protagonisti finirà per non interessarci minimamente. Soprattutto perché il grande problema di un lungometraggio come Return to Montauk è un vero e proprio concentrato di banalità e luoghi comuni come non se ne vedevano da anni.

Dopo un iniziale primissimo piano di Stellan Skarsgård che parla del suo libro, della sua infanzia e del rapporto con suo padre (incipit, questo, che inizialmente farebbe anche ben sperare in qualcosa di interessante), ecco che prendono il sopravvento, dunque, una storia ai limiti della banalità – priva anche di un’approfondita e necessaria riflessione introspettiva – una colonna sonora decisamente disturbante (la scena madre in merito è rappresentata dalla scena in cui Max/Skarsgård reincontra il suo amore di gioventù ed un gruppetto di violini inizia a suonare una melodia talmente sdolcinata da chiedersi se si stiano prendendo sul serio o meno) e, dulcis in fundo, delle ambientazioni che hanno quasi del mocciano, giusto per essere cattivi quanto basta. Una chicca di tutto rispetto, a tal proposito, è rappresentata, durante una scena in cui i due amanti passeggiano sulla spiaggia completamente deserta, dalla presenza di un faro in riva al mare. E credo che, a questo punto, non ci sia null’altro da aggiungere in merito.

La cosa che maggiormente lascia basiti è che, di fatto, un autore come Völker Schlöndorff di talento ne ha eccome. E infatti, da un punto di vista prettamente registico, Return to Montauk è un film pressoché perfetto. Peccato, però, che quel disturbante senso di obsolescenza presente nelle ultime opere del cineasta tedesco sia stato qui portato all’estremo in modo irrecuperabile. C’è solo da augurarsi un eventuale (ma improbabile) ritorno alle origini, a questo punto. E, nel frattempo, continueremo a sognare vecchi tamburi di latta.

VOTO: 4/10

Marina Pavido

67° FESTIVAL DI BERLINO – COLO di Teresa Villaverde

201712400_6-659x353TITOLO: COLO; REGIA: Teresa Villaverde; anno: 2017; paese: Portogallo; cast: Alice Albergaria Borges, Joao Pedro Vaz; durata: 136′

Presentato in concorso alla 67° Berlinale, Colo è l’ultimo lungometraggio diretto dalla regista portoghese Teresa Villaverde.

È la storia, questa, dell’adolescente Marta, la quale vede disgregarsi, sotto i propri occhi, il suo nucleo famigliare. Suo padre è disoccupato e terrorizzato che la moglie possa lasciarlo. Sua madre lavora tutto il giorno, ma fa fatica a pagare le bollette da sola. Nessuno, però, sembra accorgersi dei disagi vissuti dalla ragazza, la quale si sente compresa solo dalla sua amica Julia, incinta di pochi mesi ed anch’ella in difficoltà a causa dell’inaspettata gravidanza.

Ciò che fin da subito colpisce, in questo lavoro della Villaverde, sono gli intensi primi piani della protagonista, interpretata dalla giovane e talentuosa Alice Albergaria Borges. E, fin dall’inizio, la macchina da presa continua a seguire fedelmente la ragazza, senza, però, togliere spessore a ciò che la circonda. Con poche, ma significative inquadrature, infatti, ecco delinearsi man mano le vere dinamiche che legano i protagonisti della pellicola. Il tutto realizzato senza mai cadere nel banale e lasciando allo spettatore anche una grande libertà di interpretazione. Ed ecco che la routine quotidiana rappresentata fin dall’inizio lascia spazio, man mano ad inevitabili – e drastiche – svolte narrative, pur mantenendo sempre un andamento prevalentemente contemplativo, perfettamente in linea con la cinematografia portoghese. Un film, questo, che pur mettendo in scena una storia come tante altre, sa colpire nel punto giusto. Particolarmente degna di nota, a tal proposito, l’inquadratura finale, in cui vediamo, in notturna, un deposito isolato all’interno del quale Marta ha trovato rifugio: è in questo momento che, ascoltando i rumori della notte, la macchina da presa si avvicina lentamente alla costruzione per poi allontanarvisi definitivamente, lasciando la protagonista in balìa del suo stesso, incerto destino. Ancora una volta, dunque, la parola è lasciata alle immagini. E, anche per questo, Colo è da considerarsi uno dei prodotti più raffinati ed interessanti presentati in concorso. Uno dei pochi film presenti che sa scavare, con grazia, nei nostri animi.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

67° FESTIVAL DI BERLINO – THE BAR di Alex De La Iglesia

1239030_the-barTITOLO: THE BAR; REGIA: Alex De La Iglesia; genere: commedia, horror; anno: 2017; paese: Spagna; cast. Mario Casas, Blanca Suarez; durata: 102′

Presentato fuori concorso alla 67° Berlinale, The bar è l’ultimo lungometraggio diretto dal cineasta spagnolo Alex De La Iglesia.

Otto protagonisti per un film corale che, nel corso della narrazione abbandona l’iniziale impostazione teatrale per diventare successivamente un horror classico, ma che, allo stesso tempo, riesce pur sempre a sorprendere. Otto personaggi che si ritrovano, una mattina, a fare colazione in un bar. Dalla bella ragazza sfortunata in amore al giovane in carriera, dalla casalinga dipendente dalle slot machines al senzatetto estremamente religioso, addirittura fanatico, che continua a citare passi tratti dall’Apocalisse di san Giovanni. La carrellata di tipi umani è più variegata che mai. Tutto sembra scorrere secondo le quotidiane consuetudini, quando uno dei clienti, poco dopo essere uscito dal bar, viene centrato in piena fronte da un proiettile sparato non si sa da dove. È a questo punto che le danze avranno inizio.

Ancora una volta, dunque, De La Iglesia si cimenta con il genere horror. Genere che, come di consueto nei film del cineasta di Bilbao (fatta eccezione per Baby’s room, di impostazione piuttosto classica), risulta pregno anche di una comicità grottesca del tutto fuori dagli schemi. È stato così per il recente Las brujas de Zugarramurdi, ad esempio, così come per l’ormai cult Acción mutante, giusto per citare un paio di titoli. Ed anche in The bar – dagli echi (non troppo) vagamente carpenteriani – tali soluzioni risultano decisamente indovinate. Si ride per situazioni al limite dell’assurdo ed anche grazie a personaggi i cui tratti caratteriali sono portati volutamente all’estremo, per poi lasciare spazio alla tensione vera e propria, nel momento in cui i sopravvissuti sono costretti ad una battaglia all’ultimo sangue all’interno delle fogne di Madrid, al fine di procurarsi le ultime doti di antidoto contro un non ben definito virus. Nel frattempo, frequenti – ma mai eccessive o forzate – immagini di proiettili volanti, fiotti di sangue e vomito ed ustioni, unite ad inquadrature dichiaratamente autocompiacenti che vedono primi piani delle forme dell’avvenente protagonista, in piena tradizione, appunto, del cinema di De La Iglesia.

E poi c’è la religione. Ecco che ancora una volta il regista spagnolo – analogamente a quanto fatto con il cortometraggio La confessione, presentato fuori concorso alla 71° Mostra del Cinema di Venezia, all’interno del progetto collettivo Words with Gods – se la prende con il cattolicesimo radicato nella sua nazione. In questo caso, la figura che maggiormente sta a simboleggiare tale critica è indubbiamente quella del senzatetto/profeta, ma anche l’impostazione stessa di tutto il lungometraggio, se vogliamo, durante il quale, appunto, solo a pochi eletti, dopo aver superato determinate prove, sarà dato di salvarsi e di “rinascere” riuscendo finalmente ad uscire in strada attraverso un tombino.

Un De La Iglesia, in pratica, che non fa che riconfermare sé stesso, il suo coraggio e la sua capacità di gestire determinate situazioni e che, anche se con The bar tende un po’ a ripetersi nel genere e nelle tematiche, di certo non delude, ma, al contrario, è capace di intrattenere il pubblico per quasi due ore dando l’impressione che siano passate solo poche decine di minuti. Un De La Iglesia che, in poche parole, ci piace proprio così com’è.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

67° FESTIVAL DI BERLINO – BEUYS di Andres Veiel

covermd_homeTITOLO: BEUYS; REGIA: Andres Veiel; genere: documentario; anno: 2017; paese: Germania; durata: 107′

Presentato in concorso alla 67° Berlinale, Beuys è l’ultimo lavoro del documentarista tedesco Andres Veiel, incentrato sulla vita dell’artista Joseph Beuys.

Immagini di repertorio e fotografie d’epoca – in un rigoroso bianco e nero – si susseguono sullo schermo a ritmi incalzanti. Ed ecco che enorme, in rosso, compare il nome dell’artista. Ciò che immediatamente dopo vediamo sono primi e primissimi piani di volti, dettagli di occhi che guardano rapiti verso una stessa direzione. Ed ecco che lo spettacolo ha finalmente inizio. Una serie di pellicole iniziano a scorrere sulle bobine. Altre pellicole ci vengono mostrate una accanto all’altra a tutto schermo. Ed ecco che, di volta in volta, da ogni singolo fotogramma preso nel dettaglio prende il via un episodio della vita dell’artista. È così, dunque, che iniziamo a conoscere – a trent’anni dalla morte – Joseph Beuys. È così che ci viene raccontata la sua arte, l’autobiografismo presente nelle sue opere, la sua amicizia con Andy Warhol e la sua militanza politica. È così che la singolare figura con il cappello perennemente in testa inizia a delinearsi pian piano davanti ai nostri occhi.

Fatta eccezione per rare interviste a chi ha avuto modo di conoscere Beuys di persona, questo ultimo lavoro di Veiel è un riuscitissimo documentario di montaggio, in cui vediamo fondersi di volta in volta cinema e fotografia ed in cui, soprattutto, fin da subito molto forte è anche una certa componente metacinematografica. Basti pensare, ad esempio, anche alle numerose immagini ed inquadrature di telecamere e macchine fotografiche presenti nel documentario o, come già detto, ai ricorrenti primi piani e dettagli di occhi.

Analogamente alle opere create dall’artista, Beuys utilizza fin da subito un approccio del tutto non convenzionale, soprattutto per quanto riguarda il montaggio, senza però nulla togliere alla componente narrativa in sé. Come una sorta di collage, il documentario ci presenta un personaggio magari sì apprezzato per le sue opere (per molte delle quali, tra l’altro, ci viene anche mostrato il loro processo di realizzazione, fino al loro compimento), ma mai conosciuto davvero fino in fondo. Il risultato finale è uno dei migliori prodotti – fatte, ovviamente, poche altre eccezioni – presentati in concorso a Berlino. E, considerando che tale lavoro fa anche parte delle poche opere provenienti dalla Germania presenti in selezione ufficiale, a fronte di una scarsa concorrenza in merito, molto probabilmente potrebbe anche accaparrarsi qualche premio.

VOTO:7/10

Marina Pavido

67° FESTIVAL DI BERLINO – THE OTHER SIDE OF HOPE di Aki Kaurismaki

62775_pplTITOLO: THE OTHER SIDE OF HOPE; REGIA: Aki Kaurismaki; genere: commedia, drammatico; anno: 2017; paese: Finlandia; cast: Sherwan Haji, Sakari Kuosmanen; durata: 98′

Presentato in concorso alla 67° edizione della Berlinale, The other side of hope è l’ultimo lavoro dell’acclamato cineasta finlandese Aki Kaurismaki.

A sei anni dall’ultimo lungometraggio (Miracolo a Le Havre, 2011) Kaurismaki – che fin dagli inizi di carriera ha spesso messo in scena storie e personaggi ai margini della società – riprende il tema dell’immigrazione e dell’integrazione in un paese come la Finlandia, raccontandoci le vicende di Khaled – rifugiato siriano bisognoso di un permesso di soggiorno ed alla disperata ricerca di sua sorella – e di Wikström, burbero e solitario commesso viaggiatore che ha da poco lasciato la moglie alcolizzata ed ha deciso di darsi alla ristorazione. I due personaggi, come la regola sta a suggerire, sono destinati ad incontrarsi e da quel momento le vite di ognuno di loro prenderanno una svolta decisiva.

Chiunque abbia avuto modo di conoscere – e, diciamolo pure, amare! – il cineasta finlandese, anche soltanto leggendo sommariamente la sinossi di questo suo ultimo lavoro, probabilmente intuirà che The other side of hope può considerarsi quasi una summa di tutta la cinematografia di Kaurismaki stesso. E, in effetti, gli elementi ricorrenti ci sono tutti: dal tono surreale/grottesco alla scelta di raccontare personaggi quasi “rifiutati” dalla società, dall’andamento tipico di una vera e propria favola fino alla singolare messa in scena che prevede colori freddi ed accesi insieme a figure tendenzialmente statiche interpretati secondo i canoni dello straniamento brechtiano.

Cavalcando l’onda di Miracolo a Le Havre, Kaurismaki mette in scena, dunque, le storie di due personaggi apparentemente agli antipodi e, al momento del loro congiungimento, ecco che il già promettente lungometraggio finalmente decolla. Al via, dunque, situazioni esilaranti ed al limite del surreale – come, ad esempio, quando Wikström decide di trasformare il suo modesto ristorantino in un ristorante giapponese, senza avere, però, idea di come si cucini realmente il sushi – unite a momenti più difficili da “digerire”, come quando un gruppo di malintenzionati aggredisce Khaled. Ovviamente, come (quasi) ogni favola che si rispetti, il lieto fine è dietro l’angolo.

Eppure The other side of hope non è solo questo. Volendo tornare al discorso sulla messa in scena, infatti, fin dai primi minuti abbiamo l’impressione di essere stati catapultati in una sorta di mondo senza tempo, dove ogni elemento che rimandi alla contemporaneità sembra quasi rifiutato a priori: non vi è alcuna traccia, ad esempio, di computer o smartphones, addirittura le automobili presenti sono quelle prodotte qualche decennio fa. Se a ciò aggiungiamo inquadrature perfettamente simmetriche e ben studiate, insieme a momenti in cui sottili e a volte divertenti giochi di sguardi tra i personaggi sono sottolineati da sapienti primi piani (emblematiche, a tal proposito, la scena iniziale in cui Wikström lascia la moglie, seduta al tavolo vicino ad una bottiglia di vino e con una sigaretta in mano, insieme alla sequenza della bisca clandestina, in cui sempre Wikström vince i soldi per acquistare la gestione del ristorante) ecco che viene fuori il cinema di Kaurismaki nella sua forma più pura. In poche parole, ecco che il maestro finlandese ci regala un’ulteriore conferma del suo talento, senza deludere le aspettative del suo nutrito pubblico. Ed ecco che il buon cinema d’autore si unisce al cinema con un importante messaggio sociale, cosa che da sempre piace tantissimo alle giurie berlinesi. Cosa, questa, che rende The other side of hope un Orso d’Oro praticamente perfetto.

VOTO: 8/10

Marina Pavido