67° FESTIVAL DI BERLINO – BEUYS di Andres Veiel

covermd_homeTITOLO: BEUYS; REGIA: Andres Veiel; genere: documentario; anno: 2017; paese: Germania; durata: 107′

Presentato in concorso alla 67° Berlinale, Beuys è l’ultimo lavoro del documentarista tedesco Andres Veiel, incentrato sulla vita dell’artista Joseph Beuys.

Immagini di repertorio e fotografie d’epoca – in un rigoroso bianco e nero – si susseguono sullo schermo a ritmi incalzanti. Ed ecco che enorme, in rosso, compare il nome dell’artista. Ciò che immediatamente dopo vediamo sono primi e primissimi piani di volti, dettagli di occhi che guardano rapiti verso una stessa direzione. Ed ecco che lo spettacolo ha finalmente inizio. Una serie di pellicole iniziano a scorrere sulle bobine. Altre pellicole ci vengono mostrate una accanto all’altra a tutto schermo. Ed ecco che, di volta in volta, da ogni singolo fotogramma preso nel dettaglio prende il via un episodio della vita dell’artista. È così, dunque, che iniziamo a conoscere – a trent’anni dalla morte – Joseph Beuys. È così che ci viene raccontata la sua arte, l’autobiografismo presente nelle sue opere, la sua amicizia con Andy Warhol e la sua militanza politica. È così che la singolare figura con il cappello perennemente in testa inizia a delinearsi pian piano davanti ai nostri occhi.

Fatta eccezione per rare interviste a chi ha avuto modo di conoscere Beuys di persona, questo ultimo lavoro di Veiel è un riuscitissimo documentario di montaggio, in cui vediamo fondersi di volta in volta cinema e fotografia ed in cui, soprattutto, fin da subito molto forte è anche una certa componente metacinematografica. Basti pensare, ad esempio, anche alle numerose immagini ed inquadrature di telecamere e macchine fotografiche presenti nel documentario o, come già detto, ai ricorrenti primi piani e dettagli di occhi.

Analogamente alle opere create dall’artista, Beuys utilizza fin da subito un approccio del tutto non convenzionale, soprattutto per quanto riguarda il montaggio, senza però nulla togliere alla componente narrativa in sé. Come una sorta di collage, il documentario ci presenta un personaggio magari sì apprezzato per le sue opere (per molte delle quali, tra l’altro, ci viene anche mostrato il loro processo di realizzazione, fino al loro compimento), ma mai conosciuto davvero fino in fondo. Il risultato finale è uno dei migliori prodotti – fatte, ovviamente, poche altre eccezioni – presentati in concorso a Berlino. E, considerando che tale lavoro fa anche parte delle poche opere provenienti dalla Germania presenti in selezione ufficiale, a fronte di una scarsa concorrenza in merito, molto probabilmente potrebbe anche accaparrarsi qualche premio.

VOTO:7/10

Marina Pavido