NICCOLO’ CALVAGNA nella SERIE TV canadese SANCTUARY

Ricevo e volentieri pubblico

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Niccolò Calvagna: il piccolo talento italiano nella serie televisiva canadese Sanctuary

Ha soltanto dodici anni, ma già vanta un curriculum degno di una stella del cinema dalla lunga esperienza.

Dopo aver lavorato nelle serie televisive Il sistema e Sorelle ed essere stato al servizio di importanti registi italiani quali Daniele Luchetti (Anni felici), Giulio Base (Mio papà), Volfango De Biasi (Un Natale stupefacente) e i fratelli Taviani (Maraviglioso Boccaccio), il piccolo Niccolò Calvagna varca i confini dello stivale tricolore per approdare nella serie televisiva canadese Sanctuary, ideata dal Damian Kindler autore anche di Stargate SG1 e Stargate Atlantis.

Niccolò Calvagna-2Già nota al grande pubblico, la serie si concentra sulle avventure della dottoressa Helen Magnus, che, supportata da altri personaggi, è impegnata nella ricerca di creature conosciute come anormali, alcune delle quali sono esseri umani, in modo da difendere da esse i comuni mortali. Anche se, in alcuni casi, si trova costretta, invece, a difendere i primi da questi ultimi.

Calvagna è stato scelto dopo aver sostenuto un provino interamente in lingua inglese e vestirà i panni dello psicopatico Elliott, unico bambino del gruppo degli anormali. Una prova tutt’altro che facile e che non potrà fare a meno di lasciar emergere altre interessanti sfumature del talento in erba, ormai destinato a conquistare schermi internazionali.

 

LA RECENSIONE – THOR: RAGNAROCK di Taika Waititi

thor-ragnarok-hela-copertinaTITOLO: THOR RAGNAROCK; REGIA: Taika Waititi; genere: fantastico; paese: USA; anno: 2017; cast: Chris Hemsworth, Cate Blanchett, Mark Ruffalo; durata: 130’

Nelle sale italiane dal 25 ottobre, Thor: Ragnarock, diretto da Taika Waititi e basato sull’omonimo personaggio dei fumetti Marvel Comics, è il terzo film della saga di Thor (dopo Thor e Thor: The dark World), nonché diciassettesimo film della Marvel Cinematic Universe.

Thor, il potente dio del tuono, dopo aver perso il proprio martello, si trova imprigionato sul pianeta Sakaar. Sarà un’impresa piuttosto ardua tornare ad Asgard e fermare la pericolosa Hela, sua sorella (diventata dea della morte), al fine di impedire, così, il Ragnarock, terribile battaglia tra le potenze della luce e quelle delle tenebre.

Che l’ultimo film della trilogia di Thor sia uno dei titoli maggiormente attesi dai fan della Marvel, è cosa risaputa. Da subito, infatti, le vicende del fortissimo – e biondissimo – dio del tuono hanno avuto un effetto a dir poco magnetico sul pubblico. E Thor: Ragnarock, ultimo capitolo, di certo non ha deluso le aspettative. Al contrario, rispetto ai precedenti film – Thor e Thor: The dark World, appunto – questo ultimo lavoro si è rivelato addirittura ancora più interessante. Che sia merito dello spiccato tono da commedia che il giovane Taika Waititi ha voluto conferirgli? O invece dei personaggi di Hulk e della terribile Hela – interpretata da un’insolita, ma sempre vincente Cate Blanchett? Probabilmente, di un insieme di fattori che hanno contribuito alla realizzazione di una degna conclusione della trilogia.

Lo stesso Waititi – cineasta neozelandese, qui alla sua prima produzione con un importante budget alle spalle – sembra particolarmente a proprio agio in questo nuovo progetto. Particolarmente evidente è soprattutto il fatto che si sia addirittura divertito nel mettere in scena i vari combattimenti e le situazioni più estreme vissute dai protagonisti. Che venga scelto anche per qualche altro lungometraggio targato Marvel? A questo punto, non possiamo che augurarcelo. Una nuova avventura, tra l’altro, sembra essere imminente. Almeno secondo i titoli di coda che fanno tanto, ma proprio tanto saga di 007.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – L’INCREDIBILE VITA DI NORMAN di Joseph Cedar

coverlg_homeTITOLO: L’INCREDIBILE VITA DI NORMAN; REGIA: Joseph Cedar; genere: drammatico, commedia; Paese: USA, Israele; anno: 2017; cast: Richard Gere, Lior Ashkenazi, Charlotte Gainsbourg; durata: 118′

Nelle sale italiane dal 28 settembre, L’incredibile vita di Norman – La moderata ascesa e la tragica caduta di un faccendiere newyorchese è il primo lungometraggio in lingua inglese dell’israeliano Joseph Cedar, che qui si è ispirato alla favola archetipica dell’Ebreo cortigiano, la quale ci racconta di un faccendiere ebreo dedito a fare regali o favori a uomini sconosciuti che diventeranno in seguito uomini di potere e con i quali lo stesso faccendiere inizierà a collaborare come uomo di fiducia.

Norman Oppenheimer è un uomo timido, impacciato, apparentemente solo al mondo, che cerca di accattivarsi le amicizie di uomini potenti facendogli innumerevoli favori, presentandogli persone altrettanto importanti e seguendoli passo passo nella loro scalata verso il successo. È stato così, ad esempio, con un giovane politico israeliano, a cui Norman ha regalato un costoso paio di scarpe e che, in seguito, è diventato Primo Ministro. Ma le cose si sono messe davvero bene anche per Norman, in realtà? Parrebbe proprio di no. Come tradizione vuole, non c’è lieto fine per il nostro Ebreo cortigiano.

Peccato. Perché il Norman qui messo in scena è, in realtà, un personaggio che, più che altro, fa tenerezza e con il quale si tende a simpatizzare fin da subito. Non ci viene detto praticamente nulla della sua vita privata, né del suo passato. Gli unici elementi fornitici sono l’esistenza di una figlia e di una moglie defunta. Ma sarà poi vero? O è solo una storia che lo stesso Norman tende a raccontare alle sue nuove conoscenze, al fine di apparire più “umano”? Poco ci importa, alla fine. Ciò che ha reale importanza è soprattutto il fatto che questo buffo personaggio riesce a catalizzare l’attenzione su di sé per circa due ore di fila. Merito, ovviamente, di un buono script, ma anche, dobbiamo riconoscerlo, di Richard Gere, qui in una delle sue interpretazioni più convincenti, il quale si è riuscito pienamente a riscattare dopo il disastroso The dinner (diretto da Oren Moverman, che per L’incredibile vita di Norman, invece, ha partecipato alla produzione), presentato alla 67° Berlinale.

Il vero pezzo forte di questo ultimo lungometraggio di Cedar è, però, proprio la regia: finti split screens, dissolvenze incrociate che ci mostrano le immagini mentre ruotano come in una sorta di coreografia, audaci plongés ed un sapiente uso della musica che tende a sdrammatizzare anche i momenti emotivamente più “difficili da digerire”, rivelano un talento da non sottovalutare e da tenere d’occhio. Non ci resta che attendere, dunque, il prossimo lavoro del giovane Cedar. E chissà se la prossima volta porterà avanti anche la riuscita collaborazione con lo stesso Richard Gere!

VOTO: 8/10

Marina Pavido

19° FAR EAST FILM FESTIVAL – SATOSHI: A MOVE FOR TOMORROW di Mori Yoshitaka

AS20160524001110_commTITOLO: SATOSHI: A MOVE FOR TOMORROW; REGIA: Mori Yoshitaka; genere: biografico, drammatico; anno: 2016; paese: Giappone; cast: Kenichi Matsuyama; durata: 124′

Presentato in anteprima alla 19° edizione del Far East Film Festival, Satoshi: a move for tomorrow è l’ultimo lungometraggio diretto da Mori Yoshitaka, biopic sulla vita del celebre giocatore di shogi – una variante giapponese degli scacchi – Satoshi Murayama, morto nel 1998 a soli 29 anni.

Il giovane Satoshi è da sempre cagionevole di salute: i suoi reni non hanno mai funzionato come si deve e fin da bambino è costretto a sottoporsi a pesanti cure. Il suo stato di salute ed il fatto di dover trascorrere molte giornate a letto, però, faranno nascere in lui la passione per lo shogi. Una passione talmente forte da farlo diventare, a soli ventiquattro anni, un grande campione, il cui principale obiettivo sarà battere il freddo e calcolatore Habu, il suo più temuto avversario.

Indubbiamente una figura come quella di Satoshi Murayama può far gola a parecchi cineasti. Il difficile, poi, viene nel momento in cui – nel raccontare la sua breve vita – bisogna evitare ogni pericoloso, ma rischioso cliché. A tal proposito, però, bisogna ammettere che Mori Yoshitaka è stato in grado di dar vita ad un lungometraggio più che dignitoso, senza particolari sbavature e che – nell’ambito di una messa in scena di impronta quasi occidentale – ha saputo rendere giustizia al gioco dello shogi stesso ed a tutti i relativi rituali. Ed ecco che plongés inquadranti il tavolo da gioco, dettagli sulle mani dei personaggi che muovono le pedine ed i rumori delle stesse che vengono spostate sul tavolo – secchi, pieni, che regalano quasi un senso di profonda soddisfazione – diventano i grandi protagonisti dei momenti in cui Satoshi è intento a sfidare i suoi avversari. Momenti di puro cinema in cui la parola lascia esclusivamente lo spazio alle immagini. Tutto il resto è superfluo. Ed ecco che la tensione dei giocatori diventa anche la nostra tensione, quasi come se anche noi stessimo prendendo parte al gioco.

Il Satoshi di Mori Yoshitaka – interpretato dal bravo Kenichi Matsuyama, che per l’occasione è dovuto ingrassare di ben venticinque chili – è, dal canto suo, un ragazzone timido e trasandato, appassionato di graphic novels e completamente dedito al gioco dello shogi, per il quale arriverà anche a trascurare la propria salute. Un ragazzo a cui è impossibile non voler bene, molto amato dalla propria famiglia e dagli amici e che coltiva il sogno nel cassetto di potersi, in un futuro che, come egli stesso sa bene, non arriverà mai, sposare ed innamorare. Di sicuro, un personaggio che non si dimentica facilmente e che fa sì che Satoshi: a move for tomorrow possa quasi considerarsi il film di Kenichi Matsuyama, data, appunto, la sua straordinaria prova d’attore.

Che questo ultimo lavoro di Mori Yoshitaka sia, dunque, un prodotto più che dignitoso, non v’è alcun dubbio. Una domanda, però, sorge spontanea: di quanto sarebbe potuto aumentare il gradimento, da parte del pubblico, se fossero ben note le regole dello shogi?

VOTO: 7/10

Marina Pavido

67° FESTIVAL DI BERLINO – BEUYS di Andres Veiel

covermd_homeTITOLO: BEUYS; REGIA: Andres Veiel; genere: documentario; anno: 2017; paese: Germania; durata: 107′

Presentato in concorso alla 67° Berlinale, Beuys è l’ultimo lavoro del documentarista tedesco Andres Veiel, incentrato sulla vita dell’artista Joseph Beuys.

Immagini di repertorio e fotografie d’epoca – in un rigoroso bianco e nero – si susseguono sullo schermo a ritmi incalzanti. Ed ecco che enorme, in rosso, compare il nome dell’artista. Ciò che immediatamente dopo vediamo sono primi e primissimi piani di volti, dettagli di occhi che guardano rapiti verso una stessa direzione. Ed ecco che lo spettacolo ha finalmente inizio. Una serie di pellicole iniziano a scorrere sulle bobine. Altre pellicole ci vengono mostrate una accanto all’altra a tutto schermo. Ed ecco che, di volta in volta, da ogni singolo fotogramma preso nel dettaglio prende il via un episodio della vita dell’artista. È così, dunque, che iniziamo a conoscere – a trent’anni dalla morte – Joseph Beuys. È così che ci viene raccontata la sua arte, l’autobiografismo presente nelle sue opere, la sua amicizia con Andy Warhol e la sua militanza politica. È così che la singolare figura con il cappello perennemente in testa inizia a delinearsi pian piano davanti ai nostri occhi.

Fatta eccezione per rare interviste a chi ha avuto modo di conoscere Beuys di persona, questo ultimo lavoro di Veiel è un riuscitissimo documentario di montaggio, in cui vediamo fondersi di volta in volta cinema e fotografia ed in cui, soprattutto, fin da subito molto forte è anche una certa componente metacinematografica. Basti pensare, ad esempio, anche alle numerose immagini ed inquadrature di telecamere e macchine fotografiche presenti nel documentario o, come già detto, ai ricorrenti primi piani e dettagli di occhi.

Analogamente alle opere create dall’artista, Beuys utilizza fin da subito un approccio del tutto non convenzionale, soprattutto per quanto riguarda il montaggio, senza però nulla togliere alla componente narrativa in sé. Come una sorta di collage, il documentario ci presenta un personaggio magari sì apprezzato per le sue opere (per molte delle quali, tra l’altro, ci viene anche mostrato il loro processo di realizzazione, fino al loro compimento), ma mai conosciuto davvero fino in fondo. Il risultato finale è uno dei migliori prodotti – fatte, ovviamente, poche altre eccezioni – presentati in concorso a Berlino. E, considerando che tale lavoro fa anche parte delle poche opere provenienti dalla Germania presenti in selezione ufficiale, a fronte di una scarsa concorrenza in merito, molto probabilmente potrebbe anche accaparrarsi qualche premio.

VOTO:7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – LA RAGAZZA DEL TRENO di Tate Taylor

schermata-2016-04-20-alle-13-07-02TITOLO: LA RAGAZZA DEL TRENO; REGIA: Tate Taylor; genere: thriller; anno: 2016; paese: USA; cast: Emily Blunt, Haley Bennett, Rebecca Ferguson; durata: 111′

Nelle sale italiane dal 3 novembre, La ragazza del treno – tratto dall’omonimo romanzo di Paula Hawkins – è l’ultimo lungometraggio diretto da Tate Taylor, che già si è rivelato apprezzato regista nel recente The Help.

Rachel è una giovane donna che, ogni mattina, si reca in treno a New York per lavoro. Devastata dal recente divorzio, è solita osservare dal finestrino una coppia apparentemente felice. Tutto cambia quando, una mattina, vede qualcosa che la sconvolge. Da lì in poi verrà coinvolta in un caso misterioso che, ben presto, si rivelerà molto più grande di lei.

the-girl-on-the-train-2016-movie-still-2Un film sul vedere, questo di Tate Taylor. Un film in cui osservare e venire osservati porta ad importanti conseguenze. Dagli sguardi, infatti, di dipana la vicenda che vede implicate tre giovani donne, le quali ci vengono presentate inizialmente quasi come delle estranee, ognuna con la propria vita, ma che, in realtà, hanno molte più cose che le accomunano di quanto si possa pensare. Nulla è come sembra in apparenza, in La ragazza del treno i ruoli si ribaltano continuamente.

Tema centrale: la donna. La donna forte e fragile allo stesso tempo. La moglie, l’amante, la madre. E le violenze contro di lei. Lo script parte inizialmente da un’idea brillante ed accattivante, ma, purtroppo, peccando forse un po’ troppo di presunzione e di prevedibilità, non riesce a mantenere la tensione ed i ritmi giusti fino alla fine. Peccato. Soprattutto perché il lungometraggio di Taylor ha fin dall’inizio la capacità di catalizzare l’attenzione dello spettatore rendendo quest’ultimo a sua volta partecipe osservatore, analogamente a quanto accade alla protagonista.

Girl on a Train, TheVere peculiarità del lungometraggio sono le ambientazioni – una periferia americana in cui ci si sente terribilmente soli che si contrappone a brevi scorci della vita frenetica nella vicina metropoli – e, soprattutto, la grande prova attoriale regalataci da Emily Blunt, nel ruolo, appunto, della protagonista. Pur dando vita ad una donna alcolizzata, sofferente e con importanti vuoti di memoria, la Blunt è riuscita a mantenere la tensione fino alla fine, evitando il pericoloso errore di andare sopra le righe.

Malgrado le pecche della sceneggiatura e le potenzialità non sfruttate a dovere, non possiamo negare di trovarci davanti ad un thriller tutto sommato godibile e con una buona regia. Un prodotto che, malgrado le intenzioni iniziali, forse resterà in mente soprattutto per le tre donne protagoniste e per la loro buona caratterizzazione. Cosa, questa, non da poco.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

11° FESTA DEL CINEMA DI ROMA – FRITZ LANG di Gordian Maugg

c-belle-epoque-fotograf-tim-fulda-%ef%80%a2-fritz-lang-hTITOLO: FRITZ LANG; REGIA: Gordian Maugg; genere: drammatico, biografico; anno: 2016; paese: Germania; cast: Heino Ferch, Thomas Thieme, Samuel Finzi; durata: 104′

Presentato in anteprima – all’interno della Selezione Ufficiale – all’11° Festa del Cinema di Roma, Fritz Lang, diretto dal regista tedesco Gordian Maugg, è incentrato sul periodo antecedente la lavorazione di uno dei più grandi capolavori del regista, nonché colonna portante del cinema espressionista: M – Il mostro di Düsseldorf.

Un pericoloso serial killer viene, finalmente, arrestato. Il regista Fritz Lang è inizialmente curioso di capire cosa abbia spinto l’uomo a commettere tutti quei delitti. In seguito ad alcuni loro incontri, però, inizierà anche a ripensare al suo passato e, in qualche modo, riuscirà a trovare non pochi punti in comune con l’uomo stesso. Dalle loro conversazioni prenderà vita, successivamente, la sceneggiatura di M – Il mostro di Düsseldorf.

Quali sono le sensazioni che si hanno durante e dopo la visione di Fritz Lang? Dunque, ripercorrendo velocemente con la mente le varie tappe della messa in scena, dovrebbero essere nell’ordine: incredulità, rabbia, sconforto, ilarità, rassegnazione, sonno e di nuovo rabbia. Ecco, il lungometraggio di Maugg trasmette proprio questo. E non perché la storia raccontata sia talmente coinvolgente da farci vivere così tante emozioni. Al contrario, chiunque abbia avuto l’occasione di innamorarsi del cinema di Lang, ha qui l’impressione di trovarsi di fronte ad una vera e propria profanazione. Soprattutto se ci si accorge della furbizia con cui una simile operazione è stata portata a termine, dal momento che un biopic su una figura di tale portata di certo andrà ad attirare un buon numero di spettatori, cinefili e non.

Prima ancora di vedere qualsiasi immagine, ma limitandosi soltanto ad ascoltare – fissando lo schermo nero – il motivetto fischiettato continuamente da Peter Lorre in M, le speranze di assistere ad un lavoro come si deve sono ancora in piedi. Bastano pochi minuti, però, per rendersi conto di avere davanti un prodotto altamente manierista e pretenzioso, le cui scene di maggiore potenza sono proprio filmati di repertorio o spezzoni del film originale di Lang montati sulla paccottiglia piatta e dai ritmi discontinui girata da Maugg. Facile così. Soprattutto quando si vuol creare un finale d’effetto con Peter Lorre che recita il suo monologo durante l’ultima sequenza di M. Come già detto, però, al di là della riuscita messa in scena da un punto di vista prettamente tecnico, quel che maggiormente rende Fritz Lang un lungometraggio urticante è la grande presunzione alla base di tutto.

Partendo dal presupposto che cercare di comprendere una figura complessa come quella di Lang – soprattutto se la si osserva in luce di alcuni avvenimenti di natura oscura (primo fra tutti, il suicidio della giovane moglie)accaduti durante la gioventù – non è compito facile, nel caso in cui si volesse approfondire un particolare momento della vita del regista, ci sarebbe talmente tanto da raccontare che, al di là della forma di messa in scena preferita, di certo potrebbe venirne fuori qualcosa di interessante. Ecco, a quanto pare Gordian Maugg – probabilmente talmente ansioso di creare a tutti i costi qualcosa di “rivoluzionario” – è riuscito in tutto e per tutto a dare vita a quanto di peggio si possa produrre. Il Fritz Lang qui raccontato è un violento, cocainomane e maniaco del sesso. Sembra ossessionato da qualsiasi cosa, fatta eccezione per il cinema stesso, a cui non viene fatto il benché minimo riferimento durante tutto il lungometraggio. Il suo personaggio viene talmente caricato da essere trattato involontariamente – a un certo punto – quasi alla stregua di una macchietta e perdendo totalmente di credibilità. Da ricordare – a questo proposito – la vera e propria scena madre del film, ossia quando vediamo Lang camminare da solo nel bosco e, di punto in bianco, prendere a sparare in aria all’impazzata. A questo punto, al pubblico – già fortemente provato da oltre un’ora di visione – non resta che lasciarsi andare – più per inerzia che per altro – a qualche stanca risata.

Tanto rumore per nulla, in pratica. Eppure, anche volendosi solo soffermare sul periodo antecedente la lavorazione di M, ci sarebbe talmente tanto da raccontare che i 104 minuti qui impiegati sarebbero fin troppo pochi. Basti pensare soltanto alle tematiche del film stesso, alla forte critica nei confronti della società, alla denuncia di quel “nazismo latente” che avrebbe visto, da lì a pochi anni, la nascita della dittatura vera e propria. Invece no. Gordian Maugg non racconta nulla di tutto ciò, impegnato com’è a dare vita a tutti i costi ad un Fritz Lang disturbato e disturbante come quello presentatoci in questa sua opera. E pensare che, anche solo volendosi concentrare sull’uomo piuttosto che sul cineasta, un bel documentario in merito, ad esempio, avrebbe avuto di sicuro una migliore riuscita. Ma, si sa, la presunzione, spesso e volentieri, gioca dei gran brutti scherzi.

VOTO: 3/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA: NERUDA di Pablo Larrain

neruda-luis-gneccoTITOLO: NERUDA; REGIA: Pablo Larrain; genere: drammatico, biografico; anno: 2016; paese: Cile; cast: Luis Gnecco, Gael Garcìa Bernal, Mercedes Moran, Alfredo Castro; durata: 107′

Nelle sale italiane dal 13 ottobre, Neruda è il penultimo lungometraggio del grande cineasta cileno Pablo Larrain, presentato all’ultima edizione del Festival di Cannes, nella sezione Quinzaine des Réalisateurs.

Cile, 1948. La Guerra Fredda è arrivata anche qui. Dopo aver accusato il governo di tradire il Partito Comunista, il senatore e poeta Pablo Neruda viene messo sotto accusa dal Presidente Gonzalez Videla, il quale, a sua volta, incaricherà l’ispettore di polizia Oscar Pelluchonneau di arrestarlo. Neruda sarà, così, costretto a fuggire da suo paese insieme alla moglie. Durante la fuga, inoltre, scriverà la sua raccolta di poesie “Canto general” e si divertirà a lasciare indizi circa i suoi spostamenti a Pelluchonneau.

0-e1437860435563Che dire? Senza dubbio possiamo affermare a gran voce che Pablo Larrain è, al momento, uno degli autori più complessi, prolifici ed interessanti del panorama cinematografico mondiale. Uno dei pochi autori a mettere d’accordo tutti, pubblico e critica. E questo suo penultimo lavoro non è solo una conferma del suo talento, bensì quasi una summa di tutto quello che fino ad oggi è stata la sua poetica. Si tratta, infatti, di un’opera maestosa, talmente complessa e stratificata da distinguersi per grandezza dalla maggior parte dei prodotti attualmente in sala.

Ma, in sostanza, cos’è Neruda? Definirlo biopic potrebbe forse essere eccessivo, dal momento che lo stesso Larrain ha affermato di essersi voluto concentrare solo su un particolare aspetto della vita del poeta cileno, creando per l’occasione anche episodi e personaggi di fantasia. Egli ha definito il suo film, pertanto, un falso biopic. Definizione, questa, che cela un lavoro molto più minuzioso e complesso di quanto si possa immaginare.

maxresdefaultEppure non è il personaggio di Neruda la vera peculiarità del film. La vera chicca è, in realtà, la figura di Oscar Pelluchonneau. A lui spetta il compito – non facile – di tentare di comprendere la sfaccettata personalità del poeta. Lui è quella persona che lo odia e – allo stesso tempo – lo ammira profondamente. É con lui che Neruda si diverte a giocare, facendogli trovare indizi lungo il percorso e mandandolo, di conseguenza, su tutte le furie. É lui che – vittima di un forte desiderio di rivalsa dopo un’infanzia travagliata – cerca in tutti i modi di dimostrare – soprattutto a sé stesso – di essere un bravo poliziotto. É sua, infine, la voce narrante, costante dall’inizio alla fine, la quale – a sua volta – raggiunge il suo climax proprio nelle ultime scene. Voce narrante che mai come in questo caso risulta appropriata e che non fa altro che arricchire ulteriormente tutto il prodotto.

Un crescendo di emozioni. Un concentrato di ironia, dramma e poesia. Il tutto condito da una sapiente regia, da una fotografia dai colori tenui e retrò (tipica del cinema di Larrain), oltre che da un’appropriata e ben riuscita colonna sonora, realizzata da Federico Jusid. Neruda è, senza dubbio, quanto di meglio possiamo vedere al momento. Una vera perla che sembra a tutti gli effetti destinata ad entrare di diritto nella storia del cinema.

VOTO: 9/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – PRIMA DI LUNEDI’ di Massimo Cappelli

maxresdefault.jpgTITOLO: PRIMA DI LUNEDÌ; REGIA: Massimo Cappelli; genere: commedia; anno: 2016; paese: Italia; cast: Vincenzo Salemme, Fabio Troiano, Andrea Di Maria, Sandra Milo, Martina Stella; durata: 90′

Nelle sale italiane dal 22 settembre, Prima di lunedì è l’ultima commedia diretta dal regista Massimo Cappelli, con protagonisti Vincenzo Salemme, Fabio Troiano, Andrea Di Maria e Martina Stella.

Marco ed Andrea sono due amici inseparabili. Un giorno, di ritorno da lavoro, vengono tamponati con la macchina da Carlito, un boss legato a numerosi furti di opere d’arte. Al fine di risarcire il danno, i due saranno costretti – su incarico dell’uomo – a trasportare da Torino a Napoli un uovo di Pasqua molto speciale. Per portare a termine la missione hanno meno di ventiquattro ore. Ad accompagnarli nel loro viaggio ci saranno anche Penelope – sorella di Andrea, ex di Marco e, a sua volta, alla vigilia del matrimonio – e Chanel, simpatica ed attempata francese, conosciuta via chat da Andrea.

images-2Malgrado la confezione – che fa da subito pensare ad una delle tante commedie, tutte somiglianti tra di loro, in uscita nelle sale italiane – c’è da dire che Prima di lunedì, pur non rappresentando nulla di particolarmente innovativo all’interno del palinsesto, ha diversi spunti interessanti che, tutto sommato, fanno sì che il film stesso scorra senza particolari intoppi o luoghi comuni.

In primis, la scelta del cast rappresenta un’ottima soluzione. Sul talento di Vincenzo Salemme ormai non vi è alcun dubbio. E qui l’attore mette in scena un boss apparentemente spietato, ma dal cuore d’oro. Ok, nulla di nuovo, eppure Salemme fa sì che il suo personaggio sia uno dei protagonisti meglio caratterizzati del film. Ottime interpretazioni anche quelle di Fabio Troiano (che già in passato ha lavorato con Massimo Cappelli in Il giorno + bello), di Andrea Di Maria e di Sandra Milo (nel ruolo di Chanel). Poco convince, invece, diversamente rispetto ad altre sue interpretazioni, Martina Stella, la quale – in questo caso – ha eccessivamente caricato il proprio personaggio, rendendolo oltremodo rigido e poco in linea con ciò che si sta raccontando.

images-3Altra trovata interessante è rappresentata dal gran numero di citazioni cinematografiche presenti nel lungometraggio: non possiamo, ad esempio, non pensare a Fellini nella scena ambientata al circo, dove Sandra Milo fa da protagonista assoluta. Così come la trovata stessa dell’uovo di Pasqua è un buon esempio di McGuffin ottimamente sfruttato, al fine di dare il via a tutta la vicenda. Il risultato è una sorta di road movie garbato, anche se a tratti piuttosto scontato (soprattutto per quanto riguarda il finale), ma con gag tutto sommato gradevoli e mai eccessive.

Nulla di particolarmente nuovo, l’abbiamo detto. Eppure Prima di lunedì si è dimostrato comunque un prodotto onesto e senza troppe pretese. Gli amanti del genere apprezzeranno di sicuro.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA: RINO – LA MIA ASCIA DI GUERRA di Andrea Zambelli

Batteria.Rino_-1024x684TITOLO: RINO – LA MIA ASCIA DI GUERRA; REGIA: Andrea Zambelli; genere: documentario; anno: 2016; paese: Italia; durata: 55′

Nelle sale italiane dal 23 aprile, Rino – La mia ascia di guerra è l’ultimo lavoro del giovane regista bergamasco Andrea Zambelli.

Il documentario, attraverso interviste e filmati di repertorio, ci racconta l’interessante figura di Rino, ex combattente della Resistenza bergamasca: la sua partecipazione alle lotte partigiane, la sua passione per i filmati amatoriali ed il suo rapporto con Andrea – autore del documentario stesso – con il quale, nel corso degli anni, è nato un forte legame, come se i due fossero stati davvero nonno e nipote.

rino-fotoUn uomo coraggioso. Un grande affetto. La memoria. Il cinema e tutto il suo potenziale espressivo e comunicativo. Questo ultimo lavoro di Andrea Zambelli tratta tutto ciò. E lo fa in modo pulito, fortemente sentito, mai didascalico ed appassionante, lasciando intendere allo spettatore che la storia ed il personaggio qui raccontati hanno avuto una grande importanza prima di tutto nella sua vita, oltre che per il nostro paese.

Rino è un uomo ormai anziano, che lentamente ha perso la memoria. I suoi racconti circa le lotte partigiane a cui ha preso parte, però, sono stati filmati, nel corso degli anni, dal giovane Andrea, il quale ha iniziato questo progetto più di vent’anni fa – in accordo con lo stesso Rino, che, a sua volta, gli ha regalato la telecamera per le riprese – e che, finalmente, oggi trova una sua conclusione regalandoci una storia intensa ed attuale più che mai, testimonianza di una voglia di lottare che oggi sembra del tutto scomparsa.

Z-Archivio2Ed ecco che a questo punto entra in gioco il tema della memoria: la memoria di Rino, oggi andata perduta, assume qui un significato metaforico, diventando, così, la memoria di un popolo intero, che oggi sembra aver dimenticato quanto è accaduto negli scorsi decenni. Un altro importante testimone è, a questo punto, proprio il cinema: grazie alla ricca collezione di vhs e di interviste, è possibile oggi conoscere da vicino la storia di questo uomo che tanto ha fatto per il proprio paese. L’occhio della macchina da presa, la forte componente metacinematografica e l’enorme potenziale della settima arte diventano, dunque, attori principali in questo lavoro di Zambelli. Segno che l’enorme potenza del mezzo comunicativo – oggi purtroppo spesso sottovalutata – resta sempre viva più che mai. Emblematica, a questo proposito, la scena in cui il regista osserva l’enorme quantità di vhs appartenenti a Rino: preziosi frammenti di storia rimasti impressi su pellicola.

Rino – La mia ascia di guerra è tutto questo: un prodotto fortemente sentito, a tratti commovente, che merita di essere visto per conoscere da vicino uno degli eroi della nostra Resistenza e per non dimenticare una porzione di storia che tanta importanza ha avuto per il nostro paese.

VOTO: 7/10

Marina Pavido