LA RECENSIONE DI MARINA – PER MIO FIGLIO di Frédéric Mermoud

per-mio-figlio-660x330TITOLO: PER MIO FIGLIO; REGIA: Frédéric Mermoud; genere: thriller, drammatico; anno: 2016; paese: Francia, Svizzera; cast: Emmanuelle Devos, Nathalie Baye, David Clavel; durata: 90′

Nelle sale italiane dal 17 novembre, Per mio figlio è il secondo lungometraggio del giovane Frédéric Mermoud, presentato in anteprima all’ultima edizione del Festival di Locarno e tratto dal romanzo Moka di Tatiana De Rosnay.

Da quando Diane ha visto morire il suo unico figlio adolescente, investito da una macchina, non le è rimasto più nulla. L’unico suo scopo, ormai, è trovare l’automobilista pirata e vendicare il ragazzo. Grazie ad un investigatore privato, un giorno la donna scopre che i proprietari della macchina che ha ucciso suo figlio abitano ad Evian – sull’altra sponda del lago di Ginevra – e che quel giorno alla guida dell’auto c’era una donna bionda. A Diane, dunque, non resterà che partire sulle tracce degli assassini.

02Ad uno spettatore preparato ed esperto non sfuggirà, già dopo un primo, sommario sguardo, qualche rimando chabroliano non ufficialmente dichiarato, presente all’interno della trama stessa. Il problema è che quest’opera di Mermoud – al di là delle numerose similitudini dal punto di vista della storia stessa – di punti in comune con la cinematografia e le tematiche di Claude Chabrol ha ben poco. Di fatto, se vogliamo, Per mio figlio di potenzialità ne ha non poche, date le mille sfaccettature dell’animo umano ed il sempre attuale tema della giustizia personale. Peccato che nessuna di tali potenzialità è stata, qui, sufficientemente sfruttata, dal momento che Mermoud ha preferito donare al tutto un tono pericolosamente romanzesco che riesce a rendere il prodotto finale privo di una propria, marcata identità, nonché poco credibile fin dall’inizio. A partire dai dialoghi, eccessivamente macchinosi che danno quasi l’impressione di essere stati incollati in determinati punti dello script, senza mai del tutto amalgamarsi ad esso, però. Ne sono un esempio le scene che vedono protagoniste la Baye – titolare di una profumeria di Evian e proprietaria dell’auto che ha ucciso il figlio di Diane – ed Emmanuelle Devos, nel ruolo della protagonista. Triste figura, inoltre, quella del compagno della Baye: negativa e viscida al punto giusto, ma priva di quello spessore e di quella complessità che l’avrebbero resa davvero odiosa, oltre che – come spesso accade per gli antagonisti – decisamente interessante.

moka_4Le poche note positive di questo secondo lungometraggio di Mermoud sono, come si può ben intuire, le prestazioni attoriali delle brave Emmanuelle Devos e Nathalie Baye, le quali, seppur qui mal sfruttate, sanno sempre dar vita a personaggi complessi senza mai andare sopra le righe. E poi, non dimentichiamo i bellissimi paesaggi: il lago di Ginevra, i piccoli villaggi sulle sue sponde e le città di Losanna e di Evian. Ottime location che, solo al guardarle, sanno regalarci, in qualche modo, un certo appagamento.

Peccato che Per mio figlio abbia, di fatto, così pochi spunti di interesse. Eppure, come già è stato detto all’inizio, di potenzialità ne ha avute non poche. Con le scelte registiche e stilistiche qui effettuate, però, il rischio è quello di finire ben presto nel dimenticatoio, insieme ai numerosi lungometraggi del genere che – con la pretesa di essere il thriller del secolo – alla fine si sono rivelati soltanto enormi sprechi di tempo e di denaro.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – LA RAGAZZA DEL TRENO di Tate Taylor

schermata-2016-04-20-alle-13-07-02TITOLO: LA RAGAZZA DEL TRENO; REGIA: Tate Taylor; genere: thriller; anno: 2016; paese: USA; cast: Emily Blunt, Haley Bennett, Rebecca Ferguson; durata: 111′

Nelle sale italiane dal 3 novembre, La ragazza del treno – tratto dall’omonimo romanzo di Paula Hawkins – è l’ultimo lungometraggio diretto da Tate Taylor, che già si è rivelato apprezzato regista nel recente The Help.

Rachel è una giovane donna che, ogni mattina, si reca in treno a New York per lavoro. Devastata dal recente divorzio, è solita osservare dal finestrino una coppia apparentemente felice. Tutto cambia quando, una mattina, vede qualcosa che la sconvolge. Da lì in poi verrà coinvolta in un caso misterioso che, ben presto, si rivelerà molto più grande di lei.

the-girl-on-the-train-2016-movie-still-2Un film sul vedere, questo di Tate Taylor. Un film in cui osservare e venire osservati porta ad importanti conseguenze. Dagli sguardi, infatti, di dipana la vicenda che vede implicate tre giovani donne, le quali ci vengono presentate inizialmente quasi come delle estranee, ognuna con la propria vita, ma che, in realtà, hanno molte più cose che le accomunano di quanto si possa pensare. Nulla è come sembra in apparenza, in La ragazza del treno i ruoli si ribaltano continuamente.

Tema centrale: la donna. La donna forte e fragile allo stesso tempo. La moglie, l’amante, la madre. E le violenze contro di lei. Lo script parte inizialmente da un’idea brillante ed accattivante, ma, purtroppo, peccando forse un po’ troppo di presunzione e di prevedibilità, non riesce a mantenere la tensione ed i ritmi giusti fino alla fine. Peccato. Soprattutto perché il lungometraggio di Taylor ha fin dall’inizio la capacità di catalizzare l’attenzione dello spettatore rendendo quest’ultimo a sua volta partecipe osservatore, analogamente a quanto accade alla protagonista.

Girl on a Train, TheVere peculiarità del lungometraggio sono le ambientazioni – una periferia americana in cui ci si sente terribilmente soli che si contrappone a brevi scorci della vita frenetica nella vicina metropoli – e, soprattutto, la grande prova attoriale regalataci da Emily Blunt, nel ruolo, appunto, della protagonista. Pur dando vita ad una donna alcolizzata, sofferente e con importanti vuoti di memoria, la Blunt è riuscita a mantenere la tensione fino alla fine, evitando il pericoloso errore di andare sopra le righe.

Malgrado le pecche della sceneggiatura e le potenzialità non sfruttate a dovere, non possiamo negare di trovarci davanti ad un thriller tutto sommato godibile e con una buona regia. Un prodotto che, malgrado le intenzioni iniziali, forse resterà in mente soprattutto per le tre donne protagoniste e per la loro buona caratterizzazione. Cosa, questa, non da poco.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – LETTERE DA BERLINO di Vincent Perez

letteredaberlino3-maxw-654TITOLO: LETTERE DA BERLINO; REGIA: Vincent Perez; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Germania; cast: Emma Thompson, Brendan Gleeson, Daniel Brühl; durata: 97′

Nelle sale italiane dal 13 ottobre, Lettere da Berlino è l’ultimo lungometraggio diretto da Vincent Perez, tratto dal romanzo Ognuno muore solo di Hans Fallada ed ispirato ad una storia realmente accaduta.

Berlino, 1940. Otto ed Anna Quangel, due onesti cittadini appartenenti alla classe operaia, ricevono la triste notizia della morte, in guerra, del loro unico figlio, arruolatosi con l’esercito nazista. Sconvolti dalla perdita, i due inizieranno un lungo atto di rivolta diffondendo per tutta la città una serie di cartoline anonime, in cui vengono denunciate le brutture della dittatura hitleriana, e rischiando, così, di essere scoperti e giustiziati.

LETTERE DA BERLINO, RESISTENZA ALL'ORRORE NAZISTA

Di lungometraggi ambientati durante il periodo nazista, si sa, ne sono stati prodotti molti fino ad oggi, alcuni dei quali sono dei veri e propri capolavori. Eppure, nonostante tutto, sembra che le storie da raccontare non siano ancora finite. E, di conseguenza, anche i film da girare siano ancora parecchi, i quali, a loro volta, possono rivelarsi anche particolarmente interessanti. Lettere da Berlino – malgrado la pessima traduzione del titolo originale – ne è un esempio. La storia di Anna ed Otto rapisce fin da subito lo spettatore – merito anche di una buona sceneggiatura, oltre che delle straordinarie performances attoriali di Emma Thompson e di Brendan Gleeson – ed ecco che ci si ritrova catapultati in un mondo che, anche non avendolo vissuto in prima persona, ci è ormai familiare. Merito sì dell’ambientazione, come anche di una fotografia che ci mostra una Berlino quantomai tetra e grigia, praticamente quasi morta.

lettere-da-berlino-4Vincent Perez, dal canto suo, si è dimostrato un regista attento e particolarmente sensibile all’argomento. Lo dimostrano, ad esempio, intensi primi piani e dettagli di mani ed oggetti personali, osservati con un occhio che non è mai troppo invadente. E, inoltre, malgrado Perez non sia di origini tedesche, troviamo nel prodotto anche un certo tocco espressionista, perfettamente in linea con ciò che si sta raccontando: luci cupe, ambienti angusti e le scale. Scale, scale ed ancora scale. Non possiamo, a questo punto, non pensare – osservando le numerose inquadrature dall’alto della tromba delle scale all’interno del palazzo dei due protagonisti – al capolavoro di Fritz Lang M- Il mostro di Düsseldorf.

C’è ancora molto da raccontare, dunque, sul periodo nazista? Pare proprio di sì. E, a questo proposito, Lettere da Berlino si è rivelato un lungometraggio particolarmente curato e ben riuscito. Che, di certo, riuscirà ad appassionare e ad emozionare molta gente.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – ELVIS&NIXON di Liza Johnson

ap_893805559066.jpgTITOLO: ELVIS&NIXON; REGIA: Liza Johnson; genere: commedia; anno: 2016; paese: USA; cast: Michael Shannon, Kevin Spacey, Johnny Knoxville; durata: 86′

Nelle sale italiane dal 22 settembre, Elvis&Nixon è l’ultimo lungometraggio diretto dalla regista Liza Johnson.

Washington, dicembre 1970. La celebre rockstar Elvis Presley decide di inviare una lettera al Presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, proponendosi come “agente segreto”, al fine di collaborare con il governo americano e di riportare i giovani “sulla retta via”. Incontrare il Presidente, però, sarà più complicato di quanto si pensi, soprattutto perché è lo stesso Nixon ad essere titubante circa il loro incontro. A supportare Elvis in questa sua missione ci saranno il suo storico assistente Jerry Schilling ed il suo amico Sonny.

imagesQuesto lungometraggio della Johnson (scritto da Joey ed Hanala Sagal) cattura fin da subito l’attenzione, in quanto – dal momento che l’evento raccontato è in linea di massima sconosciuto ai più – ci si chiede in che modo due personalità apparentemente così diverse siano bene o male riuscite a trovare un punto di incontro. Nonostante l’idea di partenza vincente, però, purtroppo il prodotto – nel corso del suo svolgimento – non sempre riesce a mantenere toni all’altezza della situazione. Ma procediamo per gradi.

Ovviamente la parte più difficile della messa in scena sta proprio nel ricreare sullo schermo due grandi personalità come Elvis e Nixon. A questo fine sono stati scelti due veri e propri mostri sacri del cinema statunitense: Michael Shannon (nel ruolo di Elvis) e Kevin Spacey (Richard Nixon), i quali sono riusciti – grazie anche ad un importante lavoro di preparazione in merito – a mettere in scena personaggi complessi e mai scontati, in particolare per quanto riguarda Elvis Presley, qui finalmente quasi “inedito” agli occhi del pubblico e, soprattutto, scevro da qualsiasi luogo comune e da qualsiasi stereotipo caricaturale, come spesso potrebbe pericolosamente accadere. La scena finale dell’incontro tra i due è – a questo proposito – decisamente il momento più alto di tutto il film.

images-1Ma allora cos’è che, di questo lungometraggio della Johnson, proprio non convince? Forse la pecca più grande sta proprio nello sviluppo delle vicende precedenti l’incontro e nell’attesa di Elvis di avere un qualche responso dalla Casa Bianca. Talvolta l’andamento narrativo tende un po’ a ripetersi, facendo sì che nello spettatore non ci sia la tensione giusta prima del climax finale. Commedia gradevole, quello sì. Ma – se non fosse per il tema trattato – probabilmente sarebbe uno dei tanti lavori destinati a finire a breve termine nel dimenticatoio.

In poche parole, confezione interessante, per un prodotto che – al suo interno – si rivela, a tratti, un po’ deludente, salvo per qualche gag particolarmente indovinata che sta a costellare il tutto. Eppure, un buon motivo per andare a vedere Elvis&Nixon c’è: la presenza di due grandi interpreti e la conseguente caratterizzazione di due importanti personaggi. Oltre, ovviamente, ad un certo, nostalgico ricordo di una delle personalità più influenti nel panorama musicale mondiale. E questo sicuramente non è poco.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA: NEWS FROM PLANET MARS di Dominik Moll

1455786136066_0570x0399_1455786189540

TITOLO: NEWS FROM PLANET MARS; REGIA: Dominik Moll; genere: commedia; anno: 2016; paese: Francia; cast: François Damiens, Vincent Macaigne, Veerle Baetens; durata: 101′

Presentato in anteprima nell’ambito della rassegna Rendez-vous con il Nuovo Cinema Francese, News from Planet Mars è una brillante commedia diretta dal regista Dominik Moll.

Philippe Mars è un uomo di 49 anni, divorziato, con due figli adolescenti e che lavora come ingegnere informatico in una piccola azienda. Per lui è fondamentale avere sotto controllo qualsiasi cosa faccia parte della sua quotidianità. Un giorno, però, un suo ex collega fuggito dall’ospedale psichiatrico, bussa alla sua porta chiedendogli ospitalità. A lui si uniranno i suoi stessi figli – in quanto la madre è via per lavoro – e Chloé, anche lei ex paziente dell’ospedale psichiatrico.

vincent-macaigneQuesto ultimo lavoro di Moll – che già in passato si è fatto notare per Harry, un amico vero e Il monaco – è un prodotto esilarante, con trovate interessanti – anche se, a tratti, un po’ telefonate – che tratta il tema del rapporto padre-figli, dell’impegno sociale e dell’importanza dell’amicizia nella vita di ognuno di noi. Nulla di particolarmente nuovo – sia ben chiaro – ma comunque trattato in modo pulito e curato nel suo genere. Vediamo perché.

Philippe è un uomo comune, con una vita monotona che da tempo ha rinunciato a lottare per i propri ideali e che, stancamente, si trascina nel tran tran di tutti i giorni. Quello che gli capita è un vero e proprio tornado, in grado di dare una scossa definitiva alla sua esistenza e di rivoluzionare quella che, fino a quel momento, per lui era stata una vita quasi perfetta.

267263194_B978063794Z.1_20160309081759_000_G5A6BRV6G.1-0Una gag dietro l’altra, una serie di situazioni paradossali non danno allo spettatore un attimo di tregua, per quanto riguarda la notevole comicità del prodotto. Comicità, questa, non sempre delicata, ma decisamente sottile, in piena linea con lo stile della commedia francese contemporanea. Alcune trovate possono risultare decisamente banali o, addirittura, forzate (ad esempio, quando il protagonista lancia giù dal ponte il cagnolino di sua sorella), eppure il lungometraggio di Moll riesce nel suo intento di divertire il pubblico e di comunicare il messaggio per cui è stato inizialmente pensato. Scopo, questo, che, come abbiamo spesso avuto modo di vedere, difficilmente viene raggiunto.

des-nouvelles-de-la-planete-marsLa vera peculiarità del film, però, è l’ottima scelta del cast: François Damiens, innanzitutto, nel ruolo di Philippe, ma, soprattutto, è Vincent Macaigne – che interpreta la parte del collega svitato – a regalarci un’ottima prova attoriale e, quasi, ad oscurare il protagonista stesso. E se lo spettatore riesce ad empatizzare fin da subito con loro, ovviamente, è merito anche di un’ottima caratterizzazione dei personaggi, con tutti i loro problemi e le loro fobie.

In conclusione, News from Planet Mars è un prodotto gradevole e ben realizzato (a tratti anche un po’ furbetto), ma di certo non possiamo urlare al capolavoro. Seppur mediocre, tuttavia, riesce a regalarci un’ora e mezza di sane e genuine risate. E di questo, si sa, c’è sempre bisogno.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA: IL FIGLIO DI SAUL di Laszlo Nemes

Nelle sale italiane dal 21 gennaio, “Il figlio di Saul”, lungometraggio d’esordio del cineasta ungherese Laszlo Nemes, storico aiuto regia del celebre Béla Tarr, ha riscosso grande successo durante l’ultima edizione del Festival di Cannes – dove ha vinto il Gran Premio della Giuria – e, attualmente, è nominato al Premio Oscar al Miglior Film Straniero.

1200x630_307863_il-figlio-di-saul-rivelazione-a-canneSaul Auslaender è un ebreo internato nel campo di concentramento di Auschwitz. Egli, inoltre, fa parte del Sonderkommando, un gruppo di ebrei (detti anche Geheimnistraeger, portatori di segreti) con il compito di fare da assistenti ai nazisti durante lo sterminio di altri prigionieri e destinati, a loro volta, ad essere giustiziati dopo qualche mese di lavoro. Un giorno, nel liberare una camera a gas dai cadaveri, Saul vede un ragazzino morente, e si convince che si tratti di suo figlio. Trovare a tutti i costi un rabbino per dare al ragazzo una degna sepoltura sarà, da qui in poi, l’unica ragione di vita del protagonista.

il-figlio-di-saul-3Anche un occhio meno attento non può fare a meno di notare, fin dai primi minuti, un particolarissimo uso della macchina da presa: quest’ultima non abbandona mai il protagonista. Il risultato è un susseguirsi di primi, a volte primissimi piani, oltre a inquadrature di quinta del personaggio stesso e qualche rara soggettiva. Le inquadrature sono strette, addirittura claustrofobiche, lo spettatore è costretto a muoversi in uno spazio limitato, è quasi cieco nei confronti di ciò che avviene intorno al personaggio principale. Quello che accade nel lungometraggio lo si può capire soltanto attraverso la percezione del protagonista stesso.

Anche se tutto ciò può inizialmente sembrare un semplice virtuosismo registico, è solo poco dopo la metà del film che questa scelta di regia trova una propria, sensata giustificazione. Il risultato è un film fortemente intimista, che riesce a raccontare con umanità, ma anche con crudo realismo le mille sfaccettature di una personalità privata del proprio diritto alla vita e che soltanto appigliandosi a qualcosa che, in qualche modo, sembri toccarlo nell’intimo, trova una ragione stessa di vivere. Ed ecco che quello che Saul crede essere suo figlio diventa trasfigurazione di Saul stesso, di quello che era, di quello che non è più, di quello che merita almeno una fine dignitosa, in quanto essere umano.

20150416saul-fia-cannes-2015Determinate scelte registiche, inoltre, richiedono, inevitabilmente, una prova attoriale di gran lunga al di sopra degli standard. Ed è proprio qui che abbiamo avuto una rivelazione: il protagonista, il poeta ungherese ma statunitense di adozione Geza Rohrig, intenso e mai sopra le righe, pur trovandosi alla sua prima esperienza come attore, riesce a rendere alla perfezione le mille sfumature di una personalità tormentata e controversa come quella di Saul Auslaender.

saulVolendo fare un passo indietro e tornare alle prime esperienze di Nemes sul set, è encomiabile come il regista non abbia, volutamente o involontariamente, tentato di emulare il collega Béla Tarr, a fianco del quale ha lavorato per anni. E poiché lo stesso Tarr è considerato un cineasta “pericoloso” per tutti i giovani registi/cinefili che muovono i primi passi dietro la macchina da presa – essendo il suo stile particolarmente personale ed efficace – il fatto che il suo storico aiuto sia riuscito ad evitare l’errore di girare il film come se fosse stato proprio il suo “maestro” ad averlo diretto, dimostra la sua piena comprensione dell’arte cinematografica. Sarà anche questo merito dello stesso Béla Tarr? Lo scopriremo, forse, con i prossimi lungometraggi.

“Il figlio di Saul”, attualmente in sala e candidato all’Oscar al Miglior Film Straniero, è una vera e propria perla nel panorama cinematografico attuale. Un lungometraggio che colpisce e, allo stesso tempo, lascia allo spettatore parecchia autonomia nel volerlo interpretare. Privilegio, questo, che raramente ci viene regalato.

VOTO: 8/10

Marina Pavido