VENEZIA 74 – ANGELS WEAR WHITE di Vivian Qu

angels_wear_white_immagineTITOLO: ANGELS WEAR WHITE; REGIA: Vivian Qu; genere: drammatico; paese: Cina; anno: 2017; cast: Wen Qi, Zhou Meijun, Shi Ke; durata: 107′

Presentato in concorso alla 74° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, Angels wear white è l’opera seconda della giovane regista cinese Vivian Qu.

Mia e Wen sono due ragazzine di sedici e dodici anni, ognuna delle quali è stata costretta a diventare adulta prima del tempo. Mia è orfana, non conosce con esattezza la propria data di nascita e lavora come donna delle pulizie e receptionist presso un hotel in riva al mare. La sua vita cambierà nel momento in cui, da uno dei monitor di sorveglianza, assisterà all’aggressione di due bambine da parte del direttore dell’hotel. Una di queste due bambine è la piccola Wen.

Due storie che vanno in parallelo, due ragazzine costrette a vivere un’età non loro, il forte desiderio di riappropriarsi delle proprie vite. E di non smettere mai di rincorrere i propri sogni. Non sono storie facili da digerire, quelle qui messe in scena da Vivian Qu. Eppure, malgrado la durezza degli eventi, malgrado la drammaticità e la portata dei temi trattati, notiamo – perfettamente in linea con la poetica orientale – una sorta di toccante, ma mai banale o eccessivo, lirismo di fondo. Ed ecco che la macchina da presa, dallo sguardo discreto ed affettuoso, non si allontana quasi mai dalle due giovani protagoniste, restando in una dimensione narrativa interna alle loro percezioni degli eventi: sono rari i momenti – uno tra questi, il dialogo tra i genitori di Wen – in cui nessuna delle due ragazze è presente in scena. Particolarmente giusti risultano, dunque, gli intensi primi piani o i campi medi che ci mostrano le due ragazze vagare sulla spiaggia apparentemente senza meta, oppure ammirare, dal basso verso l’alto, l’immensa statua di Marilyn Monroe, nelle vicinanze dell’hotel. Statua che sta a simboleggiare, di fatto, l’infanzia, i sogni, un futuro roseo. In poche parole, quella dimensione ideale che ogni bambino dovrebbe vivere. E che va difesa a tutti i costi.

Al di là dei temi universali trattati, però, Angels wear white si classifica come fedele ritratto della contemporaneità soprattutto per l’importante – ma mai ingombrante – presenza delle tecnologie all’interno della narrazione: è con il cellulare che Mia, in apertura del film, fotografa la statua di Marilyn; è attraverso un monitor che la stessa si accorge dell’aggressione subita dalle due bambine. L’atto del vedere attraverso uno schermo, grande o piccolo che sia, viene qui osservato con profonda consapevolezza, esattamente come la postmodernità vuole che venga fatto.

Al di là della buona riuscita del lungometraggio, al di là dell’impatto che esso può avere sul pubblico, però, basterebbe la scena finale – in cui vediamo Mia correre in motorino e venire sorpassata, in autostrada, da un furgone che trasporta l’ormai danneggiata statua di Marilyn – a rendere Angels wear white un film indimenticabile. Una scena che è soprattutto un altro dei tanti regali che il Cinema ha voluto farci. E che custodiremo gelosamente dentro di noi.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – LA RAGAZZA DEL TRENO di Tate Taylor

schermata-2016-04-20-alle-13-07-02TITOLO: LA RAGAZZA DEL TRENO; REGIA: Tate Taylor; genere: thriller; anno: 2016; paese: USA; cast: Emily Blunt, Haley Bennett, Rebecca Ferguson; durata: 111′

Nelle sale italiane dal 3 novembre, La ragazza del treno – tratto dall’omonimo romanzo di Paula Hawkins – è l’ultimo lungometraggio diretto da Tate Taylor, che già si è rivelato apprezzato regista nel recente The Help.

Rachel è una giovane donna che, ogni mattina, si reca in treno a New York per lavoro. Devastata dal recente divorzio, è solita osservare dal finestrino una coppia apparentemente felice. Tutto cambia quando, una mattina, vede qualcosa che la sconvolge. Da lì in poi verrà coinvolta in un caso misterioso che, ben presto, si rivelerà molto più grande di lei.

the-girl-on-the-train-2016-movie-still-2Un film sul vedere, questo di Tate Taylor. Un film in cui osservare e venire osservati porta ad importanti conseguenze. Dagli sguardi, infatti, di dipana la vicenda che vede implicate tre giovani donne, le quali ci vengono presentate inizialmente quasi come delle estranee, ognuna con la propria vita, ma che, in realtà, hanno molte più cose che le accomunano di quanto si possa pensare. Nulla è come sembra in apparenza, in La ragazza del treno i ruoli si ribaltano continuamente.

Tema centrale: la donna. La donna forte e fragile allo stesso tempo. La moglie, l’amante, la madre. E le violenze contro di lei. Lo script parte inizialmente da un’idea brillante ed accattivante, ma, purtroppo, peccando forse un po’ troppo di presunzione e di prevedibilità, non riesce a mantenere la tensione ed i ritmi giusti fino alla fine. Peccato. Soprattutto perché il lungometraggio di Taylor ha fin dall’inizio la capacità di catalizzare l’attenzione dello spettatore rendendo quest’ultimo a sua volta partecipe osservatore, analogamente a quanto accade alla protagonista.

Girl on a Train, TheVere peculiarità del lungometraggio sono le ambientazioni – una periferia americana in cui ci si sente terribilmente soli che si contrappone a brevi scorci della vita frenetica nella vicina metropoli – e, soprattutto, la grande prova attoriale regalataci da Emily Blunt, nel ruolo, appunto, della protagonista. Pur dando vita ad una donna alcolizzata, sofferente e con importanti vuoti di memoria, la Blunt è riuscita a mantenere la tensione fino alla fine, evitando il pericoloso errore di andare sopra le righe.

Malgrado le pecche della sceneggiatura e le potenzialità non sfruttate a dovere, non possiamo negare di trovarci davanti ad un thriller tutto sommato godibile e con una buona regia. Un prodotto che, malgrado le intenzioni iniziali, forse resterà in mente soprattutto per le tre donne protagoniste e per la loro buona caratterizzazione. Cosa, questa, non da poco.

VOTO: 7/10

Marina Pavido