LA RECENSIONE – LA RAGAZZA DEI TULIPANI di Justin Chadwich

la-ragazza-dei-tulipani-1-696x298.jpg.pagespeed.ce.R6eglcX7d5TITOLO: LA RAGAZZA DEI TULIPANI; REGIA: Justin Chawich; genere: drammatico; paese: USA; anno: 2018; cast: Alicia Vikander, Christoph Waltz, Judy Dench; durata: 105′

Nelle sale italiane dal 6 settembre, La Ragazza dei Tulipani è l’ultimo lungometraggio del regista inglese Justin Chadwich, tratto dal best seller Tulip Fever, di Debora Moggach.

Amsterdam, 1636. La giovane Orfana Sophia accetta di sposare il ricco mercante Cornelis Sandvoort, il quale, a sua volta, desidera a tutti i costi un erede. Al fine di rendere felice la moglie, l’uomo assolderà il pittore Jan Van Loos, commissionandogli un ritratto. tra l’artista e la giovane Sophia, però, scoppierà ben presto la passione. A seguito di ciò, verranno ideati una serie di complessi inganni che cambieranno le vite di ognuno di loro.

Un importante cast (Alicia Vikander in primis, nel ruolo della protagonista, ma anche Christoph Waltz e, non per ultima, la grande Judy Dench) per un’importante trasposizione, sulla quale sembra si sia puntato parecchio. E, di fatto, i buoni risultati ci sono: non è solo uno script tutto sommato pulito (all’interno del quale, tuttavia, si sarebbe necessitato di una caratterizzazione più esaustiva del personaggio di Cornelis) a far si che il risultato finale sia complessivamente convincente, ma soprattutto la ricostruzione fedele degli ambienti, grazie alla quale possiamo ammirare una Amsterdam dai mille volti, dove forti sono le tradizioni e dove il dislivello tra ricchi e poveri è purtroppo troppo marcato.

Ed ecco che, di fronte a ciò, la passione stessa tra la protagonista e il giovane pittore sembra passare quasi in secondo piano, troppo banale, già vista troppe volte e, soprattutto, penalizzata dal fatto che il pubblico, alla fin fine, non riesce realmente a empatizzare con nessuno dei due personaggi.

Ciò che rappresenta il vero punto di forza di un lungometraggio come La Ragazza dei Tulipani (oltre a ritmi sorprendentemente coinvolgenti e, di quando in quando, a un interessante utilizzo del montaggio alternato) è, dunque, proprio il suggestivo ritratto di un’epoca: una porzione di storia europea che ha inevitabilmente influenzato il destino di una nazione come l’Olanda e che, magari, avrebbe potuto essere ulteriormente approfondita proprio nella descrizione di avvenimenti storici esterni (ma non troppo) alle vicende dei personaggi stessi.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – L’ARTE DELLA FUGA di Brice Cauvin

l'arte della fugaTITOLO: L’ARTE DELLA FUGA; REGIA: Brice Cauvin; genere: commedia; paese: Francia; anno: 2018; cast: Laurent Lafitte, Agnès Jaoui, Nicolas Bedos; durata: 98′

Nelle sale italiane dal 31 maggio, L’Arte della Fuga è l’ultimo lungometraggio del regista francese Brice Cauvin, tratto dall’omonimo romanzo di Stephen McCauley.

Ci sono tre fratelli: Antoine, Louis e Gérard. Antoine ha da circa dieci anni una relazione con Adar, uno psicologo che sembra conoscerlo meglio di chiunque altro. Louis è in procinto di sposare – spinto soprattutto dalla famiglia – Julie, la sua fidanzata storica, ma ha da tempo una relazione clandestina con Mathilde. Gérard, infine, si è da poco lasciato con la moglie Hélène – con la quale tenta di tornare disperatamente – e, dopo essere rimasto disoccupato, è tornato a lavorare nel negozio di abbigliamento dei suoi genitori. Dei tre è indubbiamente Antoine colui che sembra avere una situazione più stabile. E se, invece, il suo eccessivo preoccuparsi delle vite sentimentali dei fratelli fosse, in realtà, solo un tentativo di fuggire dai suoi stessi problemi? Tre fratelli, tre singole esistenze costellate da amori e delusioni, insieme a un infinito numero di responsabilità dalle quali fuggire.

Un romanzo americano per una trasposizione cinematografica francese, dunque. Ed è probabilmente anche per questo che un lavoro come L’Arte della Fuga sembra aver attinto a piene mani da diverse cinematografie e da diverse scuole, frutto di una positiva contaminazione di culture e modi di intendere la Settima Arte. Se pensiamo, infatti, al gran numero di commedie francesi che vengono prodotte ogni anno (e che, salvo rare eccezioni, spesso sembrano tutte confondersi e somigliarsi tra loro), in questo lavoro di Cauvin possiamo solo riconoscere la delicatezza e una certa eleganza di fondo (che, diciamolo, non guastano mai). Per il resto, per quanto riguarda sia la messa in scena, sia la caratterizzazione dei personaggi, sia persino il peso che i dialoghi hanno, possiamo dirci di avere di fronte un prodotto che (quasi) in tutto e per tutto sta a ricalcare il cinema statunitense e, in particolare il cinema del maestro Woody Allen. Al via, dunque, momenti frenetici, corse da una parte all’altra della città, personaggi stressati dal lavoro (o dalla mancanza di esso) e poi pranzi, cene e viaggi, viaggi e ancora viaggi. Una messa in scena dinamica che – forte di uno script robusto – sa ben trattare ogni singolo personaggio, caratterizzandolo (in poco più di un’ora e mezza di film) a 360°.

A proposito dei personaggi, bisogna fare delle considerazioni a parte. Presi come sono dai loro problemi, dalle loro nevrosi e dalle loro vite frenetiche, indubbiamente ci viene da pensare a figure tipicamente alleniane. Se a tutto ciò aggiungiamo anche un continuo parlare e, di conseguenza, un copioso utilizzo dei dialoghi (cosa assolutamente non facile da gestire, ma qui trattata in maniera egregia), ecco che le influenze del caro vecchio Woody si fanno sentire forti più che mai. Eppure, a ben guardare, un’altra importante figura che ha influenzato Brice Cauvin nella caratterizzazione dei suoi personaggi (e, in particolare, della frizzante Ariel, collega di Antoine) c’è eccome. Si tratta, come ben si può immaginare, di Pedro Almodovar (l’Almodovar del primo periodo, per intenderci), dal quale il nostro autore riprende principalmente tutto quell’essere costantemente sotto pressione, praticamente sempre “sull’orlo di una crisi di nervi”, come gran parte dei personaggi almodovariani sono stati a loro tempo.

Girato in parte a Parigi, in parte a Bruxelles, non possiamo non notare in L’Arte della Fuga un’estrema cura e un’attenzione nel rappresentare diversi quartieri delle città, con atmosfere calde e accoglienti e con le loro vite sì frenetiche, ma che, al contrario delle turbe interiori dei personaggi, sembrano comunicarci piacevoli sensazioni di pace. Merito, indubbiamente, delle lunghe passeggiate nei parchi o lungo i viali alberati, o anche della presenza – mai “ingombrante”, ma piuttosto marginale – di importanti monumenti. Le città e, di conseguenza, la vita all’interno di esse, vengono messe in scena da Cauvin con lo stesso amore con cui il già citato Woody Allen ci ha mostrato a suo tempo le sue amate New York e Parigi.

Un lavoro, questo di Cauvin, molto più complesso e raffinato di quanto possa inizialmente sembrare, dunque. Un lungometraggio che, forte di questo suo respiro internazionale, si rivela degna trasposizione di un romanzo che già a suo tempo ha saputo conquistare un gran numero di lettori.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – RICOMINCIO DA NOI di Richard Locraine

ricomincio da noiTITOLO: RICOMINCIO DA NOI; REGIA: Richard Locraine; genere: commedia; paese: Gran Bretagna; anno: 2017; cast: Imelda Staunton, Timothy Spall, Celia Imrie; durata: 111′

Nelle sale italiane dall’8 marzo, Ricomincio da noi è una gradevole commedia diretta dall’inglese Richard Locraine.

Sandra, non più giovane, scopre che suo marito la tradisce da tempo con una presunta amica. decisa a lasciarlo, la donna si trasferirà a Londra a casa della sorella Bif, che non vede da molti anni. Bif, molto diversa da lei, è decisa a godersi la vecchiaia e frequenta un corso di ballo e numerosi amici. Sarà accanto a lei che anche Sandra, finalmente, imparerà a prendere il controllo della propria vita e a capire ciò che desidera realmente.

Malgrado il tema non troppo nuovo, malgrado anche una pericolosa prevedibilità, questo ultimo lavoro di Locraine – in uscita, non a caso, il giorno della Festa della Donna – riesce a classificarsi come una gradevole commediola senza troppe pretese, che ad uno smorzatissimo English humour ben sa accostare le atmosfere di una Londra periferica e vivace che si contrappongono ad un’aristocratica e ingessata vita all’interno di una villa oltremodo altolocata.

Il resto viene da sé, seguendo un copione più e più volte letto, ma che, tutto sommato, sembra sempre funzionare. Almeno quando si tratta di intrattenere il pubblico per poco meno di due ore. Se, però, una regia pulita e priva di inutili fronzoli si è rivelata particolarmente azzeccata a mettere in scena la storia di Sandra, ancor più incisive sono state le performance degli attori protagonisti (la scuola inglese, si sa, sforna sempre grandi talenti, d’altronde), quali Imelda Staunton, nel ruolo della protagonista, e soprattutto lui, il grande Timothy Spall, vero fiore all’occhiello di un cast ben amalgamato che, sapientemente diretto da Locraine, ha saputo fare il proprio lavoro.

poco male se, dunque, con il passare del tempo, un prodotto come Ricomincio da noi finirà per confondersi con le numerose commedie che tanto gli somigliano. Almeno, senza cercare di apparire più di quello che è, sa intrattenere, divertire e anche commuovere, senza mai apparire stucchevole. E questa, se permettete, non è roba da poco.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – CINQUANTA SFUMATURE DI ROSSO di James Foley

50 sfumature di rossoTITOLO: CINQUANTA SFUMATURE DI ROSSO; REGIA: James Foley; genere: drammatico; paese: USA; anno: 2017; cast: Dakota Johnson, Jamie Dornan, Rita Ora; durata: 101′

Nelle sale italiane dall’8 febbraio, Cinquanta sfumature di rosso è il capitolo conclusivo della fortunata saga cinematografica tratta dall’omonima trilogia erotica di E. L. James e diretto da James Foley.

Christian e Ana finalmente si sposano. Durante la loro luna di miele, però, l’uomo viene avvisato dalle sue guardie del corpo che qualcuno ha tentato di sabotare uno dei suoi uffici. Il malvivente, in realtà, altri non è che l’ex datore di lavoro di Ana, geloso di Christian per avergli rubato la carriera e la donna. La coppia, tra incomprensioni coniugali e problemi con chi minaccia la loro sicurezza, non avrà vita facile.

Data la scarsa qualità artistica dei precedenti film della trilogia, anche Cinquanta sfumature di rosso si è confermato un prodotto modesto ma pretenzioso, dove di fianco a scene da soft-porno, l’elemento del thriller sembra tanto debole quanto pretestuoso, al fine di raccontare ulteriormente determinati aspetti della vita dei due protagonisti che, inevitabilmente, finiscono per avere, di quando in quando, anche un effetto involontariamente comico. Questo riguarda, ad esempio, le battute pronunciate dallo stesso Christian Grey in merito alla sua paura di diventare padre, oppure anche le sue crisi di gelosia nei confronti della moglie.

Ma tant’è. D’altronde, come già è stato detto, non ci si aspettava molto altro da un lungometraggio come Cinquanta sfumature di rosso, il quale, perfettamente in linea con i due precedenti film, mantiene una regia a tratti manierista ed una fotografia eccessivamente “laccata”, che tanto sta a ricordare il peggiore Michael Bay. Riusciranno, tuttavia, le vicende di Cristian ed Ana ad incuriosire un buon numero di spettatori? Questo potrà dircelo solo il tempo.

VOTO: 4/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – IL FILO NASCOSTO di Paul Thomas Anderson

il-filo-nascosto-3TITOLO: IL FILO NASCOSTO; REGIA: Paul Thomas Anderson; genere: drammatico; paese: USA; anno: 2017; cast: Daniel Day-Lewis, Vicky Krieps, Lesley Manville; durata: 130′

Nelle sale italiane dal 22 febbraio, Il filo nascosto è l’ultimo lungometraggio diretto dal celebre cineasta statunitense Paul Thomas Anderson, che ha ricevuto ben sei candidature ai Premi Oscar 2018: Miglior Film, Miglior Regista, Miglior Attore (Daniel Day-Lewis), Miglior Attrice Non Protagonista (Lesley Manville), Migliori Costumi e Miglior Colonna Sonora.

Il film è ambientato nel mondo della moda londinese degli anni Cinquanta e vede il personaggio di Reynolds Woodcock protagonista della pellicola. L’uomo è tra i più affermati stilisti dell’epoca ed è famoso per il suo carattere burbero e scontroso, oltre che per il suo amore per le donne. Da sempre scapolo per scelta, egli vive con la sorella, la quale lo aiuta ad amministrare la sua casa di moda. La sua vita, però, cambierà dopo il suo incontro con la giovane Alma, la quale sembra l’unica davvero in grado di tenergli testa.

Che dire? Se negli anni passati abbiamo spesso storto il naso di fronte alla Nomination ai Premi Oscar, visto il taglio prettamente mainstream e pericolosamente ammiccante che la competizione sembrava aver preso, ecco che finalmente una forte e meritevole autorialità come quella di Paul Thomas Anderson viene premiata. Ed è proprio il carattere così autoriale di un lungometraggio come Il filo nascosto che fa sembrare strane le scelte dei membri dell’Academy. Che si sia deciso – finalmente! – di premiare l’arte e la bellezza in quanto tali, scevre da ogni qualsivoglia sottotesto politico? Ancora non possiamo dirlo con sicurezza, eppure siamo certi che di fronte all’indubbio valore artistico di un prodotto come Il filo nascosto non si può certo restare indifferenti.

Maestoso, imponente – proprio come tutti i film di Anderson, d’altronde – il lungometraggio in questione si distingue per l’incredibile cura dell’immagine, per ogni dettaglio studiato alla perfezione, per la bellezza dei suoi colori, dei costumi, delle eleganti figure al suo interno, oltre che, sopra di tutti, per l’ottima interpretazione di Daniel Day-Lewis, attore-feticcio del regista, qui alla sua ultima prova attoriale prima di abbandonare definitivamente le scene.

E che dire della descrizione del rapporto tra il protagonista e sua moglie Alma? Un gioco subdolo, in cui è in ballo la vita stessa del protagonista ed in cui gli equilibri sono talmente fragili da far presagire in ogni momento il peggio. Il tutto, ovviamente, narrato sì con pathos, ma anche con una velata, necessaria dose di ironia.

Non sappiamo quale sarà la sorte di un film come Il filo nascosto durante la tanto attesa cerimonia di premiazione. Eppure possiamo affermare a gran voce che di prodotti così se ne vedono – purtroppo – davvero pochi, segno che un autore come Paul Thomas Anderson è sempre una garanzia. Ottima chiusura di carriera per il grande Daniel Day-Lewis.

VOTO: 9/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – MADE IN ITALY di Luciano Ligabue

made-in-italy-film-ligabue-trailerTITOLO: MADE IN ITALY; REGIA: Luciano Ligabue; genere: drammatico; anno: 2017; paese: Italia; cast: Stefano Accorsi, Kasia Smutniak, Fausto Maria Sciarappa; durata: 104′

Nelle sale italiane dal 25 gennaio, Made in Italy sancisce il ritorno del cantante Luciano Ligabue dietro la macchina da presa, dopo diversi anni di pausa.

Riko è sposato da circa vent’anni e lavora in una fabbrica di salumi. Il suo matrimonio sembra andare a rotoli, così come il suo lavoro. Ristabilita la serenità di coppia e trovatosi improvvisamente disoccupato, l’uomo faticherà a trovare un nuovo impiego. L’unica soluzione sembrerebbe quella di lasciare definitivamente l’Italia.

La storia qui messa in scena è la stessa raccontata da molti altri lungometraggi italiani contemporanei: la crisi, l’amore per il proprio paese e per la famiglia, la precarietà del lavoro sono tematiche che ricorrono piuttosto frequentemente, ai giorni nostri. Ma la cosa in sé non sarebbe un problema, nel caso in cui il prodotto in questione fosse un lungometraggio valido e ben realizzato. Il problema di un film come Made in Italy, però, è che, malgrado le iniziali buone intenzioni, malgrado l’evidente empatia del regista/cantante nei confronti della storia, a causa di uno script che fa acqua da tutte le parti e di interpreti che – sebbene indubbiamente validi – sembrano non sentirsi particolarmente a proprio agio nei panni dei personaggi qui impersonati, si è finito inevitabilmente per dare vita ad un lavoro quasi raffazzonato e, a tratti, anche involontariamente comico, dove imbarazzanti dialoghi fanno da cornice ad una sceneggiatura sfilacciata e pericolosamente disorganizzata.

Ed ecco che l’iniziale conflitto del protagonista – ossia la sua infelicità coniugale – viene risolto in men che non si dica dopo soli pochi minuti, per lasciare il posto ad altre questioni come la crisi lavorativa o la morte di un amico, lasciando però in sospeso elementi precedentemente tirati in ballo (vedi, ad esempio, la figura dell’amante di Riko che, una volta scaricata, minaccia di raccontare tutto alla moglie).

Anche da un punto di vista prettamente registico, Made in Italy lascia parecchio a desiderare. Una regia a tratti macchinosa e piuttosto maldestra non riesce a dare a scene studiate ad hoc il pathos necessario. È questo, ad esempio, il caso della sequenza in cui vediamo Riko ed i suoi amici correre di notte per Roma su dei monopattini elettrici per turisti – con in sottofondo, rigorosamente, la voce del cantante – o del momento in cui vediamo il protagonista organizzare insieme alla moglie una specie di finto matrimonio, atto a coronare definitivamente il loro amore.

E così, anche se i precedenti lavori del cantante – Radiofreccia e Da zero a dieci – tutto sommato non si erano rivelati dei prodotti completamente disprezzabili, questo Made in Italy proprio non è riuscito a far centro. Chissà cosa accadrà con il prossimo lungometraggio!

VOTO: 4/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – THE BIG SICK di Michael Showalter

hero_Big-Sick-2017TITOLO: THE BIG SICK; REGIA: Michael Showalter; genere: commedia; paese: USA; anno: 2017; cast: Kumail Nanjiani, Zoe Kazan, Holly Hunter; durata: 119′

Nelle sale italiane dal 16 novembre, The big Sick è l’ultimo lungometraggio diretto da Michael Showalter.

Il lungometraggio ci racconta la storia vera tra il comico Kumail Nanjiani (qui, tra l’altro, nel ruolo di sé stesso) e sua moglie Emily V. Gordon, i quali si sono conosciuti durante uno spettacolo di lui e, con il passare del tempo, hanno dovuto farei conti con la diversità delle loro culture di origine, oltre che con la singolare malattia di lei, la quale, però, ha permesso a Kumail di capire quali fossero i suoi veri sentimenti nei confronti della ragazza stessa.

Molto più che una gradevole commedia, questa diretta da Showalter. Se ad uno script pulito sommiamo ottime trovate comiche perfettamente unite al dramma della malattia, ecco che abbiamo un prodotto piuttosto raffinato e da tenere d’occhio.

Malgrado, inoltre, la forte attualità, anche il tema della diversità di culture, così come la questione dell’11 settembre e del terrorismo non vengono mai trattati in modo retorico o buonista. Al contrario, il regista, così come lo stesso Nanjiani, che ha preso parte alla stesura della sceneggiatura, non hanno paura di osare, di scadere nel “politically scorrect”, quando necessario.

Il risultato è una commedia gradevole e ben realizzata, che per l’attenzione ai dettagli e la riuscita contaminazione di generi si è rivelata davvero una piacevole sorpresa.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – MALARAZZA di Giovanni Virgilio

malarazza-678x381TITOLO: MALARAZZA; REGIA: Giovanni Virgilio; genere: drammatico; paese: Italia; anno: 2017; cast: Stella Egitto, Paolo Briguglia; David Coco; durata: 98′

Nelle sale italiane dal 9 novembre, Malarazza è l’opera seconda del giovane regista Giovanni Virgilio.

È a tutti gli effetti una storia universale, quella che ci viene qui presentata: la storia della giovane Rosaria, madre di un ragazzo di quattordici anni, la quale, dopo essere stata costretta a sposarsi perché incinta, viene costantemente maltrattata dal marito Tommasino Malarazza, un boss locale quasi caduto in rovina che chiede a sua moglie anche i pochi soldi guadagnati in lavanderia. Non sarà facile per la donna prendere la decisione di andarsene di casa insieme a suo figlio, anche se pronto ad aiutarla c’è suo fratello Franco, transessuale costretto a prostituirsi per poter arrivare a fine mese. Una volta libera, però, la situazione non sembrerà, poi, così semplice.

Colpisce fin da subito il cinismo e l’estrema lucidità con cui il regista ha messo in scena la storia di Rosaria. Quello che abbiamo davanti agli occhi è quel che si dice un film arrabbiato, particolarmente sentito, un urlo di dolore che, però, allo stesso tempo, risulta del tutto privo di speranza in un futuro migliore. Molto ben riuscite, a tal proposito, le ambientazioni: la bellissima città di Catania – a tutti gli effetti coprotagonista del lungometraggio – si è dimostrata teatro ideale per ciò che si è voluto raccontare, grazie ai suoi quartieri ed alle sue strade con palazzi antichi ma dall’aspetto decadente, apparentemente trascurati, ma al contempo quasi magnetici nella loro bellezza. La stessa vita di periferia viene ben resa sullo schermo anche grazie a musiche in questo contesto particolarmente indovinate ed alla maggior parte di scene girate in notturna.

Quel che meno convince di questo lavoro di Giovanni Virgilio è, in realtà, l’eccessivo stile da fiction televisiva (ma, d’altronde, lo stesso regista ha affermato di voler trarre una serie proprio da Malarazza), oltre a qualche incongruenza dal punto di vista dello stesso script, come, ad esempio, problemi che vengono risolti in modo eccessivamente sbrigativo (vedi la convocazione di Rosaria presso la centrale di polizia dopo l’uccisione del marito) o un andamento narrativo talvolta discontinuo. Ed è probabilmente proprio il fatto di voler dar vita ad una serie che fa immaginare il lungometraggio quasi come un prodotto pensato per un ambito diverso dalla sala cinematografica. Da qui, appunto, l’impressione che al lavoro stesso sia stato tolto un po’ troppo respiro, che sia stato collocato suo malgrado in un contesto non suo, il quale, di conseguenza, può addirittura risultargli stretto.

Poco male, però. Dalla sua, Malarazza ha di certo il fatto di non essere scaduto in una pericolosa retorica o in facili buonismi. Dato il tema trattato, infatti, questo è uno degli errori più comuni che siano mai stati commessi.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

12° FESTA DEL CINEMA DI ROMA – THE ONLY LIVING BOY IN NEW YORK di Marc Webb

only_boyTITOLO: THE ONLY LIVING BOY IN NEW YORK; REGIA: Marc Webb; genere: commedia; paese: USA; anno: 2017; cast: Callum Turner, Pierce Brosnan, Kate Beckinsale, Jeff Bridges; durata: 88′

Presentato in anteprima, all’interno della Selezione Ufficiale, alla 12° edizione della Festa del Cinema di Roma, The Only Living Boy in New York è l’ultimo lungometraggio diretto da Marc Webb.

La storia qui messa in scena è quella del giovane Thomas Webb, neo laureato che per arrotondare dà ripetizioni ed è follemente innamorato di Mimi, la sua migliore amica che, però, non sembra ricambiare i suoi sentimenti. Un giorno, il ragazzo scopre che suo padre ha una relazione extraconiugale, mentre sua madre, che da anni soffre di depressione, sembra essere all’oscuro di tutto. Sarà compito suo, grazie anche all’aiuto di uno stravagante vicino di casa che ben presto diventerà suo mentore, gestire la situazione ed affrontare, così, anche un nuovo percorso di crescita che lo porterà a conoscere meglio sé stesso ed a capire quale sia il suo posto nel mondo.

Nulla di nuovo? Nulla di nuovo, senza dubbio. Ma allora, perché un lungometraggio come The Only Living Boy in New York risulta un prodotto tanto gradevole quanto ben riuscito? Senza dubbio è l’universalità della storia – qui trattata con estrema delicatezza, senza mai scadere nella retorica – uno dei fattori che maggiormente funziona, unitamente alla caratterizzazione dei personaggi. Sono, tuttavia, le atmosfere create – con una New York trattata alla stregua di un vero e proprio coprotagonista, con suggestivi colori autunnali ed intense panoramiche – il vero fiore all’occhiello di questo ultimo lungometraggio di Marc Webb. Questo, unito ad un commento musicale che assume qui un ruolo addirittura centrale – lo stesso titolo si rifà alla celebre canzone di Simon e Garfunkel – è in grado di dar vita ad un prodotto piccolo – non soltanto per quanto riguarda i soli 88 minuti di durata – ma ben confezionato, che, salvo che per la mancanza della sua tipica, tagliente ironia, farebbe addirittura pensare ad una sorta di Woody Allen (nell’ambito di questa edizione della Festa del Cinema di Roma inaspettatamente menzionato più e più volte) particolarmente “moderato”, ma comunque incisivo. Chi meglio di lui, d’altronde, ha messo in scena vere e proprie dichiarazioni d’amore alla sua amata New York, con tutti i suoi rumori, i suoi colori e la sua vita frenetica?

Ed ecco che The Only Living Boy in New York si è rivelato, dunque, una piacevole sorpresa all’interno di una programmazione che, spesso e volentieri, ha fatto storcere il naso a pubblico e critica. Siamo d’accordo, non si tratta certo di un film fondamentale. Si potrebbe addirittura affermare che, passato qualche tempo dalla visione, non verrà ricordato da molti, probabilmente. Eppure, nel suo piccolo, questo lavoro di Marc Webb funziona. Cosa, questa, assolutamente non da poco.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

12° FESTA DEL CINEMA DI ROMA – THE HUNGRY di Bornila Chatterjee

hungry_01-h_2017TITOLO: THE HUNGRY; REGIA: Bornila Chatterjee; genere: drammatico; paese: India, Regno Unito; anno: 2017; cast: Naseeruddin Shah, Tisca Chopra, Neeraj Kabi; durata: 100′

Presentato all’interno della Selezione Ufficiale alla 12° Festa del Cinema di Roma, The Hungry è l’ultimo, controverso lungometraggio della regista indiana Bornila Chatterjee, trasposizione cinematografica del Tito Andronico di William Shakespeare.

I protagonisti, in questo caso, sono i membri di due famiglie con a capo due importanti magnati aziendali. La bella e spietata Tulsi è in procinto di sposare Sunny e di fare in modo – come anche dal padre di quest’ultimo viene affermato – che si diventi tutti un’unica famiglia. Durante la festa di Capodanno, però, il figlio minore della donna viene ucciso dopo essersi rifiutato di entrare in affari con la famiglia di Sunny. Prenderà il via, da qui, una lunga serie di omicidi, violenze e tradimenti di ogni genere, al termine della quale nessuno riuscirà, in qualche modo, a salvarsi.

Ѐ il genere umano nella peggiore delle sue declinazioni, quello che ci viene presentato in Tito Andronico prima e in The Hungry poi. In questo lavoro della Chatterjee, nello specifico, grazie ad una regia e ad una fotografia che sembrano non aver alcun dubbio riguardo ciò che vogliono trasmettere allo spettatore, la tensione e l’ipocrisia dei personaggi è palpabile fin dall’inizio. Ed ecco che, con una messa in scena del tutto soggettiva ma impeccabile, interni dai colori freddi e scene in esterno girate perlopiù con il buio – fatta eccezione per i brevi, riusciti momenti in cui vediamo un suggestivo paesaggio all’alba avvolto nella nebbia – si fanno teatro di una tragedia sempre attuale. Ѐ soprattutto il dio Denaro a stabilire ogni singola mossa dei protagonisti. A lui la responsabilità di ogni intrigo, di ogni tortura, di ogni omicidio.

Ed è proprio nel mettere in scena torture e omicidi che la macchina da presa della Chatterjee si mostra quanto mai coraggiosa, quasi eccessivamente ardita: la scena dell’uccisione della sorella di Sonny è solo la prima delle scene maggiormente disturbanti, le quali trovano un loro compimento proprio man mano che ci si avvicina al finale, momento in cui alla spietata Tulsi viene presentata – durante il banchetto di nozze – la testa del suo primogenito su di un vassoio d’argento. Particolarmente emblematica – oltre che piuttosto ben riuscita – la scena in cui, a conclusione della tragedia, vediamo un branco di pecore nere entrare nel salone dove fino a poco tempo prima stavano avendo luogo i festeggiamenti di nozze e mangiare avidamente le pietanze presenti sul tavolo. Soluzione, questa, piuttosto sottile e raffinata, che – oltre, appunto, ad una regia matura e consapevole – ha fatto sì che un lungometraggio come The Hungry – al quale, tutto sommato, si può rimproverare solo un calo di ritmo a circa metà del film – abbia una propria, marcata identità, senza farsi “schiacciare” dall’imponenza dell’opera di partenza, ma regalandocene, al contrario, una trasposizione capace di mostrarci quanto di buono le major indiane sono in grado di produrre oggi, senza lasciarsi eccessivamente influenzare né dai canoni standard delle produzioni bollywoodiane, né da quelle tipicamente hollywoodiane. Perdonate il gioco di parole.

VOTO: 8/10

Marina Pavido