ESCE IN DVD IL FILM CON LA RETTORE:ORA O MAI PIU’?

cover dvd STREPITOSAMENTE... FLOPRicevo e volentieri pubblico

A trent’anni dalle riprese, iniziate sul finire del 1989, viene distribuito per la prima volta in dvd da CG Entertainment (www.cgentertainment.it), a Marzo 2019, il film
Strepitosamnte… flop, scritto e diretto da Pierfrancesco Campanella e che vede tra i
principali interpreti Donatella Rettore, la cantante di successi quali Kobra e Lamette,
attualmente impegnata tra i “maestri” in Ora o mai più, trasmissione televisiva di RaiUno condotta da Amadeus.
La partecipazione della Rettore allo show del sabato sera sta suscitando molte reazioni,
soprattutto sui social, per via di alcuni giudizi un po’ taglienti, elargiti con irriverente ironia ai cantanti in gara. Ma, si sa, l’artista di Castelfranco Veneto è quanto di più
anticonvenzionale e fuori dagli schemi sia presente nel mondo della musica leggera e non rinuncia mai a dire quello che pensa realmente, mettendoci sempre la faccia.
Pochi sanno che, prima di diventare una acclamata rockstar, giovanissima, era partita dal teatro, essendo oltretutto figlia d’arte (la mamma era una nota interprete goldoniana).
Una volta raggiunta la grande popolarità grazie al brano Splendido splendente, era stata
protagonista del film Cicciabomba, diretto da Umberto Lenzi, diventato, poi, un vero e
proprio cult-movie per i suoi innumerevoli fan.
Altre sue prove di attrice sono rappresentate da un episodio della serie tv Aeroporto
internazionale, in onda su RaiUno, e Paganini, opera registica del “maledetto” Klaus
Kinski, in entrambi le quali era stata affiancata dalla bellissima Dalila Di Lazzaro.
Per coincidenza, anche Strepitosamente… flop le include ambedue nel cast artistico.
All’epoca dell’uscita nelle sale, il film di Campanella fece molto parlare la stampa per la
sua freschezza e originalità e partecipò a diverse importanti manifestazioni
cinematografiche, tra cui le Grolle d’Oro di Saint Vincent, il Festival Internazionale di
Annecy e la Rassegna EuroMediterranea di Sangineto, condotta da Pippo Baudo.
Grazie a questo film, la cantante nel 1991 venne insignita in Campidoglio del prestigioso
Premio Personalità Europea, dopo che alcuni critici avevano accostato la sua verve
brillante a quella della grande diva americana Shirley MacLaine.
In Strepitosamente… flop Rettore veste i panni di una bizzarra funzionaria televisiva
spietatissima nella professione quanto fragile nel privato, rivelando spiccata simpatia e
grande autoironia.
Tra gli altri interpreti del film vanno ricordati Urbano Barberini, Yvonne Sciò, Adriana
Russo, Gabriele Gori, Claudia Cavalcanti e Aichè Nanà, la ballerina turca balzata alla
notorietà ai tempi della “Dolce Vita” per uno scandaloso strip in un noto locale della
capitale.
Da segnalare, inoltre, che Strepitosamente… flop, al suo primo passaggio televisivo su
ReteQuattro, nell’ambito del ciclo “I Bellissimi”, ha riscosso uno share di ascolto molto alto, superiore alla abituale media della emittente.
L’uscita in dvd della pellicola di Pierfrancesco Campanella è stata a lungo sollecitata
proprio dagli irriducibili ammiratori della Rettore che, riuniti nel fan club a lei dedicato, si sono fatti promotori dell’iniziativa di recupero di un’opera, a detta di molti, ancora valida e attuale.

LA RECENSIONE – A STAR IS BORN di Bradley Cooper

a-star-is-bornTITOLO: A STAR IS BORN; REGIA: Bradley Cooper; genere: drammatico; paese: USA; anno: 2018; cast: Lady Gaga, Bradley Cooper, Andrew Dice Clay; durata: 135′

Nelle sale italiane dall’11 ottobre, A Star is born, presentato fuori concorso alla 75° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, è l’esordio alla regia dell’attore Bradley Cooper, qui anche nel ruolo di co-protagonista.

Terzo remake del celebre lungometraggio (a sua volta trasposizione cinematografica di un musical) diretto nel 1937 da William A. Wellman, il film racconta la storia di Ally, giovane e timida cameriera con un grande talento per il canto, la quale, esibendosi in un locale, incontra per caso il celebre cantante Jackson Maine. Tra i due nasce un grande amore e la donna avrà finalmente modo di mostrare al mondo intero il proprio talento, diventando in poco tempo una vera e propria celebrità. Saranno i problemi di alcolismo di Jackson, però, a minare la serenità del loro rapporto e le loro stesse carriere.

Il problema principale di un lavoro come A Star is born è – come sovente in casi del genere accade – quello di essere stato diretto da un attore che interpreta anche il ruolo del protagonista, facendo sì che la voglia di apparire e di dare mostra del proprio talento abbia la meglio sulla qualità del lavoro stesso. E questo, purtroppo, è ciò che accade (dopo un inizio più che dignitoso) nella seconda parte del film, in cui vediamo Cooper sempre più schiavo dell’alcool e delle droghe: un personaggio eccessivamente caricato, da togliere quasi visibilità alla co-protaginista. Peccato. Soprattutto perché lo stesso Cooper, registicamente parlando, si è dimostrato pulito e interessante.

La vera peculiarità del presente lungometraggio, però, è proprio Lady Gaga, qui nell’insolita veste di attrice: affascinante, intensa, mai sopra le righe e bella in modo magnetico con il suo look al naturale, la giovane cantante non ha nulla da invidiare alle colleghe che, negli anni scorsi hanno ricoperto il suo stesso ruolo. Un talento inaspettato che ha fatto acquistare a questo A Star is born parecchi punti. Anche se, qualitativamente parlando, i precedenti lavori di Wellman, di George Cuckor e di Frank Pierson ci sembrano, purtroppo, lontani anni luce.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – IL CRATERE di Silvia Luzi e Luca Bellino

ilcratereTITOLO: IL CRATERE; REGIA: Silvia Luzi, Luca Bellino; genere: drammatico; paese: Italia; anno: 2017; cast: Rosario Caroccia, Sharon Caroccia; durata: 97′

Nelle sale italiane dal 12 aprile, Il Cratere è il primo lungometraggio a soggetto dei documentaristi Silvia Luzi e Luca Bellino, presentato come film d’apertura della Settimana della Critica alla 74° Mostra d’Arte Cinematografia di Venezia.

Sharon è un’adolescente con uno straordinario talento per il canto. Suo padre Rosario è ben consapevole del dono di sua figlia e, stanco di vivere una vita in continue ristrettezze economiche, lavorando come venditore ambulante di peluches durante le fiere, per tutta la vita non ha fatto altro che spronare la figlia a coltivare la sua passione per il canto, sottoponendola a estenuanti esercizi per la voce e procurandole un gran numero di provini. La ragazza, com’è logico che sia, si sentirà eccessivamente sotto pressione, al punto di entrare in una profonda crisi personale.

Ed ecco che, ancora una volta, ci troviamo ad assistere a una sorta di miracolo cinematografico all’interno del nostro Bel Paese. In questo piccolo, ma importante lavoro, infatti, i due giovani cineasti riescono a mettere in scena il delicato rapporto padre-figlia riuscendo a cogliere ogni singola emozione e ogni più recondito sentimento che pervade i due protagonisti (interpretati da Rosario e Sharon Caroccia, padre e figlia anche nella via reale).

Sono ravvicinatissime inquadrature e dettagli del viso regalatici con un costante uso di camera a mano a trasmetterci quel senso di angoscia e claustrofobia che si respira fin dai primi minuti e che, nel corso della narrazione, non fa che diventare sempre più forte, fino a farsi addirittura insopportabile. Lo spettatore, dunque, soffre insieme alla giovane protagonista e viene coinvolto a 360°, grazie alla straordinaria padronanza del mezzo cinematografico da parte dei due registi, oltre che alla bravura degli stessi interpreti, entrambi alla loro prima esperienza sul grande schermo.

Con un piglio decisamente zavattiniano, dunque, Il Cratere si rivela un ottimo manuale di cinema del reale, in grado – proprio grazie alla particolare messa in scena – di colpire lo spettatore nel vivo e di distinguersi all’interno di un panorama cinematografico che, mai come in questo ultimo anno, ha visto comparire sul grande schermo uno spropositato numero di pellicole nostrane.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – MADE IN ITALY di Luciano Ligabue

made-in-italy-film-ligabue-trailerTITOLO: MADE IN ITALY; REGIA: Luciano Ligabue; genere: drammatico; anno: 2017; paese: Italia; cast: Stefano Accorsi, Kasia Smutniak, Fausto Maria Sciarappa; durata: 104′

Nelle sale italiane dal 25 gennaio, Made in Italy sancisce il ritorno del cantante Luciano Ligabue dietro la macchina da presa, dopo diversi anni di pausa.

Riko è sposato da circa vent’anni e lavora in una fabbrica di salumi. Il suo matrimonio sembra andare a rotoli, così come il suo lavoro. Ristabilita la serenità di coppia e trovatosi improvvisamente disoccupato, l’uomo faticherà a trovare un nuovo impiego. L’unica soluzione sembrerebbe quella di lasciare definitivamente l’Italia.

La storia qui messa in scena è la stessa raccontata da molti altri lungometraggi italiani contemporanei: la crisi, l’amore per il proprio paese e per la famiglia, la precarietà del lavoro sono tematiche che ricorrono piuttosto frequentemente, ai giorni nostri. Ma la cosa in sé non sarebbe un problema, nel caso in cui il prodotto in questione fosse un lungometraggio valido e ben realizzato. Il problema di un film come Made in Italy, però, è che, malgrado le iniziali buone intenzioni, malgrado l’evidente empatia del regista/cantante nei confronti della storia, a causa di uno script che fa acqua da tutte le parti e di interpreti che – sebbene indubbiamente validi – sembrano non sentirsi particolarmente a proprio agio nei panni dei personaggi qui impersonati, si è finito inevitabilmente per dare vita ad un lavoro quasi raffazzonato e, a tratti, anche involontariamente comico, dove imbarazzanti dialoghi fanno da cornice ad una sceneggiatura sfilacciata e pericolosamente disorganizzata.

Ed ecco che l’iniziale conflitto del protagonista – ossia la sua infelicità coniugale – viene risolto in men che non si dica dopo soli pochi minuti, per lasciare il posto ad altre questioni come la crisi lavorativa o la morte di un amico, lasciando però in sospeso elementi precedentemente tirati in ballo (vedi, ad esempio, la figura dell’amante di Riko che, una volta scaricata, minaccia di raccontare tutto alla moglie).

Anche da un punto di vista prettamente registico, Made in Italy lascia parecchio a desiderare. Una regia a tratti macchinosa e piuttosto maldestra non riesce a dare a scene studiate ad hoc il pathos necessario. È questo, ad esempio, il caso della sequenza in cui vediamo Riko ed i suoi amici correre di notte per Roma su dei monopattini elettrici per turisti – con in sottofondo, rigorosamente, la voce del cantante – o del momento in cui vediamo il protagonista organizzare insieme alla moglie una specie di finto matrimonio, atto a coronare definitivamente il loro amore.

E così, anche se i precedenti lavori del cantante – Radiofreccia e Da zero a dieci – tutto sommato non si erano rivelati dei prodotti completamente disprezzabili, questo Made in Italy proprio non è riuscito a far centro. Chissà cosa accadrà con il prossimo lungometraggio!

VOTO: 4/10

Marina Pavido

35° TORINO FILM FESTIVAL – FAITHFULL di Sandrine Bonnaire

faithfullTITOLO: FAITHFULL; REGIA: Sandrine Bonnaire; genere: documentario; paese: USA, Francia; anno: 2017; durata: 61′

Presentato in anteprima alla 35° edizione del Torino Film Festival, all’interno della sezione Festa Mobile, Faithfull è l’ultimo documentario dell’attrice e regista francese Sandrine Bonnaire.

Una non più giovane – ma pur sempre affascinante – Marianne Faithfull si rivolge direttamente alla regista, esprimendo le sue perplessità per quanto riguarda la realizzazione di un film sulla sua vita. La celebre cantante e attrice, a tal proposito, consiglia alla propria interlocutrice di adoperare principalmente filmati di repertorio. E così fa Sandrine Bonnaire, attingendo a piene mani dall’abbondante materiale di archivio che ci racconta il personaggio della Faithfull e che ci mostra quest’ultima sia giovanissima – agli inizi di carriera – sia con lo storico compagno Mick Jagger, sia ai giorni nostri, impegnata durante alcuni dei suoi numerosi concerti in giro per il mondo.

E, di fatto, è proprio grazie alla forte presa sul pubblico di un personaggio come la Faithfull che questo documentario della Bonnaire funziona. Perché, purtroppo, malgrado l’evidente e sincero desiderio della regista di mettere in scena il personaggio sopracitato, malgrado, appunto, il forte interesse del tema, l’opera in questione sembra mancare di mordente e, fino alla fine, tende a rimanere piatta nella narrazione e pericolosamente priva di picchi emotivi.

L’errore commesso da Sandrine Bonnaire è, dunque, quello di essersi affidata eccessivamente alla personalità di Marianne Faithfull e, soprattutto, alla gran mole di materiale su di lei. E la cosa andrebbe anche bene, se si vuol dar vita, ad esempio, ad un documentario di montaggio che lasci esclusivamente parlare i filmati di repertorio. Questo lavoro della Bonnaire, però, resta a metà strada: brevi interviste alla Faithfull si alternano ai filmati sopracitati, senza neanche azzardare cambi di ritmo o di stile mirati a creare un necessario crescendo emotivo.

Breve nella sua durata (soli sessantuno minuti), questo documentario della cineasta francese sembra, dunque, più un prodotto fine a sé stesso, realizzato esclusivamente per una visione tra pochi intimi, che un’opera destinata alla sala o, meglio ancora, ad un festival cinematografico. Peccato, dunque, essersi bruciati un tema del genere a causa della poca voglia di osare e di approfondire. Chissà cosa avrà pensato la stessa Marianne Faithfull al termine della visione.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

12° FESTA DEL CINEMA DI ROMA – TROUBLE NO MORE di Jennifer Lebeau

bob-dylan-trouble-no-more-screening-202feb62-abeb-4f23-a834-65d26835a3eaTITOLO: TROUBLE NO MORE; REGIA: Jennifer Lebeau; genere: documentario; paese: USA; anno: 2017; cast: Michael Shannon; durata: 59′

Presentato in anteprima alla 12° edizione della Festa del Cinema di Roma, Trouble no more è l’ultimo lavoro della produttrice e documentarista statunitense Jennifer Lebeau, incentrato sul periodo in cui il cantautore Bob Dylan decise di convertirsi al cristianesimo.

Il lavoro della Lebeau è strutturato, invero, in modo assai semplice: una serie di filmati direttamente dagli anni Ottanta ci mostrano Dylan durante alcuni dei suoi concerti, avvenuti immediatamente dopo la pubblicazione di album come Slow Train Coming (1979) o Shot of Love (1981). Tra una performance di un pezzo e l’altra, inoltre, vediamo l’attore Michael Shannon nelle singolari vesti di un invasato predicatore, intento a recitare sermoni scritti per l’occasione da Luc Sante. Ciò di cui Shannon di volta in volta parla va di pari passo con i temi trattati di volta in volta dallo stesso Dylan nei testi delle sue canzoni.

E così, proprio per questa sua scelta di approfondire questo particolare momento vissuto dal cantautore in una maniera così singolare, Jennifer Lebeau si è dimostrata particolarmente coraggiosa. Non vi sono, ad esempio, didascalie che ci introducono il periodo storico o gli avvenimenti pregressi. Non vi sono spezzoni di interviste allo stesso Dylan o a chi, all’epoca, ha avuto modo di stargli vicino. Non viene fatta alcuna analisi approfondita su come sia realmente cambiato il suo modo di fare musica e su come la religione abbia influenzato le sue produzioni. Quello che ci viene mostrato è la pura realtà dei fatti: l’artista all’opera durante alcuni dei suoi concerti. Alle immagini, dunque, il compito di fare da narratrici esclusive. L’unica interpretazione di ciò che Bob Dylan ha voluto produrre ci viene offerta, appunto, proprio dal “predicatore” Michael Shannon. Ed ecco che, anche in questa occasione, è il cinema – in questo caso di finzione – a raccontarci come sono andate le cose. Un cinema che, di conseguenza, ci viene qui presentato nella sua declinazione più pura.

Una scelta così radicale, tuttavia, indubbiamente finisce per sollevare non poche critiche a riguardo. Uno dei rimproveri che si potrebbero muovere contro la Lebeau, ad esempio, è quello di aver dato vita ad un prodotto eccessivamente essenziale, che, a chi conosce poco il tema trattato, trasmette ben poco. Ovviamente, ogni opinione è soggettiva. Quello che, invece, è decisamente oggettivo è il fatto che la visione di un documentario come Trouble no more, per le appassionanti performance di Bob Dylan, per il loro riuscito montaggio alternato con i sermoni di Michael Shannon e per il ritmo crescente dell’intero lavoro, sia un’esperienza che vale sempre la pena vivere. Ben vengano, dunque, le scelte registiche del Jennifer Lebeau. D’altronde, come spesso abbiamo avuto modo di notare, less is more!

VOTO: 7/10

Marina Pavido

67° FESTIVAL DI BERLINO – FELICITE di Alain Gomis

feliciteTITOLO: FELICITÉ; REGIA: Alain Gomis; genere: drammatico; anno: 2017; paese: Francia, Congo; cast: Véro Tshanda Beya; durata: 123′

Presentato in concorso alla 67° edizione del Festival di Berlino, Felicité è l’ultimo lungometraggio del cineasta senegalese Alain Gomis.

La storia messa in scena è una storia apparentemente come tante. Felicité è una giovane ragazza madre dalle straordinarie doti canore che, al fine di garantire al figlio adolescente una vita dignitosa, ogni sera si esibisce in un locale della cittadina in cui vive, nel cuore del Congo. La situazione si fa complicata il giorno in cui il ragazzo ha un incidente con la motocicletta e rischia di perdere una gamba. L’operazione per salvarlo è assai costosa, così Felicité sarà costretta a trovare le più disparate soluzioni, al fine di garantire l’intervento a suo figlio.

Ad una prima lettura della sinossi, l’idea di base sembrerebbe suggerire qualcosa simile ai film dei fratelli Dardenne. Eppure, dopo aver adottato una certa linea iniziale, ecco che il lungometraggio di Gomis si concentra in particolare sull’interiorità della protagonista stessa, sui suoi cambiamenti, sulla sua crescita interiore e, soprattutto, sulla sua presa di coscienza circa il fatto che, nella vita, bisogna anche saper accettare un aiuto da parte di chi ci è vicino.

Il tutto viene realizzato con un copioso uso di camera a spalla, per una messa in scena apparentemente priva di particolari virtuosismi registici, che si alterna a momenti in cui la musica ed i colori di un popolo fanno da protagonisti assoluti, facendoci dimenticare, per un attimo, le sventure della protagonista stessa. Sono queste le scene in cui Felicité si esibisce al locale e, di volta in volta, intensi suoi primi piani ci mostrano il suo stato d’animo. Nel raccontare il percorso della protagonista, ampio spazio è dedicato – in modo non del tutto riuscito, a dire il vero – anche alla dimensione onirica. Sono questi i momenti in cui Felicité viene mostrata nell’atto di camminare di notte dentro un bosco, per poi immergersi in un lago e sentirsi improvvisamente più serena, quasi fosse tornata nella placenta materna. Particolarmente riuscito, inoltre, il parallelismo tra la donna ed il proprio figlio a metà della pellicola: dopo l’amputazione della gamba di quest’ultimo, ecco che la madre intraprende un nuovo percorso interiore che la fa abbandonare ciò che era prima, tagliandosi in modo emblematico i capelli.

Il vero problema di un lungometraggio come Felicité è fondamentalmente uno script piuttosto sfilacciato, che, dopo aver adottato una certa linea iniziale, cambia quasi repentinamente registro, facendo sì che il film sia spaccato in due senza una logica apparente. Molti elementi, inoltre, vengono tirati in ballo per poi essere lasciati in sospeso (vedi la zebra incontrata dalla protagonista durante i sogni), rivelando sì buoni intenti da parte del regista, ma anche un’importante dose di incertezza, che, di fatto, il suo peso ce l’ha eccome. Nulla di veramente riuscito, in pratica. Eppure, vuoi per le ambientazioni, vuoi per la musica calda e coinvolgente, al termine della visione questo ultimo lungometraggio di Gomis non lascia fortunatamente del tutto scontenti.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – POVERI MA RICCHI di Fausto Brizzi

Poveri ma ricchiTITOLO: POVERI MA RICCHI; REGIA: Fausto Brizzi; genere: commedia, comico; anno: 2016; paese: Italia; cast: Christian De Sica, Enrico Brignano, Anna Mazzamauro; durata: 97′

Nelle sale italiane dal 15 dicembre, Poveri ma ricchi è l’ultimo lungometraggio diretto da Fausto Brizzi, remake del francese Les Tuche (2011), perla regia di Olivier Baroux.

Ci troviamo, innanzitutto, in un piccolo paesino sulla Prenestina, appena fuori dalla Capitale. La famiglia Tucci, mai stata particolarmente abbiente, vince inaspettatamente cento milioni di euro al superenalotto. Malgrado le iniziali intenzioni di tenere la cosa segreta in paese, presto si viene a conoscenza dell’identità dei fortunati vincitori e, di conseguenza, la famiglia intera – a causa delle insistenti richieste di aiuti economici da parte di amici e parenti – sarà costretta a lasciare la propria casa per trasferirsi nella città che registra il più alto reddito pro capite in Italia: Milano.

pmr-1Sarà per la scelta di far interpretare ad alcuni attori del cast personaggi a cui normalmente non si sono mai rapportati, sarà per l’idea di far ridere evitando la volgarità, sarà per la giusta gestione dei tempi comici, sarà per l’impiego, in sceneggiatura, di trovate più che indovinate, sarà (e questa è una cosa che potrebbero pensare i più “malignetti”) che il film stesso è tratto da una commedia che poco ha a che vedere con i cinepanettoni nostrani, ma Poveri ma ricchi si presenta in linea di massima come un lungometraggio onesto e ben riuscito, nel suo genere.

Convincente è un Christian De Sica nei panni di un lavoratore “burino” e di gran cuore, azzeccata la brava Anna Mazzamauro nel ruolo della nonna appassionata di fiction televisive ed innamorata di Gabriel Garko. Il vero pezzo forte di questo lungometraggio di Brizzi, però, è la comparsata di Al Bano nel ruolo di sé stesso e le conseguenti gag che ne vengono fuori: trovate fuori dagli schemi della comicità standard “da cinepanettone” che, in questo contesto, funzionano piuttosto bene.

poveri-ma-ricchi-bill-gates-clip-dal-film-youtubeIl problema principale di Poveri ma ricchi è, in realtà, un altro: per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi stessi, troppo repentini sono i cambiamenti interiori (in particolare per quanto riguarda il personaggio interpretato da De Sica) per poter essere credibili. Così come ripetitivi appaiono i contrasti tra nord e sud Italia qui messi in scena. Ripetitivi e, ormai, troppo inflazionati all’interno delle grandi produzioni cinematografiche italiane. Detto questo, però, questo ultimo lavoro di Brizzi resta comunque un prodotto che, in un certo senso, sorprende. E, proprio per la sua onestà, merita una priorità di visione rispetto ad altri cinepanettoni, nel caso in cui si desiderasse fruire esclusivamente di un certo tipo di cinema.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

VENEZIA 73 – ONE MORE TIME WITH FEELING di Andrew Dominik

one-more-feelingTITOLO: ONE MORE TIME WITH FEELING; REGIA: Andrew Dominik; genere: documentario; anno: 2016; paese: USA, GB; durata: 112′

Presentato fuori concorso alla 73° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, One more time with feeling è l’ultimo lavoro dell’acclamato regista statunitense Andrew Dominik, già apprezzato per L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford e Cogan – Killing them softly.

Realizzato interamente in 3D, con un bianco e nero talvolta poco contrastato e decisamente contemplativo, questo ultimo lavoro di Dominik ci mostra un Nick Cave fino ad ora sconosciuto, un Nick Cave che non ha paura di raccontare – davanti alla macchina da presa – il suo passato, il suo rapporto con le canzoni da lui composte, i suoi affetti ed il suo recente dolore, in seguito alla morte prematura del figlio Arthur.

Quel che fin da subito colpisce è un particolare uso del 3D che prevede – inizialmente, quando il protagonista non si è ancora del tutto svelato – immagini spesso fuori fuoco e movimenti di macchina che sembrano ancora incerti. Immagini che, però, si fanno via via sempre più definite, man mano che il personaggio si svela a noi, e movimenti di macchina che si trasformano in lunghi piani sequenza e carrellate che ricordano quasi una danza con una coreografia ben strutturata e particolarmente curata.

Non vi sono domande e risposte. Fatta eccezione per qualche breve interazione, il regista non interviene quasi mai. Cave si limita a raccontare e a raccontarsi in una sorta di flusso di coscienza, facendo sì che il tutto scorra come un fiume in piena. Interessante, inoltre, anche il discorso sulla narratività che fa il cantante durante i primi minuti, parlando dei testi delle sue canzoni, prive, appunto, di un preciso andamento narrativo. La narrazione – secondo Cave – non fa parte della vita, in quanto ognuno di noi segue un iter a sé. Lo stesso vale per i testi delle canzoni da lui composte, così come anche per la struttura narrativa di tutto il documentario, che, dunque, risulta perfettamente in linea con il modo che ha il cantante di concepire la propria arte.

E poi c’è il metacinema. Sovente capita di vedere in campo macchine da presa e carrelli. Talvolta, addirittura, è lo stesso Cave a menzionare i vari macchinari presenti. Ed ecco che è il mezzo cinematografico stesso a prendere coscienza di sé e a mostrarsi in tutta la sua complessità. Il tutto fa sì, di conseguenza, che il documentario proceda su due livelli paralleli: da un lato abbiamo Cave ed il suo scoprirsi e raccontarsi, dall’altro abbiamo il cinema in quanto espressione artistica, il quale, analogamente a quanto fa il cantante, ci mostra – deciso ma mai “prepotente” – la sua imprescindibile presenza.

La complessità di tale opera non può non far riflettere sulla regia di Andrew Dominik e sulla sua evoluzione nel corso della carriera. Il cineasta statunitense ha fin da subito dimostrato un grande talento nella gestione degli spazi, così come dei personaggi fin dalla sua opera prima, Chopper. Il suo “giocare” sapientemente con la macchina da presa, inoltre, ci ha fin da subito svelato un grande talento. E questa sua ultima fatica si classifica, dunque – dal punto di vista della regia – come una sorta di “esplosione”, come se lo stile del cineasta avesse raggiunto qui il suo apice, portando all’estremo i suoi numerosi virtuosismi e facendolo anche in modo del tutto pertinente e mai gratuito.

È per questo che One more time with feeling si è rivelato un’interessante scoperta. Un’opera imponente dentro la quale ci si può solo perdere, per poi lasciarsi trasportare in un vortice di suoni ed immagini di cui difficilmente ci si può dimenticare.

VOTO: 8

Marina Pavido

RENZO ARBORE al FESTIVAL TRASTEVERE GIOVEDì 21 LUGLIO

Ricevo e volentieri pubblico

image001 (1)Continuano i grandi ospiti al Festival Trastevere. Giovedì 21 Luglio sarà la prima volta di RENZO ARBORE in Piazza San Cosimato. Presenterà Il Pap’occhio  da lui scritto e diretto nel 1980 con Roberto Benigni, Diego Abatantuono, Andy Luotto, Isabella Rosellini, irriverente commedia sequestrata dalla censura quando uscì.

Renzo Arbore, artista da sempre eclettico e sperimentale, con Il Pap’occhio esordisce alla regia con una commedia surreale in cui si diverte a mescolare citazioni artistiche, letterali e cinematografiche, con personaggi televisivi popolari. Attraverso una satira scanzonata e leggera su politica, religione, cultura massificata e media mette in luce i limiti dell’Italia perbenista fino a  minare alle fondamenta un tabù dell’Italia democristiana: la Chiesa. Non a caso, il film è stato sequestrato con l’accusa di vilipendio alla religione.

Rivedere il film sul grande schermo di Piazza San Cosimato alla sua presenza sarà occasione per far conoscere questo grande artista ai giovanissimi, troppo piccoli per età anagrafica per aver vissuto la rivoluzione dello spettacolo portata da Arbore e i suoi indimenticabili Quelli della notte.

Preoccupato per il crescere dei buddisti e per il cedere della gioventù alle discoteche e alla droga, il Papa, tra gli esercizi ginnici e le lezioni private di lingua italiana, decide di dare l’avvio alla televisione vaticana con uno spettacolo leggero in mondovisione. La regia è affidata a Martin Scorsese e l’allestimento dello spettacolo a Renzo Arbore e alla sua compagnia. Questi accetta e, assicuratosi l’appoggio di Roberto Benigni col quale da un po’ è in rotta, trasferisce in Vaticano tutta la sua abituale troupe…

Il Festival Trastevere Rione del Cinema, tra retrospettive su Xavier Dolan, classici Disney,  partite dell’Italia ed il tributo a Sergio Leone sulla Scalea del Tamburino supera i partecipanti totali della scorsa edizione con 50.000 persone in 50 giorni, due maxi schermi ed ospiti d’eccezione come Roberto Benigni, Ennio Morricone, Carlo Verdone, Ferzan Özpetek, Dario Argento, Paolo Virzì, Stefania Sandrelli,Valerio Mastandrea, Paolo Sorrentino, Toni Servillo. Per chiuder il 1 agosto con Daniele Vicari e Silvia Scola che presenteranno Ballando ballando di Ettore Scola.