Il velo dell’ essenza: il dramma della SLA nell’esordio alla regia per l’attore Christian Catanzano

Ricevo e volentieri pubblico

Il velo dell’essenza è il cortometraggio che segna il debutto dietro la macchina da presa per l’attore Christian Catanzano.

Lo stesso Catanzano fa parte del cast insieme a Sabrina Marciano, protagonista del riadattamento italiano del musical Mamma mia!Lorenzo Guidi, noto sul piccolo schermo per Braccialetti rossi,  Giada Orlandi e, nei panni di un medico, lo storico Pino Ammendola.

Marco e Francesco vivono la propria adolescenza nella spensieratezza e nella libertà tipiche della loro età. Purtroppo, dovranno far fronte all’arrivo e all’evoluzione della SLA, che colpisce uno dei due, insidiandosi nella vita di entrambi. Ansie, preoccupazioni e speranze: lo sguardo aperto verso l’orizzonte, oltre i limiti della malattia. E non esisterà velo che non potrà essere rimosso, portando allo scoperto la vera essenza del “per sempre”.

Il velo dell’essenza ci racconta quindi il rapporto tra due ragazzi messo a dura prova da un mostro invisibile chiamato SLA, regalando una storia di amore e sofferenza attraverso la personale e delicata chiave di lettura di Catanzano, oltre ciò che la società è solita imporci.

“L’idea di base è nata durante il primo lockdown e ha preso vita grazie alla penna di Antonio Lusci. Abbiamo scelto di dare voce agli “ultimi”, soffermandoci sull’aspetto psicologico dell’evoluzione della malattia” dichiara il regista.

Il progetto si è concretizzato grazie al supporto di Fausto Petronzio, che ha prodotto il cortometraggio, e di Marco Testani, che ha curato la fotografia.

Prodotto e realizzato dalla Cinema Casting, è stato girato in provincia di Latina, nella città di Gaeta. La colonna sonora e le musiche sono state scritte e realizzate da Brenda Novella Ragazzini.

Il velo dell’essenza ha ricevuto il patrocinio morale dell’associazione VIVALAVITAdella Fondazione Latina Film Commissione del comune di Gaeta. Tutti i ricavati saranno devoluti a supporto dei pazienti che hanno bisogno di assistenze domiciliari.

La produzione ringrazia la Casa Vinicola Ciccariello e la Birra Cismo, sponsor che hanno dato la possibilità di lavorare in un momento così critico per il mondo dell’arte.

LA RECENSIONE – A STAR IS BORN di Bradley Cooper

a-star-is-bornTITOLO: A STAR IS BORN; REGIA: Bradley Cooper; genere: drammatico; paese: USA; anno: 2018; cast: Lady Gaga, Bradley Cooper, Andrew Dice Clay; durata: 135′

Nelle sale italiane dall’11 ottobre, A Star is born, presentato fuori concorso alla 75° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, è l’esordio alla regia dell’attore Bradley Cooper, qui anche nel ruolo di co-protagonista.

Terzo remake del celebre lungometraggio (a sua volta trasposizione cinematografica di un musical) diretto nel 1937 da William A. Wellman, il film racconta la storia di Ally, giovane e timida cameriera con un grande talento per il canto, la quale, esibendosi in un locale, incontra per caso il celebre cantante Jackson Maine. Tra i due nasce un grande amore e la donna avrà finalmente modo di mostrare al mondo intero il proprio talento, diventando in poco tempo una vera e propria celebrità. Saranno i problemi di alcolismo di Jackson, però, a minare la serenità del loro rapporto e le loro stesse carriere.

Il problema principale di un lavoro come A Star is born è – come sovente in casi del genere accade – quello di essere stato diretto da un attore che interpreta anche il ruolo del protagonista, facendo sì che la voglia di apparire e di dare mostra del proprio talento abbia la meglio sulla qualità del lavoro stesso. E questo, purtroppo, è ciò che accade (dopo un inizio più che dignitoso) nella seconda parte del film, in cui vediamo Cooper sempre più schiavo dell’alcool e delle droghe: un personaggio eccessivamente caricato, da togliere quasi visibilità alla co-protaginista. Peccato. Soprattutto perché lo stesso Cooper, registicamente parlando, si è dimostrato pulito e interessante.

La vera peculiarità del presente lungometraggio, però, è proprio Lady Gaga, qui nell’insolita veste di attrice: affascinante, intensa, mai sopra le righe e bella in modo magnetico con il suo look al naturale, la giovane cantante non ha nulla da invidiare alle colleghe che, negli anni scorsi hanno ricoperto il suo stesso ruolo. Un talento inaspettato che ha fatto acquistare a questo A Star is born parecchi punti. Anche se, qualitativamente parlando, i precedenti lavori di Wellman, di George Cuckor e di Frank Pierson ci sembrano, purtroppo, lontani anni luce.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – GIRL di Lukas Dhont

girl-Victor-Polster-356x250-c-defaultTITOLO: GIRL; REGIA: Lukas Dhont; genere: drammatico; paese: Belgio; anno: 2018; cast: Victor Polster, Arieh Worthalter, Oliver Bodart; durata: 105′

Presentato nella sezione Un certain regard al Festival di Cannes 2018 e nelle sale italiane dal 27 settembre, Girl è il lungometraggio d’esordio del giovane regista belga Lukas Dhont, il quale, per la presente opera, ha vinto la Caméra d’Or, la Queer Palm e il Premio Fipresci della Critica Internazionale, oltre ad aver visto il suo protagonista, Victor Polster, essere premiato come Miglior Attore.

Questo vero e proprio caso cinematografico, racconta la storia di Lara, che prima era Victor e che ha il sogno di diventare ballerina. Nonostante il supporto morale di suo padre e del suo fratellino, non sarà facile per la ragazza affrontare il lungo percorso preparatorio prima dell’operazione definitiva.

Una storia che prevede uno script apparentemente semplice, ma che, in realtà, richiede un’indagine psicologica molto più profonda di quanto possa inizialmente sembrare. E, malgrado la giovane età, il regista ha saputo affrontare la cosa con grande maestria e padronanza del mezzo cinematografico. Particolarmente d’effetto sono, a tal proposito, gli intensi primi piani di Lara, così come l’attenzione al suo corpo in trasformazione e ai momenti in cui la stessa si dedica anima e corpo alla danza, quasi se, così, volesse ella stessa plasmare il suo fisico a proprio piacimento.

Al di là della delicatezza dell’argomento in sé e al di là della grazia con cui Lukas Dhont ha messo in scena il tutto, ciò che in Girl maggiormente colpisce è la straordinaria – e mai sopra le righe – interpretazione del giovane attore e ballerino Victor Polster, nel ruolo della protagonista.

Un esordio di tutto rispetto, dunque, questo Girl. Direttamente dal Belgio, arriva nelle nostre sale una vera e propria perla da non lasciarsi sfuggire per nessun motivo.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – IL CRATERE di Silvia Luzi e Luca Bellino

ilcratereTITOLO: IL CRATERE; REGIA: Silvia Luzi, Luca Bellino; genere: drammatico; paese: Italia; anno: 2017; cast: Rosario Caroccia, Sharon Caroccia; durata: 97′

Nelle sale italiane dal 12 aprile, Il Cratere è il primo lungometraggio a soggetto dei documentaristi Silvia Luzi e Luca Bellino, presentato come film d’apertura della Settimana della Critica alla 74° Mostra d’Arte Cinematografia di Venezia.

Sharon è un’adolescente con uno straordinario talento per il canto. Suo padre Rosario è ben consapevole del dono di sua figlia e, stanco di vivere una vita in continue ristrettezze economiche, lavorando come venditore ambulante di peluches durante le fiere, per tutta la vita non ha fatto altro che spronare la figlia a coltivare la sua passione per il canto, sottoponendola a estenuanti esercizi per la voce e procurandole un gran numero di provini. La ragazza, com’è logico che sia, si sentirà eccessivamente sotto pressione, al punto di entrare in una profonda crisi personale.

Ed ecco che, ancora una volta, ci troviamo ad assistere a una sorta di miracolo cinematografico all’interno del nostro Bel Paese. In questo piccolo, ma importante lavoro, infatti, i due giovani cineasti riescono a mettere in scena il delicato rapporto padre-figlia riuscendo a cogliere ogni singola emozione e ogni più recondito sentimento che pervade i due protagonisti (interpretati da Rosario e Sharon Caroccia, padre e figlia anche nella via reale).

Sono ravvicinatissime inquadrature e dettagli del viso regalatici con un costante uso di camera a mano a trasmetterci quel senso di angoscia e claustrofobia che si respira fin dai primi minuti e che, nel corso della narrazione, non fa che diventare sempre più forte, fino a farsi addirittura insopportabile. Lo spettatore, dunque, soffre insieme alla giovane protagonista e viene coinvolto a 360°, grazie alla straordinaria padronanza del mezzo cinematografico da parte dei due registi, oltre che alla bravura degli stessi interpreti, entrambi alla loro prima esperienza sul grande schermo.

Con un piglio decisamente zavattiniano, dunque, Il Cratere si rivela un ottimo manuale di cinema del reale, in grado – proprio grazie alla particolare messa in scena – di colpire lo spettatore nel vivo e di distinguersi all’interno di un panorama cinematografico che, mai come in questo ultimo anno, ha visto comparire sul grande schermo uno spropositato numero di pellicole nostrane.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – SASHA E IL POLO NORD di Rémy Chayé

sasha-e-il-polo-nord-1-1800x730TITOLO: SASHA E IL POLO NORD; REGIA: Rémy Chayé; genere: animazione; paese: Francia; anno: 2015; durata: 81′

Nelle sale italiane dal 4 maggio, distribuito dalla P.F.A. Films, Sasha e il Polo Nord è il lungometraggio d’esordio del giovane regista francese Rémy Chayé.

Sasha è una giovane aristocratica russa. Vivace e ribelle, si oppone fin da subito alla sua famiglia, la quale ha già organizzato per lei un matrimonio combinato. La ragazza è da sempre appassionata di viaggi. Passione, questa, che le è stata trasmessa da suo nonno Oloukine, stimato esploratore mai tornato a casa dopo un viaggio al Polo Nord. Sarà volontà di Sasha partire alla volta del Grande Nord sulle tracce di suo nonno.

sasha-e-il-polo-nord-3-500x360Interessante esordio nel lungometraggio, questo di Rémy Chayé. Dopo essersi fatto notare, infatti, per i suoi precedenti lavori (The secret of Kells, del 2009, e La tela animata, del 2011) ecco dare vita, a quattro anni dalla sua ultima produzione, ad un romanzo di formazione sincero ed appassionante, con personaggi ben scritti – Sasha in primis, così come suo nonno ed i suoi compagni di viaggio, ad esempio – e, non per ultima, una realizzazione grafica particolarmente interessante, la quale prevede figure quasi bidimensionali e prive di contorni, ma, allo stesso tempo, curate nei dettagli, analogamente ai fondali che ci mostrano ora gli interni dell’aristocratico palazzo dove vive Sasha, ora il magnetico e sconosciuto Polo Nord.

sasha.ritagliareUna storia ambientata in Russia alla fine dell’Ottocento, ma che – proprio per la portata universale dei temi trattati, ossia la scoperta di sé stessi, la crescita, il difficile passaggio all’età adulta, l’amore per la verità e per l’avventura – può essere considerata a tutti gli effetti una storia senza tempo.

Ed ecco che un altro nome si affaccia sul panorama dell’animazione in Francia, la quale, a sua volta, grazie ad una particolare ricerca del nuovo e grazie soprattutto ad autori come Alain Gagnol, Jean-Loup Felicioli e Jean-François Laguionie (giusto per citarne solo alcuni) si conferma come uno dei paesi europei maggiormente interessanti nell’ambito del cinema d’animazione.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – AMERICAN PASTORAL di Ewan McGregor

american-pastoral-2016-movie-still-7TITOLO: AMERICAN PASTORAL; REGIA: Ewan McGregor; genere: drammatico; anno: 2016; paese: USA; cast: Ewan McGregor, Jennifer Connelly, Dakota Johnson; durata: 108′

Nelle sale italiane dal 20 ottobre, American Pastoral è l’esordio alla regia dell’attore Ewan McGregor, trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Philip Roth, vincitore del Premio Pulitzer.

Seymour Levov, detto “lo svedese”, ha avuto tutto dalla vita: è bello, intelligente, carismatico ed ha sposato una ex reginetta di bellezza, dalla quale ha avuto l’amata figlia Merry. Un giorno, però, tutto il suo mondo sembra crollare, nel momento in cui la ragazza compie un attacco terroristico che provoca la morte di un uomo.

american_pastoralOperazione ben riuscita per essere un esordio alla regia, questa di Ewan McGregor. L’attore, infatti, si è cimentato con un’opera piuttosto complessa e stratificata, in cui – al di là del sogno americano che viene distrutto, al di là del tema politico – centrale e tutt’altro che semplice è proprio il rapporto che lega il padre alla figlia. Nulla è scontato, nulla viene messo lì per caso. Eppure McGregor è riuscito a mantenere quanto basta quella giusta ambiguità presente nell’opera di Roth. Seymour e Merry sono due figure, se vogliamo, abbastanza stereotipate: lui rappresenta, appunto, l’americano medio di successo, con una bella casa ed una famiglia da sogno; lei (magistralmente interpretata da Dakota Johnson), invece, è la classica adolescente appassionata e sanguigna, che crede fermamente nei propri ideali e, per questo motivo, si scontra spesso con i suoi stessi genitori. Gli equilibri, però, si rompono nel momento in cui non tutto va secondo un copione prestabilito. E tutto questo viene messo in scena in modo magistrale: forte, ad esempio, è il contrasto – anche dal punto di vista della fotografia – tra i momenti di vera o apparente serenità e le scene in cui Seymour è alla disperata ricerca di Merry, dove i colori scuri, una regia essenziale con un esiguo numero di punti macchina stanno, appunto, a rappresentare l’animo stesso del protagonista.

1247403_american-pastoralFigura ambigua ed interessante, che però avrebbe potuto avere maggiori potenzialità è, invece, rappresentata da Dawn, moglie di Seymour e madre di Merry, con la quale ha sempre avuto un rapporto conflittuale – a prescindere dalle diverse idee politiche – e che cambia completamente registro nel corso della vicenda.

Tra i pochi appunti che si possono fare ad American Pastoral vi è, tuttavia, proprio il finale del film stesso, in cui – malgrado l’intenzione di lasciare lo spettatore in sospeso, analogamente a quanto viene fatto nel libro – si opta per una soluzione pericolosamente banale e scontata.

Detto questo, il lungometraggio si è rivelato – in ogni caso – un’interessante trasposizione ed un buon esordio alla regia. Una storia complessa ed appassionante che verrà apprezzata da molti e che ci fa sperare in altri soddisfacenti lavori futuri di Ewan McGregor.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

RENZO ARBORE al FESTIVAL TRASTEVERE GIOVEDì 21 LUGLIO

Ricevo e volentieri pubblico

image001 (1)Continuano i grandi ospiti al Festival Trastevere. Giovedì 21 Luglio sarà la prima volta di RENZO ARBORE in Piazza San Cosimato. Presenterà Il Pap’occhio  da lui scritto e diretto nel 1980 con Roberto Benigni, Diego Abatantuono, Andy Luotto, Isabella Rosellini, irriverente commedia sequestrata dalla censura quando uscì.

Renzo Arbore, artista da sempre eclettico e sperimentale, con Il Pap’occhio esordisce alla regia con una commedia surreale in cui si diverte a mescolare citazioni artistiche, letterali e cinematografiche, con personaggi televisivi popolari. Attraverso una satira scanzonata e leggera su politica, religione, cultura massificata e media mette in luce i limiti dell’Italia perbenista fino a  minare alle fondamenta un tabù dell’Italia democristiana: la Chiesa. Non a caso, il film è stato sequestrato con l’accusa di vilipendio alla religione.

Rivedere il film sul grande schermo di Piazza San Cosimato alla sua presenza sarà occasione per far conoscere questo grande artista ai giovanissimi, troppo piccoli per età anagrafica per aver vissuto la rivoluzione dello spettacolo portata da Arbore e i suoi indimenticabili Quelli della notte.

Preoccupato per il crescere dei buddisti e per il cedere della gioventù alle discoteche e alla droga, il Papa, tra gli esercizi ginnici e le lezioni private di lingua italiana, decide di dare l’avvio alla televisione vaticana con uno spettacolo leggero in mondovisione. La regia è affidata a Martin Scorsese e l’allestimento dello spettacolo a Renzo Arbore e alla sua compagnia. Questi accetta e, assicuratosi l’appoggio di Roberto Benigni col quale da un po’ è in rotta, trasferisce in Vaticano tutta la sua abituale troupe…

Il Festival Trastevere Rione del Cinema, tra retrospettive su Xavier Dolan, classici Disney,  partite dell’Italia ed il tributo a Sergio Leone sulla Scalea del Tamburino supera i partecipanti totali della scorsa edizione con 50.000 persone in 50 giorni, due maxi schermi ed ospiti d’eccezione come Roberto Benigni, Ennio Morricone, Carlo Verdone, Ferzan Özpetek, Dario Argento, Paolo Virzì, Stefania Sandrelli,Valerio Mastandrea, Paolo Sorrentino, Toni Servillo. Per chiuder il 1 agosto con Daniele Vicari e Silvia Scola che presenteranno Ballando ballando di Ettore Scola.

LA BIENNALE DI VENEZIA: JEAN-PAUL BELMONDO E JERZY SKOLIMOVSKI LEONI D’ORO ALLA CARRIERA ALLA 73° MOSTRA D’ARTE CINEMATOGRAFICA

Ricevo e volentieri pubblico

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Sono stati attribuiti all’attore francese Jean-Paul Belmondo e al regista polacco Jerzy Skolimowski i Leoni d’oro alla carriera della 73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (31 agosto – 10 settembre 2016).

La decisione è stata presa dal Cda della Biennale di Venezia presieduto da Paolo Baratta, su proposta del Direttore della Mostra del Cinema Alberto Barbera.

A partire da quest’anno, il Cda ha deciso l’attribuzione di due Leoni d’Oro alla carriera in ciascuna delle edizioni future della Mostra: il primo assegnato a registi o appartenenti al mondo della realizzazione; il secondo a un attore o un’attrice ovvero a personaggi appartenenti al mondo dell’interpretazione.

Jean-Paul Belmondo, icona del cinema francese e internazionale, ha saputo interpretare al meglio l’afflato di modernità tipico della Nouvelle Vague attraverso gli straniati personaggi di A doppia mandata (À double tour, 1959) di Claude Chabrol,Fino all’ultimo respiro (1960) e Il bandito delle 11 (1965, in concorso a Venezia) entrambi di Jean-Luc Godard, o La mia droga si chiama Julie (1969) di François Truffaut. In particolare, impersonando Michel Poiccard/László Kovács in Fino all’ultimo respiro, Belmondo ha imposto la figura di un antieroe provocatorio e seducente, molto diverso dagli stereotipi hollywoodiani ai quali lo stesso Godard si ispirava. La sua recitazione estroversa gli ha consentito poi di interpretare alcuni dei migliori gangster del cinema poliziesco francese, come in Asfalto che scotta (1960) di Claude Sautet, Lo spione (1962) di Jean-Pierre Melville e Il clan dei marsigliesi (1972) di José Giovanni, ottenendo un enorme successo popolare con i molti film successivi, da L’uomo di Rio (1964) di Philippe de Broca a Il poliziotto della brigata criminale (1975) di Henri Verneuil, da Joss il professionista (1981) di Georges Lautner a Una vita non basta (1988) di Claude Lelouch. “Un volto affascinante, una simpatia irresistibile, una straordinaria versatilità – ha dichiarato il Direttore Alberto Barbera nella motivazione – che gli ha consentito di interpretare di volta in volta ruoli drammatici, avventurosi e persino comici, e che hanno fatto di lui una star universalmente apprezzata, sia dagli autori impegnati che dal cinema di semplice intrattenimento”.

Jerzy Skolimovski_credits Robert Jaworski Jerzy Skolimowski – ha dichiarato il Direttore Alberto Barbera nella motivazione – è tra i cineasti più rappresentativi di quel cinema moderno nato in seno alle nouvelles vague degli anni Sessanta e, insieme con Roman Polanski, il regista che ha maggiormente contribuito al rinnovamento del cinema polacco del periodo”. Lo stesso Polanski (che lo volle accanto come sceneggiatore nel suo film d’esordio Il coltello nell’acqua), ebbe a predire: “Skolimowski sovrasterà la sua generazione con la testa e le spalle”. In realtà, la carriera del “boxeur poeta” (secondo la definizione datane da Andrzej Munk, il “padre” cinematografico di Skolimowski), durata ben oltre cinquant’anni con diciassette lungometraggi realizzati, è stata tutt’altro che facile, segnata da continui dislocamenti – dalla Polonia al Belgio, dall’Inghilterra agli Stati Uniti, prima del definitivo ritorno in Patria avvenuto meno di dieci anni fa – che ne hanno contrassegnato l’opera: apolide in apparenza, perché assoggettata a strategie produttive eterogenee ed apparentemente diseguali, in realtà personalissima e originale in ciascuna delle opere in cui si è concretizzata. La trilogia realizzata in Polonia ai suoi esordi, Rysopis (1964), Walkover (1965) e Barriera (1966), fu per i Paesi dell’Est ciò che i primi film di Godard sono stati per il cinema occidentale, mentre i capolavori successivi – Il vergine (1967, Orso d’oro a Berlino), La ragazza del bagno pubblico (1970), L’australiano (1978, Grand Prix a Cannes), Mani in alto! (1981), Moonlighting (1982, migliore sceneggiatura a Cannes)sono tra i film più rappresentativi di un cinema moderno, libero e innovatore, radicalmente anticonformista e audace. I film più recenti realizzati dopo il ritorno in patria –Quattro notti con Anna (2008), Essential Killing (2010, Premio Speciale della Giuria a Venezia) e 11 minuti (2015, in concorso a Venezia)manifestano infine un’inesauribile e sorprendente capacità di rinnovamento, che lo collocano di diritto tra gli autori più combattivi e originali del cinema contemporaneo.

 Il programma completo della 73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia verrà presentato alla stampa il 28 luglio p.v. a Roma, all’Hotel Excelsior (ore 11).

 Venezia, 14 luglio 2016

LA RECENSIONE DI MARINA: LA CASA DELLE ESTATI LONTANE di Shirel Amitay

LA-CASA-DELLE-ESTATI-LONTANE-3883-e1464796170520TITOLO: LA CASA DELLE ESTATI LONTANE; REGIA: Shirel Amitay; genere: drammatico, commedia; anno: 2014; paese: Francia, Israele; cast: Géraldine Nakache, Yael Abecassis, Judith Chemla; durata: 91′

Nelle sale italiane dal 16 giugno, La casa delle estati lontane è il lungometraggio d’esordio della sceneggiatrice israeliana Shirel Amitay.

Israele, 1995. Poche settimane prima dell’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin. Darel, Cali e Asia sono tre sorelle francesi che vivono in Canada. Le tre, al fine di vendere la casa dei genitori defunti, tornano nel piccolo villaggio israeliano dove erano solite trascorrere le vacanze estive con la famiglia. Man mano che passano i giorni, le tre impareranno a conoscersi davvero ed a capire quali siano le cosa veramente importanti nella vita.

la_casa_delle_estati_lontane_judith_chemla_yal_abecassisNumerosi i riferimenti alla situazione politica israeliana degli anni Novanta. Ciò che pervade tutto il lungometraggio dell’esordiente Amitay, infatti, è un desiderio di pace e di libertà, forte più che mai. I personaggi cercano sé stessi, una propria pace interiore, una certa stabilità. Valori, questi, che sono stati messi in discussione prima di tutto dalla situazione politica. Ed il tutto, ovviamente, ha delle ripercussioni sulla vita privata. Il lavoro della Amitay è, pertanto, sì un film che trasmette ottimismo, oltre ad una buona dose di speranza in merito, eppure, noi – essendo per forza di cose a conoscenza di quanto che è accaduto in quel fatidico anno – non possiamo non percepire un senso di vuoto, di sgomento, quasi di angoscia nel vedere l’attitudine dei protagonisti e la loro fiducia in una pace prossima. Per questi motivi, possiamo dire che La casa delle estati lontane è perfettamente riuscito a trasmettere le iniziali intenzioni dell’autrice.

la_casa_delle_estati_lontane_yal_abecassis_graldine_nakache_judith_chemla2Detto questo, dal punto di vista della realizzazione tecnica in sé, troviamo elementi interessanti, ma anche fattori che convincono poco. Immagini poetiche – come, ad esempio, le tre sorelle che passeggiano in riva al mare o che scherzano tra di loro come se fossero di nuovo bambine – del tutto ben realizzate, ed una singolare commistione tra il reale ed il fantastico, sulla quale, però, al fine di renderla davvero efficace, si sarebbe potuto calcare ulteriormente la mano.

la_casa_delle_estati_lontane_yal_abecassis_graldine_nakache_judith_chemlaIl problema principale del lungometraggio della Amitay, infatti, è proprio questo: quasi una sorta di timore di esagerare, che ha come risultato un film dalle grandi potenzialità, ma che dà l’impressione di essersi quasi fermato a metà strada, di non aver compiuto appieno il suo percorso di maturazione. Un film che tratta temi importanti, ma che, tuttavia, non riesce a trasmettere molto. La spiegazione di determinate scelte potrebbe essere data proprio dal fatto che si tratti di un’opera prima. Non resta che aspettare, dunque, ulteriori lavori della regista israeliana.

Nonostante le sua mancanze, però, La casa delle estati lontane resta di fatto un prodotto pulito ed onesto, che ci mostra in modo del tutto personale e trasversale lo spirito di un popolo alla vigilia di uno degli avvenimenti che maggiormente ha segnato la sua nazione. E, proprio per queste sue peculiarità, merita senz’altro di essere visto.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

IL CINEMA ITALIANO A CANNES CON 6 TITOLI

Ricevo e volentieri pubblico

 

Il cinema italiano al Festival di Cannes 2016 con 6 titoli

tra diversità di generi e vitalità dell’offerta

 

Capitanati da Marco Bellocchio  che aprirà la Quinzaine con Fai bei sogni, i registi italiani presentano al Festival di Cannes sei titoli, un numero che dovrebbe far riflettere sulla vitalità di una cinematografia  in costante divenire.  La tripletta della Quinzaine comprende La pazza gioia di Paolo VirzìFiore, quarto lungometraggio di Claudio Giovannesi.

Nelle sezioni ufficiali, Un Certain Regard, si affaccia Pericle il nero, opera terza di Stefano Mordini e tra le proiezioni speciali il documentario L’ultima spiaggia, esordio nel lungometraggio di Davide Del Degan e Thanos Anastopoulos.  Sempre in proiezione speciale, ma in Semaine de la Critique, verrà proposto il secondo film di Alessandro Comodin  I tempi felici verranno presto.

Nella competizione cortometraggi è stato selezionato Il Silenzio di Farnoosh Samadi e Ali Asgari mentre il Centro Sperimentale di Cinematografia porterà all’Atelier de Cinéfondation La santa che dorme di Laura Samani.

Una selezione, quella  del 69° Festival di Cannes, che traccia  una mappa del cinema italiano ricca e originale, come sottolinea Roberto Cicutto, presidente e AD di Istituto Luce-Cinecittà, che nota ‘una significativa consonanza tra la cinquina per il miglior film dei David di Donatello, appena applaudita ieri sera, e la presenza dei film italiani a Cannes: eterogenea nelle personalità degli autori e nei generi. Con un eclettismo che è segno specifico di tutta la storia del nostro cinema, e di una vitalità che unisce i nostri più affermati registi agli autori emergenti e agli esordienti. Un segno che va letto più che positivamente in chiave di qualità e vitalità, e di attenzione da parte del più prestigioso festival internazionale nei confronti della nostra produzione’.