VENEZIA 75 – MONROVIA, INDIANA di Frederick Wiseman

46188-Monrovia__Indiana_-_Frederick_Wiseman__Film_still__2_TITOLO: MONROVIA, INDIANA; REGIA: Frederick Wiseman; genere: documentario; paese: USA; anno: 2018; durata: 143′

Presentato fuori concorso alla 75° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, Monrovia, Indiana è l’ultimo lavoro del celebre documentarista statunitense Frederick Wiseman.

Se in passato il maestro ci aveva mostrato aspetti di vita riguardanti università, biblioteche, singolari quartieri e, più in generale, grandi centri nevralgici, eccolo scegliere, in questa occasione, un piccolo paesino rurale del Midwest (Monrovia, appunto, nello stato dell’Indiana), in cui abitano soltanto 1400 cittadini e in cui il tempo, sotto molti aspetti, sembra essersi davvero fermato.

Con una struttura narrativa che tanto sta a ricordare il ciclo della vita (dalla prima infanzia, momento in cui ci viene mostrata la vita all’interno di una scuola, fino alla morte, quando assistiamo ai funerali di un’anziana signora), il regista si inserisce con il suo solito fare discreto e quasi “invisibile” all’interno di questa piccola comunità rurale, mostrandoci – come solo lui sa fare – scene di vita quotidiana riguardanti il lavoro all’interno di allevamenti, i momenti degli acquisti al supermercato, piccole assemblee cittadine, il lavoro del veterinario locale e persino la produzione di bistecche ed hamburger. Ed ecco che, dopo sole due ore e venti, anche noi ci sentiamo parte di quel piccolo mondo fuori dal tempo. Quasi come se lo conoscessimo da sempre.

Non ha paura, Wiseman, di giocare con gli stereotipi. Non ha paura di risultare eccessivo, nel mostrarci le piccole stranezze e le bizzarre abitudini di alcuni abitanti. La sua macchina da presa, al contrario, osserva – silenziosa e riservata come sempre – il tutto con sguardo benevolo, affettuoso, persino nostalgico, se si pensa che di realtà del genere ce n’è sempre meno nel mondo, a causa della globalizzazione. Frederick Wiseman, dal canto suo, è innamorato di ciò che ci racconta. E, ancora una volta, è riuscito a far suo quel piccolo, curioso mondo fino a poco tempo fa a lui così lontano.

Per il tema trattato, così come per la sua singolare struttura narrativa, questo prezioso Monrovia, Indiana può classificarsi di diritto quasi come una sorta di “opera definitiva”; a detta dello stesso regista, il giusto corollario della serie sulla vita americana contemporanea. Un’opera la cui durata è piuttosto contenuta, rispetto ai precedenti lavori dell’autore, ma che, forse anche grazie alla sua particolare struttura autoconclusiva, risulta, probabilmente, il suo lavoro più completo. Una finestra spalancata su un mondo a noi sconosciuto, da cui non vorremmo allontanarci poi così presto, ma che, ahimé, sta pian piano svanendo. Ma, si sa, la particolarità del cinema di Wiseman è proprio questa: tutti noi, davanti allo schermo, ci troviamo di punto in bianco catapultati in un nuovo mondo, che, ben presto, sentiamo come se fosse nostro da sempre.

VOTO: 9/10

Marina Pavido

 

LA RECENSIONE – LAZZARO FELICE di Alice Rohrwacher

lazzaro feliceTITOLO: LAZZARO FELICE; REGIA: Alice Rohrwacher; genere: drammatico; paese: Italia; anno: 2018; cast: Adriano Tardiolo, Alba Rohrwacher, Nicoletta Braschi; durata: 130′

Nelle sale italiane dal 31 maggio, Lazzaro felice è l’ultima fatica della giovane regista Alice Rohrwacher, presentato in concorso alla 71° edizione del Festival di Cannes, dove ha vinto la Palma d’Oro alla Miglior Sceneggiatura, ex aequo con Three Faces di Jafar Panahi.

Il giovane Lazzaro, non ancora ventenne, vive in un casolare di campagna insieme alla sua numerosa famiglia, con la quale lavora come contadino a servizio di una nobildonna. La padrona della terra, tuttavia, altro non fa che sfruttare i suoi dipendenti, costringendoli a vivere come schiavi, senza che sappiano nulla di come vadano le cose al di fuori della campagna in cui vivono. Nel momento in cui le autorità si accorgeranno di tale situazione, saranno tutti finalmente liberati, ma non sarà affatto facile adattarsi alla vita al di fuori del loro piccolo mondo.

Un tema di grande potenza, che si fa metafora della nostra società, dei giochi di potere effettuati da padroni, datori di lavoro e banche, ma anche dell’ultimo secolo della storia della nostra Italia. Particolarmente interessante, a tal proposito, è l’ambientazione: durante le prime scene, girate all’interno del casolare di campagna (con atmosfere che tanto stanno a ricordarci il cinema del compianto Ermanno Olmi), si ha l’impressione di trovarsi nell’Italia degli anni Cinquanta. Eppure, vi sono piccoli, sporadici elementi che rimandano all’epoca contemporanea. La cosa si fa maggiormente evidente nel momento in cui i carabinieri fanno irruzione in quel piccolo mondo fuori dal tempo, riportandoci immediatamente ai giorni nostri. Il tutto resta comunque volutamente ambiguo, dal punto di vista spazio-temporale e, unitamente a piccole caratteristiche dei protagonisti e dello stesso Lazzaro, assume un che di surreale, di magico, addirittura di onirico. Particolarmente d’effetto, a tal proposito, l’abitudine – sia del protagonista che della sua famiglia – di soffiare uno strano vento che tanto sta a ricordarci il vento felliniano e il suo significato intrinseco di morte.

E poi, ovviamente, c’è lui, il giovane Lazzaro (interpretato da un ottimo Adriano Tardiolo, qui al suo esordio sul grande schermo). Sempre sereno, sorridente, sembra non desiderare mai nulla per sé, ma, al contrario, sembra sperare solo che agli altri possa capitare del bene. Il ragazzo – analogamente a molte figure della nostra stessa società che vengono banalmente emarginate – è talmente buono, da risultare addirittura stupido. Una sorta di santo che non fa miracoli e che vedrà nella figura di Tancredi – figlio della nobildonna per cui lavora – il suo primo, vero amico. Un amico che non smetterà mai di cercare per tutta la vita.

E così, questo complesso e stratificato lavoro della Rohrwacher – realizzato, tra l’altro, rigorosamente in pellicola – è riuscito a conquistare anche il pubblico di Cannes. La cosa, ovviamente, è stata del tutto meritata e non fa che confermare la giovane autrice come uno dei nomi maggiormente da tener d’occhio all’interno del panorama cinematografico nostrano.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – STATO DI EBBREZZA di Luca Biglione

Stato-di-ebbrezzaTITOLO: STATO DI EBBREZZA; REGIA: Luca Biglione; genere: biografico, drammatico; paese: Italia; anno: 2018; cast: Francesca Inaudi, Andrea Roncato, Fabio Troiano; durata: 90′

Nelle sale italiane dal 24 maggio, Stato di Ebbrezza è l’ultimo lungometraggio diretto da Luca Biglione.

Tratto da una storia vera, il film racconta le vicende della cabarettista Maria Rossi, la quale, in seguito alla morte della madre, è diventata alcolista. Saranno l’aiuto del padre e del fratello, la nascita di nuove, importanti amicizie e la lunga degenza in una clinica per disintossicarsi a darle la possibilità di liberarsi dalla dipendenza dall’alcool e di ritornare sul palco.

La vera Maria Rossi ha dato il suo contributo nella stesura della sceneggiatura e, sia all’inizio che in chiusura del lungometraggio, la si vede sullo schermo, nel ruolo di sé stessa. Un lavoro, dunque, molto sentito e molto personale, questo realizzato da Biglione. Un lavoro che, di fianco a non poche imperfezioni (riguardanti particolarmente lo stesso script), vede anche momenti particolarmente riusciti e di grande impatto emotivo.

Dopo aver visto la giovane Maria esibirsi sul palco, ecco che, nel giro di pochissimi minuti, vediamo una serie di eventi susseguirsi in modo a volte eccessivamente repentino, almeno fino al punto in cui non si arriva al momento del ricovero della protagonista: è qui che si svolge la maggior parte del lungometraggio ed è qui che vediamo la donna iniziare piano piano ad ambientarsi, fino al punto di instaurare forti legami sia con la dottoressa che la segue che con altre persone ricoverate.

Ciò a cui ci viene immediatamente da pensare è il film Si può fare, diretto nel 2008 da Giulio Manfredonia, data la particolare ambientazione e le tematiche trattate. A differenza del suddetto prodotto, tuttavia, Stato di Ebbrezza risulta più grezzo, più “ingenuo”, con personaggi sì empatici, ma con un background di scrittura di gran lunga meno approfondito rispetto a quanto realizzato da Manfredonia (e dallo sceneggiature Fabio Bonifacci).

Ma tant’è. Il lavoro, nel suo complesso, sembra funzionare. Al di là della riuscita finale, però, Stato di Ebbrezza ha visto soprattutto una grandissima prova attoriale di Francesca Inaudi (nel ruolo di Maria Rossi), sempre convincente, ma qui al massimo della forma. C’è da augurarsi soprattutto che possa ottenere i riconoscimenti che merita per questa sua ottima performance.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

20° FAR EAST FILM FESTIVAL – ON HAPPINESS ROAD di Sung Hsin Yin

on happiness roadTITOLO: ON HAPPINESS ROAD; REGIA: Sung Hsin Yin; genere: animazione; paese: Taiwan; anno: 2017; durata: 111′

Presentato in anteprima europea alla 20° edizione del Far East Film Festival di Udine, On Happiness Road è un interessante lavoro di animazione della regista taiwanese Sung Hsin Yin.

Con una forte componente autobiografica, il lavoro ci racconta le vicende di Lin Shu-chi, la quale, dopo essere venuta a conoscenza della morte di sua nonna, decide di tornare per un periodo nella cittadina taiwanese dove è nata e cresciuta – precisamente in via Felicità – e che aveva abbandonato soltanto in età adulta per trasferirsi negli Stati Uniti. L’incontro con i suoi genitori e con alcuni amici d’infanzia l’aiuteranno a riflettere sulla sua vita e sui suoi desideri.

E così, con continui flashback e numerose scene oniriche, le vicende della giovane Chi vanno di pari passo con la storia del Taiwan stesso, con la sua politica, la sua cultura, i suoi movimenti studenteschi e le sue disgrazie. Un lungometraggio sentito e personalissimo, in cui si ripercorrono quarant’anni di storia di un’intera nazione, senza la pretesa di voler lanciare a tutti i costi un preciso messaggio politico, ma dove la messa in scena si fa espressione semplice e diretta di un grande amore nei confronti del proprio paese e delle proprie origini. Origini che, ovviamente, vengono intese anche nell’accezione di vere e proprie tradizioni popolari (particolarmente emblematico, a tal proposito, il personaggio della nonna di Chi, aborigena taiwanese che, come vediamo durante i flashback, ogni volta che va a trovare l’adorata nipote, non fa che presentarle nuove, bizzarre usanze).

Una riflessione particolare, inoltre, merita la realizzazione grafica. Particolarmente suggestiva l’animazione in 2D che prevede fondali realizzati con acquerelli dai toni prevalentemente pastello che contrastano sapientemente con figure dai contorni netti e ben delineati. Per non parlare dei momenti onirici o riguardanti l’immaginario di Chi bambina, dove i contorni spariscono del tutto, le immagini e i personaggi di fanno mutanti e non mancano raffinati riferimenti all’immaginario fiabesco che stanno a ricordarci che, in fondo, nessuno – né la protagonista, né tantomeno noi – ha in realtà mai smesso di essere bambino.

Ed ecco che – con un lungometraggio in cui, per certi versi, si sente forte l’influenza di lavori come Pioggia di Ricordi (1991) o I miei Vicini Yamada (1999), entrambi del maestro Isao Takahata e a cui, forse, si può rimproverare una sceneggiatura che tende a farsi leggermente più sfilacciata man mano che ci si avvicina al finale – il mondo dell’animazione taiwanese ha trovato una degna rappresentante in Sung Hsin Yin, la quale, con grande sensibilità e un lirismo di fondo tipico della cultura orientale, ha saputo mettere in scena una storia personale e universale allo stesso tempo, la storia di una singola persona e quella di un’intera nazione, apologia degli affetti, delle tradizioni e degli antichi valori, che vede in un singolare rapporto nonna-nipote una perfetta connessione tra presente e passato, tra sé stessi e il resto del mondo. Una strada sicura per la felicità.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

renato-zero-a-roma-740x350.jpg.pagespeed.ce_.EdaFcoDRwsTITOLO: ZEROVSKIJ SOLO PER AMORE; REGIA: Renato Zero; paese: Italia; anno: 2017; durata: 143′

Nelle sale italiane solo il 19, 20 e 21 marzo, Zerovskij Solo per Amore è un documentario, diretto ed interpretato dal celebre cantante Renato Zero, il quale ci mostra la registrazione di un concerto durante la tournée dedicata all’uscita dell’album Zerovskij Solo per Amore, appunto.

Stazione Terra. Una serie di bizzarri personaggi fanno, uno dopo l’altro, il loro ingresso sul palco: da Adamo ed Eva in versione contemporanea a un giovane che da bambino è stato abbandonato da suo padre, da un singolare Amore sulla sedia a rotelle, fino alla Morte in carne ed ossa. Ad interagire, di volta in volta, con ognuno di loro, lui: il grande Renato Zero, con le sue riflessioni sulla vita e sull’umanità e, non per ultime, le sue performance canore.

Una riflessione sull’uomo, sul senso della vita e della morte, sull’arte, sulla cultura e sull’amore, questo importante lavoro di Zero, il quale, come sempre ironico e mai particolarmente ansioso di dare risposte definitive alle sopracitate questioni, riesce a tenere banco per oltre due ore, davanti ad un pubblico letteralmente in visibilio. E la macchina da presa, in tutto ciò, cosa fa? Con una serie di carrellate e dolly, non fa che seguire passo passo il cantante ed interprete per tutta la durata dello spettacolo, intervallando di quando in quando qualche breve controcampo sul pubblico o, addirittura – unico, vero elemento “esterno” – un Gigi Proietti in versione “bombarolo”, che si accinge a salire su di un treno fermo in stazione. Una regia semplice, pulita, che al massimo si concede qualche gioco di luce e di sovrimpressione, questa scelta da Renato Zero per la realizzazione del suo progetto, il quale, a sua volta, perfettamente in linea con le aspettative di ogni spettatore, non fa che rivelarsi, psichedelico, maestoso, addirittura travolgente.

Non vi sono intermezzi, interviste o ulteriori inserti, in Zerovskij Solo per Amore. Ciò che viene ripreso è semplicemente lo spettacolo, la realtà così com’è, la parola viene lasciata esclusivamente alle immagini, per un documentario che abbraccia Cinema, Teatro e Musica e che, al di là dei personali gusti del pubblico, in linea di massima funziona, pur senza particolari guizzi narrativi o sorprese che prescindano da ciò che accade sul palco dell’Arena di Verona, dove tutto ha luogo.

Una delle critiche che si potrebbero muovere contro un documentario come questo realizzato da Zero, probabilmente, è proprio l’assenza di un qualcosa in più, di uno sguardo che – nel mostrarci la performance del cantante romano – ci sappia regalare un suo personale punto di vista, una sua necessaria soggettività. Cosa, questa, tuttavia impossibile in questo caso, dal momento che è lo stesso Renato Zero ad aver ricoperto il ruolo di regista. E queste operazioni, si sa, non sempre finiscono per rivelarsi vincenti. Ma tant’è. Nel complesso, Zerovskij Solo per Amore è un prodotto gradevole e pulito, in grado di coinvolgere lo spettatore dall’inizio alla fine, senza mai particolari cali di ritmo. Indubbiamente, i numerosi sorcini apprezzeranno.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – CARAVAGGIO, L’ANIMA E IL SANGUE di Jesus Garces Lambert

caravaggioTITOLO: CARAVAGGIO – L’ANIMA E IL SANGUE; REGIA: Jesus Garces Lambert; genere: documentario; paese: Italia, USA; anno: 2017

Nelle sale italiane come evento speciale soltanto il 19, 20 e 21 febbraio 2018, Caravaggio – L’Anima e il Sangue è un interessante documentario sulla vita del celebre pittore, diretto dal documentarista Jesus Garces Lambert e prodotto da Sky, in collaborazione con Magnitudo Film.

Un uomo – un Michelangelo Merisi contemporaneo – si fascia la bocca ed il naso con del cellophan. Contemporaneamente, una farfalla, sbattendo le ali, all’interno di una lampada ad olio, sembra voler a tutti i costi fuggire via, senza riuscirci. E così, perfettamente in linea con il carattere del celebre pittore, fin da subito ci è palese quell’energia, quel carattere impetuoso di Merisi, che non pochi problemi con la giustizia gli ha procurato durante la sua breve vita. Una voce fuori campo inizia a raccontarci le gesta del Caravaggio, da quando, insieme alla famiglia, dovette fuggire dalla sua città natale a causa di un’epidemia di peste, per poi illustrarci la sua brillante carriera, fino a parlarci della sua morte prematura, avvenuta in circostanze misteriose. Di quando in quando, è lo stesso Caravaggio ad intervenire – con la voce di Manuel Agnelli – interrompendo la narrazione, per mettere a nudo i suoi sentimenti, i suoi pensieri più intimi. E poi, non per ultima, c’è l’Arte allo stato puro. Circa quaranta opere di Michelangelo Merisi vengono analizzate fin nel dettaglio – con interventi degli studiosi Claudio Strinati, Mina Gregori e Rossella Vodret – con giochi di luce che non stanno a rovinare le immagini originali ed una macchina da presa che, molto ravvicinata, ma anche estremamente riverente, ci mostra, di volta in volta, ogni singolo centimetro dei dipinti presi in esame.

Siamo d’accordo. Dato il tema trattato, non è difficile dar vita ad un prodotto accattivante e ben realizzato. Eppure, la scelta del tipo di messa in scena, come ben sappiamo, la differenza la fa eccome. Se pensiamo, ad esempio, al precedente documentario firmato Sky Raffaello, il Principe delle Arti, di certo ricordiamo alcune scelte registiche rivelatesi successivamente poco indovinate, se non addirittura posticce. Basti pensare, ad esempio, alle poco convincenti scene in live action che, di quando in quando, andavano ad interrompere la narrazione. In questo caso, fortunatamente, Garces Lambert ha optato per una regia molto più semplice, ma efficace, che senza troppi fronzoli arriva dritta al punto e che sa renderci un ritratto a tutto tondo del pittore di Caravaggio . E poi, diciamolo pure, anche l’occhio vuole la sua parte ed un artista come Michelangelo Merisi ancora oggi sa arrivare dritto al cuore di chi ne ammira l’opera.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – THOR: RAGNAROCK di Taika Waititi

thor-ragnarok-hela-copertinaTITOLO: THOR RAGNAROCK; REGIA: Taika Waititi; genere: fantastico; paese: USA; anno: 2017; cast: Chris Hemsworth, Cate Blanchett, Mark Ruffalo; durata: 130’

Nelle sale italiane dal 25 ottobre, Thor: Ragnarock, diretto da Taika Waititi e basato sull’omonimo personaggio dei fumetti Marvel Comics, è il terzo film della saga di Thor (dopo Thor e Thor: The dark World), nonché diciassettesimo film della Marvel Cinematic Universe.

Thor, il potente dio del tuono, dopo aver perso il proprio martello, si trova imprigionato sul pianeta Sakaar. Sarà un’impresa piuttosto ardua tornare ad Asgard e fermare la pericolosa Hela, sua sorella (diventata dea della morte), al fine di impedire, così, il Ragnarock, terribile battaglia tra le potenze della luce e quelle delle tenebre.

Che l’ultimo film della trilogia di Thor sia uno dei titoli maggiormente attesi dai fan della Marvel, è cosa risaputa. Da subito, infatti, le vicende del fortissimo – e biondissimo – dio del tuono hanno avuto un effetto a dir poco magnetico sul pubblico. E Thor: Ragnarock, ultimo capitolo, di certo non ha deluso le aspettative. Al contrario, rispetto ai precedenti film – Thor e Thor: The dark World, appunto – questo ultimo lavoro si è rivelato addirittura ancora più interessante. Che sia merito dello spiccato tono da commedia che il giovane Taika Waititi ha voluto conferirgli? O invece dei personaggi di Hulk e della terribile Hela – interpretata da un’insolita, ma sempre vincente Cate Blanchett? Probabilmente, di un insieme di fattori che hanno contribuito alla realizzazione di una degna conclusione della trilogia.

Lo stesso Waititi – cineasta neozelandese, qui alla sua prima produzione con un importante budget alle spalle – sembra particolarmente a proprio agio in questo nuovo progetto. Particolarmente evidente è soprattutto il fatto che si sia addirittura divertito nel mettere in scena i vari combattimenti e le situazioni più estreme vissute dai protagonisti. Che venga scelto anche per qualche altro lungometraggio targato Marvel? A questo punto, non possiamo che augurarcelo. Una nuova avventura, tra l’altro, sembra essere imminente. Almeno secondo i titoli di coda che fanno tanto, ma proprio tanto saga di 007.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

19° FAR EAST FILM FESTIVAL – SATOSHI: A MOVE FOR TOMORROW di Mori Yoshitaka

AS20160524001110_commTITOLO: SATOSHI: A MOVE FOR TOMORROW; REGIA: Mori Yoshitaka; genere: biografico, drammatico; anno: 2016; paese: Giappone; cast: Kenichi Matsuyama; durata: 124′

Presentato in anteprima alla 19° edizione del Far East Film Festival, Satoshi: a move for tomorrow è l’ultimo lungometraggio diretto da Mori Yoshitaka, biopic sulla vita del celebre giocatore di shogi – una variante giapponese degli scacchi – Satoshi Murayama, morto nel 1998 a soli 29 anni.

Il giovane Satoshi è da sempre cagionevole di salute: i suoi reni non hanno mai funzionato come si deve e fin da bambino è costretto a sottoporsi a pesanti cure. Il suo stato di salute ed il fatto di dover trascorrere molte giornate a letto, però, faranno nascere in lui la passione per lo shogi. Una passione talmente forte da farlo diventare, a soli ventiquattro anni, un grande campione, il cui principale obiettivo sarà battere il freddo e calcolatore Habu, il suo più temuto avversario.

Indubbiamente una figura come quella di Satoshi Murayama può far gola a parecchi cineasti. Il difficile, poi, viene nel momento in cui – nel raccontare la sua breve vita – bisogna evitare ogni pericoloso, ma rischioso cliché. A tal proposito, però, bisogna ammettere che Mori Yoshitaka è stato in grado di dar vita ad un lungometraggio più che dignitoso, senza particolari sbavature e che – nell’ambito di una messa in scena di impronta quasi occidentale – ha saputo rendere giustizia al gioco dello shogi stesso ed a tutti i relativi rituali. Ed ecco che plongés inquadranti il tavolo da gioco, dettagli sulle mani dei personaggi che muovono le pedine ed i rumori delle stesse che vengono spostate sul tavolo – secchi, pieni, che regalano quasi un senso di profonda soddisfazione – diventano i grandi protagonisti dei momenti in cui Satoshi è intento a sfidare i suoi avversari. Momenti di puro cinema in cui la parola lascia esclusivamente lo spazio alle immagini. Tutto il resto è superfluo. Ed ecco che la tensione dei giocatori diventa anche la nostra tensione, quasi come se anche noi stessimo prendendo parte al gioco.

Il Satoshi di Mori Yoshitaka – interpretato dal bravo Kenichi Matsuyama, che per l’occasione è dovuto ingrassare di ben venticinque chili – è, dal canto suo, un ragazzone timido e trasandato, appassionato di graphic novels e completamente dedito al gioco dello shogi, per il quale arriverà anche a trascurare la propria salute. Un ragazzo a cui è impossibile non voler bene, molto amato dalla propria famiglia e dagli amici e che coltiva il sogno nel cassetto di potersi, in un futuro che, come egli stesso sa bene, non arriverà mai, sposare ed innamorare. Di sicuro, un personaggio che non si dimentica facilmente e che fa sì che Satoshi: a move for tomorrow possa quasi considerarsi il film di Kenichi Matsuyama, data, appunto, la sua straordinaria prova d’attore.

Che questo ultimo lavoro di Mori Yoshitaka sia, dunque, un prodotto più che dignitoso, non v’è alcun dubbio. Una domanda, però, sorge spontanea: di quanto sarebbe potuto aumentare il gradimento, da parte del pubblico, se fossero ben note le regole dello shogi?

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – UNA SETTIMANA E UN GIORNO di Asaph Polonsky

one-week-and-a-day-onlineTITOLO: UNA SETTIMANA E UN GIORNO; REGIA: Asaph Polonsky; genere: commedia, drammatico; anno: 2016; paese: Israele; cast: Shai Avivi, Evgenia Dodina; durata: 98′

Nelle sale italiane dal 18 maggio, Una settimana e un giorno è l’ultimo lungometraggio del giovane regista israeliano Asaph Polonsky, presentato all’interno della Semaine de la Critique al Festival di Cannes 2016.

Secondo la tradizione ebraica, la Shiv’ah è la settimana di osservanza del lutto immediatamente dopo la morte di qualcuno. Ed è proprio durante l’ultimo giorno di Shiv’ah che facciamo la conoscenza di Eyal e Vicky, una coppia di mezza età che ha appena perso il figlio venticinquenne in seguito ad una grave malattia. La donna cercherà di tornare alla vita di tutti i giorni buttandosi a capofitto nel lavoro e nelle faccende di casa. Per quanto riguarda Eyal, padre del ragazzo, ci saranno in serbo ben altre vie per tornare a vivere. Prima fra tutte: una nuova, inaspettata amicizia con il figlio dei vicini di casa.

phpThumb_generated_thumbnailL’impressione che abbiamo, fin dai primi minuti di visione, è che – dal punto di vista dello script in sé – il regista stesso non avesse bene in mente cosa fare e che taglio dare al tutto. E infatti il lungometraggio stesso risulta quasi fratturato in due: durante la prima parte appare giocoso, quasi un puro divertissement senza una necessaria ed approfondita analisi introspettiva nei personaggi. Improvvisamente, però, ecco che il prodotto sembra prendere un’altra piega: ci troviamo ora in un mondo sì allegro, ma anche terribilmente duro, un mondo dove le risate lasciano il posto alla tenerezza, alla malinconia ed alla consapevolezza. Frattura, questa, che può anche essere interpretata come la frattura interna dei protagonisti, la netta divisione tra la loro vita passata e l’inizio della loro vita futura. E, inutile dirlo, nella seconda parte anche la qualità del film migliora non poco, regalandoci momenti di grande potenza visiva – come la scena in cui Eyal gioca in ospedale con il vicino di casa ed una bambina, figlia di una paziente, ed il toccante momento in cui un uomo, al cimitero, pronuncia il suo discorso in occasione del funerale della sorella, con le immagini dell’uomo stesso durante i suoi momenti di sconforto in seguito alla perdita. Momenti, questi, che ci fanno perdonare le imperfezioni riguardanti in particolare la prima parte del lungometraggio e ci fanno affezionare anche ai personaggi meno riusciti – come, ad esempio, lo stesso vicino di casa, eccessivamente caricato.

una-settimana-e-un-giorno-hdimgEd ecco che, ancora una volta, la cinematografia israeliana è riuscita, in un modo o nell’altro a sorprenderci. E soprattutto, dato il precoce talento, chissà quante altre belle sorprese avrà in serbo per noi il giovane Asaph Polonsky.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

67° FESTIVAL DI BERLINO – UNA MUJER FANTASTICA di Sebastian Lelio

una-mujer-fantasticaTITOLO: UNA MUJER FANTÁSTICA; REGIA: Sebastián Lelio; genere: drammatico; anno: 2017; paese: Cile; cast: Daniela Vega, Francisco Reyes; durata: 100′

Presentato in concorso alla 67° Berlinale, Una mujer fantástica è l’ultimo lungometraggio del giovane regista cileno Sebastián Lelio, che già grande successo aveva avuto, sempre a Berlino, nel 2013 con Gloria, per cui la protagonista, Paulina Garcìa, era stata premiata con l’Orso d’Oro. Due protagoniste donne, dunque, per due percorsi non proprio facili. Ma andiamo per gradi.

Marina – giovane transessuale – ha da qualche anno una relazione con Orlando, molto più vecchio di lei. Le cose sembrano andare per il meglio, finché una notte l’uomo non viene colpito da aneurisma e cade dalle scale, per poi morire poco dopo in ospedale. A questo punto la famiglia di lui – che non ha mai visto di buon occhio la loro storia – si farà avanti, accusando Marina di aver causato, in qualche modo, la morte di Orlando, e riappropriandosi della casa e del cane, appartenuti in passato alla coppia. Alla donna non sarà consentito neanche di prendere parte ai funerali del proprio compagno.

Anche Marina, dunque, come Gloria, si trova in un momento cruciale della propria esistenza, quando la propria identità, il proprio valore in quanto essere umano non sembra riconosciuto dal resto del mondo. Si tratta, in entrambi i casi, di donne forti, con un difficile passato alle spalle, ma che non si danno mai per vinte. Nel caso di Gloria, l’obiettivo principale è quello di ricostruire la propria vita dopo un divorzio, anche se non più giovanissima. Nel caso di Marina, lo scopo è quello di poter conservare, almeno in parte, i ricordi e le cose che ha condiviso con l’uomo che amava, prima della morte di lui. Se per quanto riguarda Gloria, però, ci siamo trovati di fronte ad una sceneggiatura decisamente classica e priva di ogni qualsivoglia virtuosismo registico, ecco che con Una mujer fantástica Lelio – particolarmente lanciato – inserisce all’interno della messa in scena anche parecchi elementi rimandanti l’onirico, che contribuiscono a rendere il tutto anche a tratti decisamente surreale. Non ci ricorda qualcosa, o meglio, qualcuno? Ci arriveremo man mano, non preoccupatevi.

La macchina da presa ha come obiettivo (quasi) esclusivo quello di rappresentare la protagonista e la sua interiorità. Tutto il resto – la famiglia del compagno, le indagini della polizia, il suo lavoro – si limita a fare da cornice assumendo contorni volutamente sfocati, a tratti irreali, quasi grotteschi, con non pochi elementi lasciati consapevolmente in sospeso. Non male come idea iniziale, non v’è alcun dubbio. Eppure, una volta realizzata, non convince del tutto, in quanto tutto ciò che circonda la protagonista stessa risulta eccessivamente piatto. Talmente piatto da far calare di qualità tutto il film, il quale, a sua volta, fatica non poco a tenersi in piedi contando esclusivamente su di un solo personaggio, anche se molto ben costruito (e ben interpretato da una Daniela Vega intensa come non mai).

Ad ogni modo, volendo riprendere il discorso lasciato precedentemente in sospeso ed osservando più in generale la produzione di Lelio – tenendo anche in conto la piega tendente al surreale che i suoi lavori sembrano aver preso – non si può non pensare, ovviamente, ad un cineasta come Pedro Almodóvar, con le sue meravigliose protagoniste. E probabilmente è proprio a lui che il giovane regista cileno tende – inconsapevolmente o meno – a rifarsi. Peccato, però, che, in questo caso, forse i successi passati non hanno aiutato le produzioni venute dopo, in quanto non è raro che il rischio di mettere nel proprio lavoro anche una buona dose di megalomania sia sempre molto alto. E, per quanto riguarda Una mujer fantástica, di fatto, è stato quasi fatale.

VOTO: 6/10

Marina Pavido