20° FAR EAST FILM FESTIVAL – DEAR EX di Mag Hsu e Chih-yen Hsu

dear exTITOLO: DEAR EX; REGIA: Mag Hsu, Chih-yen Hsu; genere: drammatico; paese: Taiwan; anno: 2017; durata: 99′

Presentato in anteprima alla 20° edizione del Far East Film Festival, Dear Ex è l’ultimo lungometraggio diretto dai registi taiwanesi Mag Hsu e Chih-yen Hsu.

Song Zhengyuan muore prima dell’inizio del film e, con la sua prematura dipartita, mette inevitabilmente in contatto la sua ex moglie e suo figlio con Jay, il suo compagno con il quale aveva iniziato una nuova vita dopo aver scoperto la propria omosessualità. Il conflitto prenderà il via dalla questione riguardante l’eredità, eppure, con il passare del tempo e dopo aver trascorso parecchi giorni a stretto contatto, i tre avranno modo di imparare molto sia sul loro passato che su loro stessi.

Gli elementi che, in un primo momento, possono ricordarci Le Fate Ignoranti, diretto nel 2001 da Ferzan Ozpetek, dunque, non sono pochi. Eppure, in seguito alla visione di Dear Ex, più che Ozpetek viene in mente un regista come Pedro Almodovar, sia per quanto riguarda la particolare messa in scena adottata, sia, molto semplicemente, per la fotografia, le scenografie e, soprattutto, la scelta dei colori. Sono, infatti, il rosso e il verde a predominare in tutto il lungometraggio. Rosso che sta a indicare l’amore, una passione ancora viva, ma anche il sangue. Il verde, da buona tradizione hitchcockiana, la morte. La morte quale fattore scatenante di tutta la vicenda e che, contrapponendosi alle vite frenetiche dei tre protagonisti, si fa presenza costante all’interno dell’intero lavoro. Ovviamente, il paragone con Almodovar può risultare addirittura azzardato, se si pensa ai non pochi elementi che in Dear Ex non sempre funzionano. Eppure sono questa passionalità urlata, questo susseguirsi frenetico di eventi e, non per ultimi, questi numerosi flashback a ricordarci l’Almodovar del primo periodo che ha avuto modo – grazie al suo stile inconfondibile – di farsi conoscere in tutto il mondo.

Detto questo, seppur complessivamente gradevole, il nostro Dear Ex – come già accennato – le sue pecche le ha eccome. Se si pensa, infatti, alla carriera in ambito televisivo della regista Mag Hsu, poco ci si stupisce del taglio quasi da sit com dell’intero lavoro. E lo script stesso, seppur pregno di spunti interessanti, non fa che collezionare una sfilza di momenti ridondanti, perdendo pericolosamente di mordente man mano che ci si avvicina al finale, soprattutto nel momento che dovrebbe rappresentare il climax dell’intero lungometraggio, in cui Jay, assistito dalla moglie e dal figlio del suo compagno, mette in scena un’opera teatrale dedicata a quest’ultimo, che, secondo le intenzioni dei registi, dovrebbe aiutare i tre protagonisti a elaborare finalmente il lutto.

E così, le buone intenzioni degli autori vengono esplicitate solo in parte. Peccato. Malgrado, infatti, le numerose imperfezioni, Dear Ex resta comunque un lavoro onesto e sentito, che, però, indagando nell’animo umano, non fa che raccogliere una serie di luoghi comuni ed elementi già più volte – e in modo di gran lunga più esaustivo – trattati in passato. D’altronde, si sa, mettere in scena temi universali è un lavoro molto più rischioso di quanto inizialmente possa sembrare.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

20° FAR EAST FILM FESTIVAL – THE BATTLESHIP ISLAND: DIRECTOR’S CUT di Ryoo Seung-wan

battleship-islandTITOLO: THE BATTLESHIP ISLAND: DIRECTOR’S CUT; REGIA: Ryoo Seung-wan; genere: storico, guerra; paese: Corea del Sud; anno: 2017; durata: 151′

Presentato in anteprima alla 20° edizione del Far East Film Festival, The Battleship Island: Director’s Cut è l’ultimo lungometraggio realizzato dal regista sudcoreano Ryoo Seung-wan, del quale al festival è stato proiettato anche Veteran (2015).

Siamo nel 1945. Il direttore d’orchestra Gang-ok è solito tenere concerti a Seul insieme a Sohee, la sua figlioletta di undici anni. In seguito a un flirt con la moglie di un alto ufficiale, però, l’uomo sarà costretto a partire e si imbarcherà, insieme alla figlia, alla volta del Giappone. Non appena giungerà a destinazione, però, Gang-ok si renderà conto di essere stato deportato, insieme a un nutrito gruppo di coreani, su un’isola al largo della costa di Nagasaki, dove molti prigionieri saranno costretti a lavorare in una miniera in condizioni disumane. Tale sito è stato nominato nel 2016 patrimonio dell’UNESCO. Ciò che è accaduto durante la Seconda Guerra Mondiale è una ferita ancora aperta.

Dopo la visione di un lungometraggio come il presente, dunque, non ci si può che sentire arricchiti. Merito non solo della messa in scena di eventi storici tanto importanti quanto meno noti rispetto ad altri, ma anche del pregiato valore artistico dell’intero lavoro. Al di là dell’impeccabile regia – con una macchina da presa agile, perfettamente in grado di gestire gli spazi sia in momenti di calma che durante i combattimenti – al di là delle fedeli ricostruzioni degli ambienti dell’epoca, è soprattutto un sapiente e raffinato lavoro di scrittura a far sì che un prodotto come The Battleship Island non solo non perda mai di ritmo e sappia reggere bene la durata di oltre due ore e mezzo, ma vanti anche al suo interno un nutrito numero di personaggi interessanti e ben caratterizzati. A partire, appunto, proprio da Gang-ok e da sua figlia Sohee. Un accurato lavoro di ricostruzione storica che vede al proprio interno anche un evento doloroso come il lancio della bomba atomica su Nagasaki (particolarmente d’effetto, a tal proposito, le scelte cromatiche attuate dal regista nel mostrarci l’evento, con un improvviso bianco e nero su cui stride il giallo fuoco dei fumi della bomba stessa).

E poi c’è l’Arte. L’Arte come puro amore per il Bello, così come strumento salvifico nel vero senso della parola. È (soprattutto) grazie al loro talento che Sohee e suo padre riescono a ottenere un trattamento meno duro rispetto agli altri durante la loro prigionia. È soltanto durante qualche performance artistica che anche il più spietato dei comandanti giapponesi sembra placarsi anche solo momentaneamente. L’Arte, secondo quanto ha voluto mettere in scena Ryoo Seung-wan, è l’unico elemento che accomuna tutti e che ci rende più umani. E, pertanto, va celebrata.

Ciò che Ryoo Seung-wan ha voluto realizzare è, dunque, sì un film di denuncia contro i crimini di guerra compiuti dai giapponesi (e, più in generale, da ogni essere umano), ma anche – e soprattutto – una dichiarazione d’amore rivolta al proprio paese e alla propria gente: uomini forti e dignitosi, in grado di far fronte alle situazioni più complicate. Che sia, questa, una sorta di “incoraggiamento” rivolto proprio al popolo coreano, in un periodo storico difficile come quello che sta vivendo? Al pubblico il privilegio di ogni personale, soggettiva interpretazione.

Piccola chicca: durante una delle battaglie più cruente di tutto il lungometraggio, il regista ha scelto come sottofondo una musica firmata Ennio Morricone. Non mancano, in tutto il mondo, ottimi estimatori del nostro buon cinema e dei nostri grandi autori. E questo, ovviamente, non può che riempirci di orgoglio.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

20° FAR EAST FILM FESTIVAL – SIDE JOB di Hiroki Ryuichi

sidejobTITOLO: SIDE JOB; REGIA: Hiroki Ryuichi; genere: drammatico; paese: Giappone; anno: 2017; durata: 119′

Presentato in anteprima alla 20° edizione del Far East Film Festival, Side Job è l’ultimo lavoro del cineasta giapponese Hiroki Ryuichi, originario di Fukushima, il quale ci parla proprio della terribile tragedia che ha colpito il suo paese nel 2011.

Viene qui messa in scena la storia della giovane Miyuki Kanazawa, la quale ha perso la madre nel disastro, vive con il padre rimasto praticamente senza occupazione, lavora come impiegata comunale nella città di Iwaki e ogni fine settimana si reca a Tokyo, ufficialmente per seguire un corso di inglese. La ragazza, in realtà, approfitta dei weekend per prostituirsi all’interno di hotel di lusso. Ma qual è il reale motivo per cui ha scelto questa strada? Cosa può darle un’esperienza del genere, dal momento che la giovane non si trova in condizioni economiche precarie?

La risposta, molto banalmente, può essere il desiderio di evasione, di vivere un mondo parallelo e insolito, al fine di scappare dai fantasmi che popolano la vita di tutti i giorni e dai drammatici ricordi di un passato non sempre clemente.

Doloroso al pari del bellissimo Himizu di Sion Sono (2011), al quale si pensa inevitabilmente durante le numerose carrellate che ci mostrano la città che ancora vive i postumi del disastro, Side Job non si limita a raccontarci una singola storia – quella di Miyuki, appunto – bensì la storia di molte persone che ogni giorno devono fare i conti con ciò che è successo: da chi ha deciso di buttarsi a capofitto sul lavoro, al punto di trascurare la propria famiglia, a chi tenta in ogni modo il suicidio; da chi non sa come aiutare i propri figli a vivere una vita “normale” a chi, prendendo sempre più consapevolezza per quanto riguarda l’accaduto, al fine di vivere il presente senza dimenticare ciò che è stato, cerca di fotografare ogni luogo, ogni persona e ogni oggetto legato inevitabilmente alla tragedia.

E, a tal proposito, la scena in cui agli abitanti di Iwaki vengono mostrate le fotografie di una giovane artista, raffiguranti il prima e il dopo tsunami, è forse il momento maggiormente toccante di tutto il film, esplicito, ma mai eccessivo, doloroso ma che evita sapientemente di dirci troppo, lasciando lo spettatore in un momento di doveroso raccoglimento e necessaria meditazione.

Sempre pensando al sopracitato film di Sion Sono, una sostanziale differenza con Side Job c’è eccome: questo ultimo lavoro di Hiroki Ryuichi si differenzia dall’opera di Sono – così come da molti altri lungometraggi sull’argomento – per un’importante iniezione di speranza, mostrandoci un popolo sì profondamente ferito, sì terribilmente sconvolto, ma anche fortemente dignitoso, che, nonostante tutto, non ha mai perso la voglia di rimboccarsi le maniche e di risollevarsi. E, a tal proposito, particolarmente emblematica è una scritta realizzata con un comunissimo spray su di un muro abbandonato, al quale viene dedicata l’ultima inquadratura: “Non preoccupatevi. Siamo sopravvissuti.”. Una scritta che in sé racchiude tutta l’essenza dell’intero lavoro di Hiroki Ryuichi, il quale, malgrado il coinvolgimento in prima persona nei fatti, è riuscito a mantenere anche quel necessario distacco emotivo auspicabile nel momento in cui si dà vita a un’opera. Anche questo, dunque, contribuisce ad accrescere il valore artistico di questo prezioso documento storico.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

20° FAR EAST FILM FESTIVAL – OUR TIME WILL COME di Ann Hui

ourtimewillcomeTITOLO: OUR TIME WILL COME; REGIA: Ann Hui; genere: storico; paese: Hong Kong; anno: 2017; durata: 131′

Presentato in anteprima italiana alla 20° edizione del Far East Film Festival, Our Time will come è l’ultima fatica della celebre cineasta cinese di Hong Kong Ann Hui, la quale, anche qui, ci racconta un’importante episodio della storia del suo paese.

Siamo nel 1942. I giapponesi hanno occupato militarmente Hong Kong e un gruppo di sovversivi cerca di far fuggire dal paese alcuni intellettuali, al fine di aiutarli a sottrarsi al governo nemico. Tra di loro c’è anche la giovane insegnante Fong Lan, la quale ha appena lasciato il fidanzato – schierato con l’esercito dei giapponesi, ma che collabora segretamente con la fazione di Hong Kong – si è lasciata condurre nella lotta dal ribelle Blackie Lau e ha messo a repentaglio addirittura la vita di sua madre, al fine di riuscire a perseguire il proprio scopo.

Un lavoro, dunque, che – ispirato a fatti realmente accaduti e a persone realmente esistite – già dopo una breve, sommaria lettura della sinossi riesce bene a rendere l’idea della propria importanza e della propria imponenza. La figura di questa eroina femminile, simbolo ideale della lotta della popolazione hongkonghese, ma anche degna rappresentante di tutte le protagoniste dei precedenti lungometraggi della Hui, da subito, ben scritta e ben caratterizzata, riesce a prendere in mano le redini di un intero lavoro che – fatta eccezione per qualche piccolo elemento di sceneggiatura lasciato in sospeso come, ad esempio, il rapporto tra la protagonista stessa e lo scrittore da lei ospitato – tutto sommato riesce a reggere bene la lunga durata, senza registrare cali di ritmo e alternando sapientemente momenti altamente drammatici a scene decisamente più leggere e, a loro modo, anche di quando in quando ironiche.

Tutto il resto è in pieno stile di Ann Hui: scenografie curate sin nel minimo dettaglio che ricostruiscono fedelmente una Hong Kong degli anni Quaranta, costumi ora sontuosi, ora miseri e personaggi che – grazie anche alle più che convincenti interpretazioni degli attori protagonisti – sembrano venuti fuori direttamente dal secolo scorso.

Eppure, rispetto ai precedenti lavori della cineasta, Our Time will come una peculiarità tutta sua ce l’ha eccome. A tal proposito, particolarmente azzeccata si è rivelata la scelta di inserire all’interno della messa in scena una sorta di cornice dal taglio documentaristico, in cui vediamo (in un rigoroso bianco e nero) uno degli allievi della protagonista raccontarci, ai giorni nostri, le incredibili vicende vissute dalla propria insegnante. Emblematica e suggestiva, dunque, la scena finale, in cui, tramite un cambio fotografico, vediamo il paesaggio degli anni Quaranta trasformarsi nella Hong Kong di oggi. Segno che la Storia, seppur lontana, si fa sentire ancora viva e pulsante oggi come in passato. Segno che la Memoria è uno dei patrimoni più preziosi di cui disponiamo e che abbiamo il dovere di salvaguardare in tutti i modi possibili.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

20° FAR EAST FILM FESTIVAL – STEEL RAIN di Yang Woo-seok

steelrainTITOLO: STEEL RAIN; REGIA: Yang Woo-seok; genere: drammatico, commedia; paese: Corea del Sud; anno: 2017; durata: 139′

Presentato come film d’apertura della 20° edizione del Far East Film Festival, Steel Rain è l’ultimo lungometraggio diretto dal sudcoreano Yang Woo-seok, dove si tratta il doloroso tema della scissione tra Corea del Nord e Corea del Sud.

La storia qui messa in scena, nella sua drammaticità, ha anche dei toni da commedia e a tratti favolistici. È la storia, questa, di Um Cheol-woo – stimato agente nordcoreano con l’ordine di recarsi nella zona economica speciale di Kaesong – al confine con la Corea del Sud – al fine di assassinare due uomini che rappresentano una grossa minaccia per la sicurezza nazionale, e di Kwak Cheol-woo, diplomatico sudcoreano. I due uomini avranno modo di incontrarci in Corea del Sud, dove Um Cheol-woo porterà il leader nordcoreano (indicato con il nome Numero 1), al fine di salvarlo da un attentato. Uniti dallo stesso intento di evitare in ogni modo il conflitto, i due uomini diventeranno presto inaspettatamente amici.

Se si pensa al recente lungometraggio di Kim Ki-duk, Il Prigioniero Coreano, dove viene raccontata la divisione tra nord e sud, ecco che questo Steel Rain ci appare praticamente quasi il suo opposto. Asciutto e con una buona dose di cinismo l’uno, straordinariamente “barocco” e dai toni decisamente mainstream – e a tratti addirittura buonisti – l’altro. Ed è proprio questo taglio che il regista Yang Woo-seok ha scelto, a rappresentare una delle (non poche) pecche del prodotto in questione. Malgrado le indubbiamente buone intenzioni iniziali, malgrado il lieto fine che si è voluto a tutti i costi mettere in scena, Steel Rain risulta inevitabilmente un lavoro spesso forzato, a tratti poco credibile, che vede soprattutto nello script parecchi buchi o elementi mal sviluppati. Al di là, infatti, della parte centrale dell’intero lungometraggio che risulta oltremodo sfilacciata e spesso ridondante, vi sono elementi dall’elevato potenziale qualitativo che, purtroppo, non vengono sfruttati o sviluppati a dovere. Questo è, ad esempio, il caso degli stessi protagonisti (impersonati entrambi da due bravi interpreti, tra l’altro), dal momento che nessuno dei due è stato approfondito come meritava, malgrado le buone premesse.

Stesso discorso si potrebbe fare, ad esempio, anche per quanto riguarda la realizzazione in sé, dove, di fianco a ben riuscite scene di combattimenti, vi sono effetti in digitale che risultano pericolosamente posticci – vedi le numerose esplosioni rappresentate – dando l’impressione che il tutto sia stato realizzato in modo frettoloso e preoccupandosi eccessivamente di piacere a tutti i costi anche a un pubblico “occidentale”.

Peccato. Se si pensa, appunto, alle buone intenzioni di chi ci ha lavorato, Steel Rain avrebbe potuto essere molto, ma molto di più. E in apertura di una manifestazione importante come il Far East Film Festival si è rivelato quasi una delusione. Ma, si sa, queste sono cose che capitano. Di certo all’interno di questa vasta selezione di pellicole ci saranno comunque parecchie belle sorprese.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – THE SPACE BETWEEN di Ruth Borgobello

The-Space-BetweenTITOLO: THE SPACE BETWEEN; REGIA: Ruth Borgobello; genere: drammatico; anno: 2015; paese: Italia, Australia; cast: Flavio Parenti, Maeve Dermody, Lino Guanciale; durata: 98′

Nelle sale italiane dal 4 maggio The space between è l’opera prima della regista italo-australiana Ruth Borgobello, presentata in anteprima all’ultima edizione di Alice nella città.

Ci troviamo ad Udine. Il giovane Marco, dopo aver vissuto qualche anno a New York lavorando come chef, viene messo in cassa integrazione dal proprio datore di lavoro. Insoddisfatto dalla propria vita, si convincerà pian piano ad allargare i propri orizzonti ed a perseguire il proprio sogno di tornare a fare lo chef in seguito alla morte improvvisa del suo migliore amico ed in seguito all’incontro con Olivia, giovane ragazza australiana che sogna di diventare una stimata designer.

Indubbiamente questa opera prima di Ruth Borgobello nasce da ottimi intenti. Intellettualmente onesto, questo suo primo lungometraggio risulta, però, piuttosto ingenuo da un punto di vista prettamente cinematografico. Ciò riguarda soprattutto la scrittura: vi sono non pochi elementi tirati in ballo e lasciati in sospeso che più che una scelta voluta sanno tanto di distrazione da parte dell’autrice stessa (il negozio dell’amico, la ragazza del protagonista che vediamo nelle scene iniziali, così come lo stato di salute del padre del ragazzo sono solo alcuni esempi in merito), oltre a forzature poco convincenti (lo scherzo al citofono da parte di alcuni ragazzi, così come la nascita dei gattini del protagonista). Stesso discorso vale per la regia, soprattutto per quanto riguarda la direzione degli attori: troppo innaturale, in alcuni momenti talmente sopra le righe da far perdere di credibilità a tutta la scena.

Eppure bisogna riconoscere che alcune ambientazioni, così come il respiro internazionale e l’importanza del mondo onirico che l’autrice ha voluto dare a questa sua opera sono indubbiamente trovate interessanti. Chissà, forse è proprio la scarsa esperienza dietro la macchina da presa della regista l’unico vero ostacolo alla buona riuscita del film. Se Ruth Borgobello riuscirà o meno a “crescere”, però, lo sapremo solo dopo la visione dei suoi prossimi lavori, ai quali, si spera, non mancherà quella genuinità di fondo che caratterizza questa sua ingenua opera prima.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

19° FAR EAST FILM FESTIVAL – MY UNCLE di Nobuhiro Yamashita

TITOLO: MY UNCLE; REGIA: Nobuhiro Yamashita; genere: commedia; anno: 2016; paese: Giappone, cast: Ryuhei Matsuda, Riku Ohnishi; durata: 110′

Presentato in anteprima alla diciannovesima edizione del Far East Film Festival, My uncle è una divertente commedia diretta dal regista giapponese Nobuhiro Yamashita.

È questa la storia del giovane Yukio: un bambino dotato di grande sensibilità e molto maturo per la sua età al quale viene chiesto, a scuola, di scrivere un tema su di un adulto di sua conoscenza. Chi potrebbe essere, dunque, il prescelto, se non lo zio che vive a casa con lui? Pigro e taccagno, appassionato di filosofia ed imbranato, l’uomo non ci metterà molto a colpire l’attenzione della maestra di Yukio, la quale deciderà di far partecipare il ragazzo ad un concorso extrascolastico, dove verrà conferito un importante premio a chi avrà scritto il tema migliore. Yukio vincerà, dunque, un viaggio per due persone alle Hawaii e deciderà di andarci proprio con suo zio, il quale nel frattempo si è perdutamente innamorato di una ragazza appena trasferitasi lì.

Se si pensa alla cinematografia di Yamashita, questo suo penultimo film risulta quasi come “staccato” dal resto dei suoi lungometraggi. Interessante l’idea di dar vita ad una commedia brillante, ma, forse, malgrado la qualità nel complesso alta del prodotto in sé, con troppo poco nerbo il risultato finale, se si vuol ripensare, appunto, ad altri lavori dell’autore. Il problema principale è, in questo caso, proprio la gestione dei tempi: parte piuttosto bene la storia nel momento in cui Yukio inizia a scrivere il tema su suo zio. Anche la voce narrante del ragazzo risulta, qui, particolarmente appropriata. Lo stesso non si può dire per quanto riguarda la seconda parte del film, precisamente dal momento in cui i due partono per le Hawaii: il tono iniziale cambia inevitabilmente, le gag risultano eccessivamente forzate e tutto viene tirato per le lunghe. Stesso discorso vale per quanto riguarda la pseudo storia dello zio con la ragazza di cui è innamorato, così come per personaggi che sembrano creati ad hoc per fare da riempitivi, ma che, di fatto, risultano decisamente inutili al fine di far procedere la narrazione. Uno di questi è, ad esempio, l’uomo che lavora nella piantagione di caffè della ragazza dello zio.

Detto questo, però, non mancano momenti interessanti come le scene che vedono i due, zio e nipote – entrati a tal punto in sintonia da indossare addirittura camicie uguali – chiacchierare in riva al mare. Così come proprio quasi tutta la prima parte del film, dove le trovate comiche funzionano alla perfezione: esilaranti i tentativi da parte dello zio di estorcere dei soldi a Yukio per comprarsi dei manga o la sua ricerca spasmodica di lattine per raccogliere il maggior numero di bollini possibile al fine di avere la possibilità di vincere un viaggio alle Hawaii. Il regista, dal canto suo, ha saputo ben raccontare il mondo dal punto di vista del bambino. Un mondo dove, di base, fanno da padroni colori pastello, brevi inserti di animazione ed atmosfere al limite del surreale. Per la sua attenzione nei confronti dell’infanzia potrebbe addirittura, in alcuni momenti, far pensare a Hirokazu Kore’eda, anche se, in questo caso, ci troviamo di fronte ad un prodotto di tutt’altro genere.

Ma, di fatto, è proprio il personaggio dello zio la vera peculiarità di questo lavoro di Yamashita. Talmente ben scritto e ben interpretato dal bravo Ryuhei Matsuda, trova il suo completamento ideale al fianco del giovane nipote. Una coppia talmente ben riuscita, la loro, da far pensare anche ad un possibile sequel. E chissà che non ci abbia pensato lo stesso Yamashita, nel momento in cui ha optato per una sorta di finale aperto con l’ultima parola lasciata al gatto di casa!

VOTO: 7/10

Marina Pavido

19° FAR EAST FILM FESTIVAL – 52HZ, I LOVE YOU di Wei Te-sheng

MV5BNjhhZTlhNzQtYzI0ZC00ZTVlLTgxN2QtZjAwY2NjY2EwMjg1XkEyXkFqcGdeQXVyNzI1MDI2OTY@._V1_SY1000_CR0,0,1499,1000_AL_TITOLO: 52HZ, I LOVE YOU; REGIA: Wei Te-sheng; genere: musical; anno: 2017; paese: Taiwan; cast: Chuan-Ying Chuan, Chung-Yu Lin; durata: 110′

Presentato in anteprima alla diciannovesima edizione del Far East Film Festival, 52HZ, I love you è un musical diretto dal regista taiwanese Wei Te-sheng.

Taipei. Mattino. Ora di punta. La strada è gremita di automobili ferme per il troppo traffico. Una ragazza improvvisamente esce dall’auto, prende un monopattino e, intonando le note di una canzoncina orecchiabile, prosegue dritta per la strada. È il giorno di san Valentino e – tra amori non corrisposti, storie che durano da tanto tempo e che sono ormai al capolinea e coppie gay che sognano di sposarsi e di avere una famiglia tutta loro – tutti sono, chi più, chi meno, in vena di fare festa.

L’inizio, ovviamente, è quello del fortunato lungometraggio di Damien Chazelle, dunque. Il resto è un mix tra l’intramontabile Singining in the rain di Stanley Donen, il bellissimo Les parapluies di Cherbourg di Jacques Demy e lo stesso La La Land. Salvo che, al contrario dei lavori sopra menzionati, quello che questo ultimo lavoro di Wei Te-sheng vuole essere è un inno all’amore universale, senza se e senza ma, comprensivo di tutti i possibili clichés in cui si può incappare affrontando un tema abusato come questo.

Niente ombrelli ma rose rosse, stavolta. Niente Cathrine Deneuve – con tanto di madre dispotica al seguito – ma una giovane fioraia innamorata dell’amore con una zia che vuol essere cinica ma che, in fondo, non sembra proprio riuscirci. Fatta eccezione per le scene in interni, le strade di Taipei – ricostruite rigorosamente in studio, come da tradizione – stanno tanto a ricordarci i musical della Hollywood degli anni d’oro (oltre, ovviamente allo stesso Les parapliues de Cherbourg), quei musical gloriosi resi ottimamente sul grande schermo dallo stesso Stanley Donen, da Vincent Minnelli e compagnia bella. Ce li ricorda, o almeno vorrebbe ricordarceli. Vorrebbe ma non ci riesce. Se non altro i lavori sopra citati si sono distinti a loro tempo (anche) per delle ottime coreografie, cosa che qui pare sia stata quasi saltata a pie’ pari. Probabilmente anche involontariamente o, meglio ancora, inconsapevolmente.

L’amore qui raccontato è banale, estremamente idealizzato, non fiabesco ma irreale per il suo essere così costruito. Talmente finto nella sua rappresentazione da rendere il lungometraggio quasi un puro divertissement, un omaggio all’Omaggio al Cinema (l’Omaggio per eccellenza di cui si è tanto parlato ultimamente), privo di uno sguardo soggettivo dell’autore, così come di ogni qualsivoglia personale peculiarità. Un film apparentemente senza pretesa alcuna. Se non fosse per il fatto che l’autore stesso lo ha definito scherzando (ma non troppo) addirittura più bello di La La Land.

VOTO: 4/10

Marina Pavido

19° FAR EAST FILM FESTIVAL – OVER THE FENCE di Nobuhiro Yamashita

newmain-1540x866TITOLO: OVER THE FENCE; REGIA: Nobuhiro Yamashita; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Giappone; cast: Joe Odagiri, Yu aoi; durata: 112′

Presentato in anteprima alla diciannovesima edizione del Far East Film Festival, Over the fence è il penultmo lavoro del regista, sceneggiatore ed attore giapponese Nobuhiro Yamashita.

Shiraiwa è un quarantenne fresco di divorzio. In attesa di trovare un nuovo impiego si trasferisce al suo paese natale ed inizia una scuola di falegnameria. Una sera, in un locale, incontra la bella e stravagante Satoshi, una cameriera che sa imitare alla perfezione i versi degli uccelli e che, tuttavia, dimostra anche qualche segno di squilibrio mentale. Non sarà facile per i due venirsi incontro ed imparare a conoscersi.

Basterebbero, in realtà, solo i due protagonisti come unici attori sullo schermo, affinché questo ultimo lavoro di Yamashita funzioni. Perché, di fatto, in tutta la loro stranezza sono entrambi talmente perfetti e magnetici da catalizzare immediatamente su di loro l’attenzione. Shiraiwa ha un passato difficile: la sua ex moglie ha cercato di soffocare la loro figlioletta di pochi mesi. E se fosse lui stesso il responsabile della follia della donna? A comprendere ciò può aiutarlo soltanto Satoshi, considerata da tutti eccessivamente sopra le righe, quasi al limite della pazzia. Un uccello prigioniero all’interno di una gabbia costruita dalle più grette convenzioni sociali, alle quali non ha mai voluto adattarsi. È per questo, forse, che solo immedesimandosi nei volatili può immaginare di riuscire a volare lontano dal posto in cui vive. Probabilmente, però, per riuscire a spiccare davvero il volo oltre le barriere della gabbia in cui si trova, avrà bisogno di un compagno, al quale, magari, lei stessa potrà insegnare a volare.

Fin da subito Yamashita, nel raccontarci questi due singolari personaggi, lavora di sottrazione: non vi è spazio – se non quando strettamente richiesto – per dialoghi superflui o musiche ingombranti. Ciò che viene detto ci dà solo una chiave per interpretare il tutto. Le azioni dei due protagonisti sono, a tal proposito, decisamente significative: mentre Satoshi cerca di abbattere le barriere che la circondano liberando tutti gli uccelli dalle gabbie nel luna park in cui lavora, Shiraiwa, dal canto suo, non fa che costruire una sorta di “gabbia” in legno presso la scuola che sta frequentando. Solo con il tempo – e con un lungo, difficile e spesso doloroso percorso interiore, i due riusciranno finalmente a sincronizzare le loro azioni puntando verso uno stesso obiettivo.

Nel frattempo saranno scene di grande poesia e di grande potenza visiva a raccontarci passo passo la loro storia. Di notevole bellezza, a tal proposito, il momento in cui i due ragazzi, di notte, dopo aver raccolto nel luna park deserto una grande quantità di piume di uccelli, le lasciano volare via una dopo l’altra mentre viaggiano in scooter. Momenti che potrebbero essere definiti quasi al limite del surreale che solo uno sguardo attento come quello di Yamashita – il quale, a sua volta, sembra non disdegnare affatto eventuali suggestioni dalla cinematografia del collega Takeshi Kitano – riesce a catturare così bene.

L’unica pecca – se così può essere definita – di Over the fence è, in realtà, una seconda parte eccessivamente telefonata che va a terminare in un finale pericolosamente retorico. Ma, si sa, per la piega che il lungometraggio ha preso fin dall’inizio, aspettarsi un esito del genere è quasi scontato.

Dato il regalo che ci ha fatto con questo suo lavoro, però, scivoloni del genere li si perdona facilmente ad un cineasta come Nobuhiro Yamashita. Il quale, giusto per restare in tema, malgrado la giovane età, il volo lo ha già spiccato da diversi anni.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

19° FAR EAST FILM FESTIVAL – VANISHING TIME: THE BOY WHO RETURNED di Um Tae-hwa

vanishtimeyoungTITOLO: VANISHING TIME: THE BOY WHO RETURNED; REGIA: Um Tae-hwa; genere: fantasy; anno: 2016; paese: Corea del Sud; cast: Kang Dong-won, Shin Eun-soo; durata: 129′

Presentato in anteprima alla diciannovesima edizione del Far East Film Festival, Vanishing time: the boy who returned è l’ultimo lavoro del giovane cineasta sudcoreano Um Tae-hwa.

Una bambina solitaria appassionata di esoterismo. Un compagno di classe innamorato di lei. Un gruppo di amici e la voglia di vivere ogni giorno nuove avventure. È da qui che prende il via tutta la vicenda. La freschezza, la gioia di vivere dei protagonisti fa sì che tutti noi durante i primi minuti torniamo con la mente inevitabilmente a Stand by me. Eppure, nel momento in cui i ragazzi scoprono un misterioso uovo fluorescente all’interno di una grotta, ecco che la situazione sembra prendere tutta un’altra piega: in seguito alla rottura dell’uovo la terra inizia a tremare, la giovane protagonista – allontanatasi per un attimo dal gruppo – si ritrova da sola ed i suoi amici sembrano misteriosamente scomparsi. Sarà proprio lei, unica superstite, ad essere accusata dalla gente del luogo per quanto riguarda la responsabilità dell’accaduto. Ma, di fatto, cos’è che è realmente accaduto?

Ed ecco che il tempo fa il suo gioco, arrestandosi apparentemente per il mondo intero ma continuando a scorrere solo per pochi altri, i quali, a loro volta, saranno inevitabilmente costretti a pagarne le conseguenze.

Dall’altro lato abbiamo la società: severa, impietosa, timorosa nei confronti di ciò che è “diverso”. Quasi come se, con le sue leggi rigide e severe, costringesse ogni singolo abitante ad essere in un determinato modo, giudicandolo e sorvegliandolo costantemente. Molto interessante, a tal proposito, il ruolo che il regista ha assegnato alle telecamere: è inquadrato in dettaglio, non appena partono i titoli di testa, l’obiettivo, ancora chiuso, della telecamera di un’assistente sociale che sta per intervistare la bambina; nel momento in cui tale obiettivo si apre, ecco che prende il via la vicenda. Sono numerose telecamere, tra l’altro, ad essere disseminate per tutta la cittadina. A loro il compito di fermare ogni eventuale sospetto. Sì è costantemente osservati, ogni piccolo gesto viene registrato. Guai a chi prova a sgarrare.

Dal canto suo, anche la location dove si svolge la vicenda è alquanto indicativa: una piccola cittadina circondata da fitti boschi su di un’isola che sembra essa stessa fuori dal tempo. Un’isola da cui non è facile andare via. Un’isola che, in luce di quanto appena detto, diviene degna e fedele trasfigurazione di ciò che è oggi la Corea del Nord.

Dall’altro lato, però, abbiamo il mondo dei bambini. L’unico mondo ad essere rimasto “incontaminato”. Un mondo dove l’amicizia, l’amore, la libertà fanno da protagonisti assoluti insieme a dettagli di volti, di sorrisi, di occhi, di piccoli ma preziosi oggetti messi in risalto da una regia attenta e curata, dove nulla è lasciato al caso. Un mondo, questo dell’infanzia, che, alla fine dei giochi, non può non risultare vincitore assoluto.

Peccato che, al termine di un’operazione così interessante, Um Tae-hwa abbia calcato un po’ troppo la mano, inquadrando i due protagonisti – la bambina ed il suo migliore amico – su di una nave completamente vuota che naviga libera in mare. Tuttavia viene facile perdonare piccole cadute di stile del genere, se si pensa al prodotto nel suo intero. Malgrado, infatti, la relativamente poca esperienza del cineasta coreano, il risultato finale dimostra indubbiamente una straordinaria maturità. Evidentemente l’aver fatto per anni da aiuto regia al grande Park Chan-wook la differenza la fa eccome.

VOTO: 8/10

Marina Pavido