LA RECENSIONE – SONO TORNATO di Luca Miniero

sono tornatoTITOLO: SONO TORNATO; REGIA: Luca Miniero; genere: commedia, drammatico; paese: Italia; anno: 2017; cast: Massimo Popolizio, Frank Matano, Stefania Rocca, Ariella Reggio; durata: 96′

Nelle sale italiane dal 1° febbraio, Sono tornato è l’ultimo lungometraggio diretto da Luca Miniero, che prende spunto dal lungometraggio tedesco Lui è tornato (diretto nel 2015 da David Wnendt), in cui abbiamo visto la figura di Adolf Hitler ripresentarsi, direttamente dal passato ai giorni nostri, in una cittadina tedesca.

Siamo nel 2017. Il giovane Andrea Canaletti si trova in Piazza Vittorio, a Roma, al fine di girare un documentario sull’immigrazione. Improvvisamente piove giù dal cielo un uomo misterioso, con i piedi legati da una corda, che tanto sta a ricordare il Duce. E se fosse davvero lui? Come reagirebbero gli italiani al giorno d’oggi? Canaletti, ignaro che l’uomo al suo cospetto sia realmente Mussolini, decide di portare quest’ultimo in giro per l’Italia, per realizzare una sorta d’inchiesta e vedere, di volta in volta, le reazioni della popolazione italiana.

Questo lungometraggio di Miniero – che, di fatto, rispecchia in ogni suo passaggio la precedente produzione tedesca – si presenta soprattutto come un’indagine ed una riflessione sulla società odierna, sulla memoria storica, appunto, sulla politica e su come siano cambiati gli italiani dopo ottant’anni dalla fine della dittatura e della guerra. Il risultato finale, però, sebbene con ottime intenzioni iniziali, risulta meno graffiante e meno incisivo del lungometraggio di Wnendt. Per quale motivo, dunque, un lavoro come questo di Miniero non riesce a centrare l’obiettivo e sembra restare in una sorta di limbo, a metà strada tra il puro intrattenimento ed il film indagatore e provocatore? La risposta, a quanto pare, sta proprio nel fatto che una delle pecche maggiori dell’autore stesso sia stata quella di aver lasciato troppo poco spazio alle interviste reali, di non aver calcato sufficientemente la mano, ma di essersi limitato, almeno per quanto riguarda il girato selezionato, alla realizzazione di una fiction che sembra spesso giocare con troppi luoghi comuni, senza essersi necessariamente “sporcata le mani” e che, quasi, vive di rendita grazie al progetto tedesco preesistente, che ha buttato giù uno schema narrativo predefinito. Fatta eccezione, infatti, per la scena finale – in cui vediamo un Popolizio-Mussolini andare in giro per Roma su di una macchina decappottabile in pieno stile anni Quaranta ed in cui le persone che appaiono sullo schermo non sono comparse o attori, ma passanti reali, ognuno dei quali ha reagito a modo proprio dopo aver visto lo pseudo-duce in giro per la città – tutto il resto che vediamo sullo schermo è pura finzione, un compitino che riproduce molto bene il modello tedesco, ma che, di suo e, soprattutto, di nuovo, sembra metterci ben poco.

Tra gli elementi meglio riusciti di tutto il film, troviamo innanzitutto l’interpretazione di Massimo Popolizio nel ruolo di Benito Mussolini – pochi altri interpreti avrebbero saputo renderlo meglio – e, non per ultima, la scena, emotivamente fortissima, in cui una straordinaria Ariella Reggio – nel ruolo della nonna della fidanzata del protagonista – riconosce Mussolini e, ricordando alcuni episodi della sua infanzia, lo manda via di casa urlandogli contro.

Peccato, dunque, che Miniero non sia andato fino in fondo nel suo lavoro. Con tali basi di partenza e con elementi molto validi al suo interno (si pensi che addirittura Frank Matano, nel ruolo di Andrea Canaletti, non risulta per nulla fuori luogo), si sarebbe potuto fare davvero molto di più. Se solo il cinema italiano avesse più coraggio di osare, come veniva fatto nei decenni scorsi!

VOTO: 6/10

Marina Pavido

 

12° FESTA DEL CINEMA DI ROMA – CABROS DE MIERDA di Gonzalo Justiniano

cabros_de_mierdaTITOLO: CABROS DE MIERDA; REGIA: Gonzalo Justiniano; genere: drammatico; paese: Cile; anno: 2017; cast: Nathalia Aragonese, Daniel Contesse, Elias Collado; durata: 124′

Presentato in anteprima all’interno della Selezione Ufficiale durante la 12° edizione della Festa del Cinema di Roma, Cabros de mierda è l’ultimo lungometraggio del cineasta cileno Gonzalo Justiniano.

Siamo nel 1983. Un giovane missionario nordamericano, Samuel Thompson, viene inviato nel cosiddetto Terzo Mondo presso una famiglia cilena, al fine di predicare la parola di Dio. L’uomo verrà ospitato dalla bella Gladys, la quale vive con la madre, la figlioletta (anch’esse di nome Gladys) ed il nipotino Vladi. La famiglia, oltre a dover affrontare mille difficoltà al fine di riuscire a sbarcare il lunario, è impegnata anche a prendere parte alle prime rivolte contro la dittatura di Pinochet.

Ed ecco che le vicende del giovane missionario prendono il via, alternando scene di girato a filmati di repertorio, flashback e flashforward, ma riuscendo, allo stesso tempo, a mantenere una certa compattezza narrativa ed una certa linearità. L’operazione portata avanti da Justiniano è particolarmente interessante, in quanto, negli anni Ottanta, è stato lo stesso regista – al seguito di un gruppo di missionari – a girare i filmati di repertorio utilizzati. Ѐ soprattutto la necessità di raccontare la dittatura, dunque, che ha spinto Gonzalo Justiniano – cileno di nascita, ma francese di adozione – a dare vita ad un lungometraggio come Cabros de mierda. Un lavoro particolarmente sentito, addirittura urlato – come sta a suggerirci lo stesso titolo, che tradotto vuol dire proprio “teste di cazzo”, riferito a tutti coloro che a loro tempo hanno collaborato con Pinochet – che, tuttavia, quasi fino alla fine riesce a mantenersi piuttosto moderato nella regia, senza mai mostrarci violenze esplicite (fatta eccezione per l’uccisione di innocenti da parte della polizia) e senza mai andare sopra le righe. Soltanto nel finale – quando vediamo Samuel recarsi in Cile nel 2017 ed osservare in un museo le fotografie delle vittime della dittatura – sembra che il regista si sia lasciato prendere eccessivamente la mano dall’emotività ed abbia abbandonato, per un attimo, quel necessario distacco che serve a mettere in scena una storia. Considerata la lunga gestazione del film ed il coinvolgimento in prima persona dell’autore, però, questa è una piccola pecca che può essere facilmente perdonata.

Ma Cabros de mierda non è soltanto un film di denuncia, un urlo di rabbia di chi ha vissuto la tragedia sulla propria pelle. Cabros de mierda, al contrario, oltre a mettere in scena uno dei più grandi crimini contro l’umanità, solleva anche importanti questioni riguardanti principalmente la religione, la differenza tra essere praticanti per convenzione ed operare realmente il bene e, soprattutto, l’ipocrisia che si nasconde dietro a certi comportamenti. Particolarmente emblematica, a tal proposito, la scena in cui vediamo un anziano Samuel incontrare uno dei suoi torturatori, convertitosi ormai al Cristianesimo e dedito a preghiere collettive, affermando di essersi pentito e di essere stato perdonato da Dio.

A Gonzalo Justiniano va una particolare nota di merito per essere riuscito, nonostante lo stretto coinvolgimento, a mantenere una certa lucidità nel raccontare i fatti e ad aver evitato ogni possibile retorica. Siamo d’accordo, Cabros de mierda non è un film di Pablo Larrain (giusto per restare all’interno dei confini nazionali), questo no. Eppure, indubbiamente, ci troviamo di fronte ad un prodotto di tutto rispetto, certamente degno della nostra attenzione.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

19° FAR EAST FILM FESTIVAL – VANISHING TIME: THE BOY WHO RETURNED di Um Tae-hwa

vanishtimeyoungTITOLO: VANISHING TIME: THE BOY WHO RETURNED; REGIA: Um Tae-hwa; genere: fantasy; anno: 2016; paese: Corea del Sud; cast: Kang Dong-won, Shin Eun-soo; durata: 129′

Presentato in anteprima alla diciannovesima edizione del Far East Film Festival, Vanishing time: the boy who returned è l’ultimo lavoro del giovane cineasta sudcoreano Um Tae-hwa.

Una bambina solitaria appassionata di esoterismo. Un compagno di classe innamorato di lei. Un gruppo di amici e la voglia di vivere ogni giorno nuove avventure. È da qui che prende il via tutta la vicenda. La freschezza, la gioia di vivere dei protagonisti fa sì che tutti noi durante i primi minuti torniamo con la mente inevitabilmente a Stand by me. Eppure, nel momento in cui i ragazzi scoprono un misterioso uovo fluorescente all’interno di una grotta, ecco che la situazione sembra prendere tutta un’altra piega: in seguito alla rottura dell’uovo la terra inizia a tremare, la giovane protagonista – allontanatasi per un attimo dal gruppo – si ritrova da sola ed i suoi amici sembrano misteriosamente scomparsi. Sarà proprio lei, unica superstite, ad essere accusata dalla gente del luogo per quanto riguarda la responsabilità dell’accaduto. Ma, di fatto, cos’è che è realmente accaduto?

Ed ecco che il tempo fa il suo gioco, arrestandosi apparentemente per il mondo intero ma continuando a scorrere solo per pochi altri, i quali, a loro volta, saranno inevitabilmente costretti a pagarne le conseguenze.

Dall’altro lato abbiamo la società: severa, impietosa, timorosa nei confronti di ciò che è “diverso”. Quasi come se, con le sue leggi rigide e severe, costringesse ogni singolo abitante ad essere in un determinato modo, giudicandolo e sorvegliandolo costantemente. Molto interessante, a tal proposito, il ruolo che il regista ha assegnato alle telecamere: è inquadrato in dettaglio, non appena partono i titoli di testa, l’obiettivo, ancora chiuso, della telecamera di un’assistente sociale che sta per intervistare la bambina; nel momento in cui tale obiettivo si apre, ecco che prende il via la vicenda. Sono numerose telecamere, tra l’altro, ad essere disseminate per tutta la cittadina. A loro il compito di fermare ogni eventuale sospetto. Sì è costantemente osservati, ogni piccolo gesto viene registrato. Guai a chi prova a sgarrare.

Dal canto suo, anche la location dove si svolge la vicenda è alquanto indicativa: una piccola cittadina circondata da fitti boschi su di un’isola che sembra essa stessa fuori dal tempo. Un’isola da cui non è facile andare via. Un’isola che, in luce di quanto appena detto, diviene degna e fedele trasfigurazione di ciò che è oggi la Corea del Nord.

Dall’altro lato, però, abbiamo il mondo dei bambini. L’unico mondo ad essere rimasto “incontaminato”. Un mondo dove l’amicizia, l’amore, la libertà fanno da protagonisti assoluti insieme a dettagli di volti, di sorrisi, di occhi, di piccoli ma preziosi oggetti messi in risalto da una regia attenta e curata, dove nulla è lasciato al caso. Un mondo, questo dell’infanzia, che, alla fine dei giochi, non può non risultare vincitore assoluto.

Peccato che, al termine di un’operazione così interessante, Um Tae-hwa abbia calcato un po’ troppo la mano, inquadrando i due protagonisti – la bambina ed il suo migliore amico – su di una nave completamente vuota che naviga libera in mare. Tuttavia viene facile perdonare piccole cadute di stile del genere, se si pensa al prodotto nel suo intero. Malgrado, infatti, la relativamente poca esperienza del cineasta coreano, il risultato finale dimostra indubbiamente una straordinaria maturità. Evidentemente l’aver fatto per anni da aiuto regia al grande Park Chan-wook la differenza la fa eccome.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

RIFF 2016 – ADOLFO PEREZ ESQUIVEL – RIVERS OF HOPE di Dawn Gifford Engle

adolfo-perez-esquivel-9831TITOLO: ADOLFO PEREZ ESQUIVEL – RIVERS OF HOPE; REGIA: Dawn Gifford Engle; genere: documentario; anno: 2016; paese: Argentina; durata: 77′

Presentato in anteprima – e come film di chiusura – alla XV edizione del Rome Independent Film Festival, Adolfo Perez Esquivel – Rivers of Hope è l’ultimo documentario della regista Dawn Gifford Engle,la quale ci racconta la storia dell’artista ed attivista per i diritti umano che nel 1980 è stato insignito del Premio Nobel per la Pace.

Interessante figura, quella di Adolfo Perez Esquivel. Da amante dell’arte e studioso, fin da giovanissimo si ritrova coinvolto in prima persona nei tristi avvenimenti accaduti nel suo paese, l’Argentina. Coinvolto a tal punto, da entrare a far parte, dopo pochi anni dal suo inizio come attivista, dei desaparecidos (salvandosi, in seguito, miracolosamente), per poi diventare prigioniero politico e continuare a svolgere la sua attività anche dall’estero. E, sebbene al giorno d’oggi le dittature siano sparite e si siano ottenuti parecchi diritti rispetto al passato, Esquivel continua tutt’ora a battersi per il bene della propria nazione, quale combattente instancabile ed idealista che è sempre stato.

Interessante operazione – anche se spesso già abbondantemente adoperata come soluzione finale in parecchi documentari – quella di alternare le interviste a filmati di repertorio, fotografie e girato. Il tutto, senza dubbio, contribuisce a dare ritmo ed a rendere ancora più accattivante un tema che già di per sé attira l’attenzione di molti. Se, poi, si aggiunge anche una chiara e – per quanto possibile – esaustiva spiegazione degli avvenimenti storici, oltre ad un’indovinata e, soprattutto, mai eccessiva o “invadente” musica (composta, peraltro, dalla stessa signora Esquivel), ecco che abbiamo un documentario di tutto rispetto che, pur non distinguendosi per una marcata o innovativa autorialità, resta comunque un prodotto valido ed intellettualmente onesto.

Perché, di fatto, il punto è proprio questo: data la portata di determinati avvenimenti ed il breve periodo di storicizzazione trascorso, uno dei rischi che maggiormente si corrono nel momento in cui si decide di girare un documentario in merito, è proprio quello di autocommiserarsi, di piangersi addosso. Ma, fortunatamente, questo non è il caso di Adolfo Perez Esquivel – Rivers of Hope, che, al contrario, come già si può intuire dal titolo, ciò che maggiormente vuole trasmettere è proprio una ventata di speranza nei confronti del futuro, che, energica e “rigenerante” come l’acqua fresca di un fiume, non manca di toccare tutti noi, al termine della visione.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

11° FESTA DEL CINEMA DI ROMA – FRITZ LANG di Gordian Maugg

c-belle-epoque-fotograf-tim-fulda-%ef%80%a2-fritz-lang-hTITOLO: FRITZ LANG; REGIA: Gordian Maugg; genere: drammatico, biografico; anno: 2016; paese: Germania; cast: Heino Ferch, Thomas Thieme, Samuel Finzi; durata: 104′

Presentato in anteprima – all’interno della Selezione Ufficiale – all’11° Festa del Cinema di Roma, Fritz Lang, diretto dal regista tedesco Gordian Maugg, è incentrato sul periodo antecedente la lavorazione di uno dei più grandi capolavori del regista, nonché colonna portante del cinema espressionista: M – Il mostro di Düsseldorf.

Un pericoloso serial killer viene, finalmente, arrestato. Il regista Fritz Lang è inizialmente curioso di capire cosa abbia spinto l’uomo a commettere tutti quei delitti. In seguito ad alcuni loro incontri, però, inizierà anche a ripensare al suo passato e, in qualche modo, riuscirà a trovare non pochi punti in comune con l’uomo stesso. Dalle loro conversazioni prenderà vita, successivamente, la sceneggiatura di M – Il mostro di Düsseldorf.

Quali sono le sensazioni che si hanno durante e dopo la visione di Fritz Lang? Dunque, ripercorrendo velocemente con la mente le varie tappe della messa in scena, dovrebbero essere nell’ordine: incredulità, rabbia, sconforto, ilarità, rassegnazione, sonno e di nuovo rabbia. Ecco, il lungometraggio di Maugg trasmette proprio questo. E non perché la storia raccontata sia talmente coinvolgente da farci vivere così tante emozioni. Al contrario, chiunque abbia avuto l’occasione di innamorarsi del cinema di Lang, ha qui l’impressione di trovarsi di fronte ad una vera e propria profanazione. Soprattutto se ci si accorge della furbizia con cui una simile operazione è stata portata a termine, dal momento che un biopic su una figura di tale portata di certo andrà ad attirare un buon numero di spettatori, cinefili e non.

Prima ancora di vedere qualsiasi immagine, ma limitandosi soltanto ad ascoltare – fissando lo schermo nero – il motivetto fischiettato continuamente da Peter Lorre in M, le speranze di assistere ad un lavoro come si deve sono ancora in piedi. Bastano pochi minuti, però, per rendersi conto di avere davanti un prodotto altamente manierista e pretenzioso, le cui scene di maggiore potenza sono proprio filmati di repertorio o spezzoni del film originale di Lang montati sulla paccottiglia piatta e dai ritmi discontinui girata da Maugg. Facile così. Soprattutto quando si vuol creare un finale d’effetto con Peter Lorre che recita il suo monologo durante l’ultima sequenza di M. Come già detto, però, al di là della riuscita messa in scena da un punto di vista prettamente tecnico, quel che maggiormente rende Fritz Lang un lungometraggio urticante è la grande presunzione alla base di tutto.

Partendo dal presupposto che cercare di comprendere una figura complessa come quella di Lang – soprattutto se la si osserva in luce di alcuni avvenimenti di natura oscura (primo fra tutti, il suicidio della giovane moglie)accaduti durante la gioventù – non è compito facile, nel caso in cui si volesse approfondire un particolare momento della vita del regista, ci sarebbe talmente tanto da raccontare che, al di là della forma di messa in scena preferita, di certo potrebbe venirne fuori qualcosa di interessante. Ecco, a quanto pare Gordian Maugg – probabilmente talmente ansioso di creare a tutti i costi qualcosa di “rivoluzionario” – è riuscito in tutto e per tutto a dare vita a quanto di peggio si possa produrre. Il Fritz Lang qui raccontato è un violento, cocainomane e maniaco del sesso. Sembra ossessionato da qualsiasi cosa, fatta eccezione per il cinema stesso, a cui non viene fatto il benché minimo riferimento durante tutto il lungometraggio. Il suo personaggio viene talmente caricato da essere trattato involontariamente – a un certo punto – quasi alla stregua di una macchietta e perdendo totalmente di credibilità. Da ricordare – a questo proposito – la vera e propria scena madre del film, ossia quando vediamo Lang camminare da solo nel bosco e, di punto in bianco, prendere a sparare in aria all’impazzata. A questo punto, al pubblico – già fortemente provato da oltre un’ora di visione – non resta che lasciarsi andare – più per inerzia che per altro – a qualche stanca risata.

Tanto rumore per nulla, in pratica. Eppure, anche volendosi solo soffermare sul periodo antecedente la lavorazione di M, ci sarebbe talmente tanto da raccontare che i 104 minuti qui impiegati sarebbero fin troppo pochi. Basti pensare soltanto alle tematiche del film stesso, alla forte critica nei confronti della società, alla denuncia di quel “nazismo latente” che avrebbe visto, da lì a pochi anni, la nascita della dittatura vera e propria. Invece no. Gordian Maugg non racconta nulla di tutto ciò, impegnato com’è a dare vita a tutti i costi ad un Fritz Lang disturbato e disturbante come quello presentatoci in questa sua opera. E pensare che, anche solo volendosi concentrare sull’uomo piuttosto che sul cineasta, un bel documentario in merito, ad esempio, avrebbe avuto di sicuro una migliore riuscita. Ma, si sa, la presunzione, spesso e volentieri, gioca dei gran brutti scherzi.

VOTO: 3/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – LETTERE DA BERLINO di Vincent Perez

letteredaberlino3-maxw-654TITOLO: LETTERE DA BERLINO; REGIA: Vincent Perez; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Germania; cast: Emma Thompson, Brendan Gleeson, Daniel Brühl; durata: 97′

Nelle sale italiane dal 13 ottobre, Lettere da Berlino è l’ultimo lungometraggio diretto da Vincent Perez, tratto dal romanzo Ognuno muore solo di Hans Fallada ed ispirato ad una storia realmente accaduta.

Berlino, 1940. Otto ed Anna Quangel, due onesti cittadini appartenenti alla classe operaia, ricevono la triste notizia della morte, in guerra, del loro unico figlio, arruolatosi con l’esercito nazista. Sconvolti dalla perdita, i due inizieranno un lungo atto di rivolta diffondendo per tutta la città una serie di cartoline anonime, in cui vengono denunciate le brutture della dittatura hitleriana, e rischiando, così, di essere scoperti e giustiziati.

LETTERE DA BERLINO, RESISTENZA ALL'ORRORE NAZISTA

Di lungometraggi ambientati durante il periodo nazista, si sa, ne sono stati prodotti molti fino ad oggi, alcuni dei quali sono dei veri e propri capolavori. Eppure, nonostante tutto, sembra che le storie da raccontare non siano ancora finite. E, di conseguenza, anche i film da girare siano ancora parecchi, i quali, a loro volta, possono rivelarsi anche particolarmente interessanti. Lettere da Berlino – malgrado la pessima traduzione del titolo originale – ne è un esempio. La storia di Anna ed Otto rapisce fin da subito lo spettatore – merito anche di una buona sceneggiatura, oltre che delle straordinarie performances attoriali di Emma Thompson e di Brendan Gleeson – ed ecco che ci si ritrova catapultati in un mondo che, anche non avendolo vissuto in prima persona, ci è ormai familiare. Merito sì dell’ambientazione, come anche di una fotografia che ci mostra una Berlino quantomai tetra e grigia, praticamente quasi morta.

lettere-da-berlino-4Vincent Perez, dal canto suo, si è dimostrato un regista attento e particolarmente sensibile all’argomento. Lo dimostrano, ad esempio, intensi primi piani e dettagli di mani ed oggetti personali, osservati con un occhio che non è mai troppo invadente. E, inoltre, malgrado Perez non sia di origini tedesche, troviamo nel prodotto anche un certo tocco espressionista, perfettamente in linea con ciò che si sta raccontando: luci cupe, ambienti angusti e le scale. Scale, scale ed ancora scale. Non possiamo, a questo punto, non pensare – osservando le numerose inquadrature dall’alto della tromba delle scale all’interno del palazzo dei due protagonisti – al capolavoro di Fritz Lang M- Il mostro di Düsseldorf.

C’è ancora molto da raccontare, dunque, sul periodo nazista? Pare proprio di sì. E, a questo proposito, Lettere da Berlino si è rivelato un lungometraggio particolarmente curato e ben riuscito. Che, di certo, riuscirà ad appassionare e ad emozionare molta gente.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

FAR EAST FILM FESTIVAL: THE SILENCED di Lee Hae-Young

fullsizephoto601085REGIA: Lee Hae-Young; genere: horror, drammatico; anno: 2016; paese: Corea del Sud; durata: 99′

Presentato nella sezione European Première alla diciottesima edizione del Far East Film Festival di Udine, The Silenced è l’ultimo lungometraggio diretto dal cineasta coreano Lee Hae-Young.

Ju-ran è una ragazzina timida ed insicura che viene abbandonata dalla matrigna in un misterioso sanatorio, al fine di poter guarire dalla tubercolosi. Una volta entrata a far parte della struttura, farà da subito amicizia con un’altra allieva/paziente e verrà a sapere che il letto da lei occupato era – fino a pochi giorni prima – di un’altra ragazza – sua omonima – misteriosamente scomparsa nel nulla. In seguito, saranno anche altre giovani a sparire senza lasciare traccia, dopo aver manifestato i sintomi di una misteriosa malattia. A questo punto, il sospetto che all’interno del sanatorio si stia organizzando qualcosa di losco inizierà a farsi strada nella mente della giovane protagonista.

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Giochi di luci ed ombre, una costante tensione in attesa che avvenga qualcosa di brutto, personaggi apparentemente positivi che – proprio per essere eccessivamente gentili, dolci, addirittura stucchevoli – fanno presagire il peggio. Senza dubbio Lee Hae-Young in questo suo ultimo lavoro si è divertito non poco, rispettando tutti i canoni dell’horror classico, con qualche scena splatter qua e là, ma facendo anche un grosso lavoro per quanto riguarda la psicologia dei personaggi qui raccontati e giocando con lo spettatore stesso, facendolo entrare in un mondo dove apparentemente non sembra esserci alcuna via d’uscita.

fullsizephoto596020Nulla è lasciato al caso, nulla è fine a sé stesso. Persino le scene più violente risultano finalizzate a raccontare qualcos’altro, seppur – come è anche giusto che sia – autocompiacenti quanto basta. Quello che qui viene messo in scena ha, infatti, parecchi riferimenti alla storia del Giappone degli ultimi decenni (soprattutto alla politica dittatoriale perseguita nell’Impero giapponese), segno che niente è stato dimenticato. Di conseguenza, in The Silenced vediamo raccontate per immagini tutte le inquietudini e gli incubi più reconditi di un intero popolo, che, a sua volta, sente tutt’oggi l’esigenza di esternare, in qualche modo, ciò che ha dovuto subire.

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E poi c’è l’amicizia. Quella vera, che – grazie anche alla situazione che si sta vivendo – fa sì che salti fuori l’esigenza di vivere quasi in simbiosi. Memorabile, a questo proposito, la scena finale, in cui vediamo in flashback la protagonista e l’amica intente a chiacchierare in uno dei pochi momenti di serenità che hanno potuto condividere all’interno del sanatorio.

Visivamente accattivante, con una regia sapiente ed attenta ad ogni singolo dettaglio, questo ultimo lavoro di Lee Hae-Young – seppur molto simile per ambientazione a numerosi altri film di genere – risulta in conclusione un prodotto ben riuscito. Una visione che, al suo termine, lascia senza dubbio appagati.

VOTO: 7

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA: IL CLUB di Pablo Larrain

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TITOLO: IL CLUB; REGIA: Pablo Larrain; genere: drammatico; anno: 2015; paese: Cile; cast: Alfredo Castro, Antonia Zegers, Roberto Farias, Jaime Vadell; durata: 98′

Attualmente – e finalmente! – in programmazione – da giovedì 25 febbraio – nelle sale italiane, Il club, vincitore dell’Orso d’Argento al Festival di Berlino nel 2015, è l’ultima fatica del cineasta cileno Pablo Larrain.

In una casa in riva al mare, in un piccolo paesino sulla costa cilena, vivono quattro sacerdoti, insieme ad una suora, i quali devono fare penitenza per i loro peccati. I cinque, però, si dedicano alle scommesse sulle corse clandestine di levrieri e conducono una vita non in linea con ciò che la Chiesa stessa gli ha imposto. L’arrivo di un quinto sacerdote ed il suo subitaneo suicidio, però, sconvolgeranno gli equilibri venutisi a formare.

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Pablo Larrain, autore tra i più influenti nel panorama cinematografico contemporaneo e da sempre impegnato sul piano politico, ha qui, per la prima volta, trattato un tema quanto mai attuale come quello dei preti pedofili e dell’omertà della Chiesa Cattolica a riguardo. Dopo la dittatura di Pinochet – ampiamente trattata già in Post mortem e nel recente No – I giorni dell’arcobaleno – ecco che il cineasta cileno approfondisce un nuovo tema, creando un prodotto altamente d’impatto, “scomodo” (basti pensare che in Italia sono pochissime le sale in cui viene proiettato), ma, allo stesso tempo di grande potenza cinematografica. Un prodotto politico, ma in cui il cinema non viene “assorbito” dal potere politico stesso.

Il-Club-di-Pablo-Larraín-05-1000x583Il lungometraggio si apre con un passo della Genesi: “Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre”. Partendo da questa dicotomia luce/tenebre, ecco che Larrain si concentra su queste ultime, mostrandoci un mondo “sporco”, oscuro, segreto. Ma chi è, in fin dei conti, la vittima e chi il carnefice? La figura del sacerdote mandato dalla Chiesa per indagare circa il passato dei quattro protagonisti sta a rappresentare questo potere supremo, corrotto, fasullo che dall’alto è pronto a giudicare chiunque provi a discostarsi da regole severamente imposte. I sacerdoti, dal canto loro, sono personaggi malati, ipocriti, che, dopo aver perso il contatto con sé stessi a furia di sentirsi costretti in una vita non loro, hanno anche perso la lucidità nell’affrontare la vita stessa.

El-clubUna figura particolarmente interessante è quella del pescatore alcolizzato Sandokan, vittima, durante l’infanzia, di abusi sessuali da parte di un prete. Egli, una sorta di “voce della verità” è un personaggio scomodo, ma anche una sorta di Cristo sceso in terra, che pertanto dovrà “espiare” le colpe dei suoi fratelli – secondo il giudizio della comunità del paesino – immolandosi al posto loro. Particolarmente intrisa di simbolismo religioso, a questo proposito, la scena in cui, dopo aver fatto picchiare Sandokan dalla gente del posto, accusandolo di una colpa non commessa, uno dei sacerdoti, in atto di penitenza, è intento a lavare i piedi all’uomo, per poi chinarsi a baciarli. Sandokan, dal canto suo, è composto sulla sedia alla stregua di un Cristo appena deposto dalla croce.

A021_C013_0722KAPablo Larrain racconta tutto ciò in modo assolutamente personale e spiazzante, senza voler proclamare a tutti i costi una tesi definitiva. Questo suo modo di raccontare viene, qui, inoltre, rafforzato da una regia sapiente e da una fotografia che gioca molto sul contrasto luce/ombra, con immagini spesso poco definite e con personaggi di cui vediamo sovente soltanto il controluce, il riflesso o l’ombra stessa.

Con questo suo ultimo lavoro, Larrain ha nuovamente dato prova del suo grande talento di cineasta e narratore, dimostrando, così, di essere una delle personalità più importanti del panorama cinematografico contemporaneo.

VOTO: 9/10

Marina Pavido