LA RECENSIONE DI MARINA – DOMANI di Cyril Dion e Mélanie Laurent

domani-melanie-laurent-cyril-dionTITOLO: DOMANI; REGIA: Cyril Dion, Mélanie Laurent; genere: documentario; anno: 2016; paese: Francia; durata: 118′

Nelle sale italiane dal 6 ottobre, Domani è un interessante documentario diretto da Cyril Dion e Mélanie Laurent, i quali ci mostrano numerose soluzioni, al fine di salvaguardare il nostro pianeta e di migliorare la nostra qualità della vita.

Cinque sezioni (agricoltura, energia, economia, democrazia ed istruzione) per una sorta di road movie sotto forma di documentario che tocca quasi tutti gli angoli del pianeta: dalla Germania all’Inghilterra, dalla Francia alla Svezia, dalla Svizzera alla Finlandia, senza dimenticare gli Stati Uniti, l’India e l’Isola di Réunion.

dem-678x381Interessante, accattivante, decisamente di grandissima attualità. Se vogliamo, però, concentrarci per un momento esclusivamente sull’aspetto prettamente cinematografico di questo prodotto di Dion e Laurent, non possiamo non notare il tocco particolarmente televisivo che l’intero lavoro ha. Tutto viene raccontato in modo chiaro e lineare, su questo non v’è alcun dubbio. Eppure, se i due registi avessero voluto osare di più – sia per quanto riguarda il visivo che, ad esempio, la musica – forse l’impatto di ciò che si è voluto mettere in scena sarebbe stato anche maggiore sul pubblico. Analogamente, le voci degli stessi Dion e Laurent risultano apparire un po’ troppo didascaliche a tratti, oltre che forzate nel momento in cui si passa da una sezione all’altra. Detto questo, però, il messaggio che si vuole portare avanti arriva. E lo fa anche in modo semplice e diretto. Qualità, questa, di grande importanza, quando si vuole fare del cinema uno strumento prettamente politico, come in questo caso.

Ed è proprio il potere politico della settima arte che qui fa da protagonista assoluto. Perché, diciamolo pure, talvolta (anzi, più spesso di quanto si immagini) le innumerevoli potenzialità del mezzo cinematografico vengono sottovalutate. E non poco. Basti pensare a come determinate pellicole hanno avuto impatto sul pubblico ed a come gli spettatori di oggi tendono a restare “immuni”, nel momento in cui si trovano davanti gli prodotti considerati – a loro tempo – “rivoluzionari”. Ormai siamo abituati a vedere ed a sentire di tutto. Eppure, recandoci al cinema, possiamo trovare – oltre al semplice intrattenimento – anche un importante spunto di riflessione. A tale scopo, pertanto, Domani risulta perfettamente pertinente.

domani-trailer-italiano-del-documentario-di-cyril-dion-e-melanie-laurentPer quanto riguarda il messaggio finale, forse il lavoro di Dion e Laurent può sembrare un po’ troppo ottimista ed utopistico, quello sì. Ma, d’altronde, anche questa potrebbe rivelarsi una strategia vincente al fine di far arrivare al pubblico ciò che si è appena messo in scena. Chissà, però, che effetto avrebbero avuto immagini ben più crude e realistiche e prospettive di gran lunga più drammatiche. Questo non possiamo saperlo. Ma, al momento, ci basta pensare che un prodotto semplice, pulito e diretto come Domani possa smuovere un bel po’ di “menti pensanti”, al fine di porre rimedio al disastro che stiamo combinando nella gestione del nostro pianeta. E che il cinema, (anche) in questo caso, ci sia d’aiuto!

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – I, DANIEL BLAKE di Ken Loach

daniel_blakeTITOLO: I, DANIEL BLAKE; REGIA: Ken Loach; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Gran Bretagna, Francia; cast: Dave Johns, Hayley Squires, Natalie Ann Jamieson; durata: 100′

Nelle sale italiane dal 21 ottobre, I, Daniel Blake è l’ultimo lungometraggio diretto dall’acclamato regista Ken Loach, premiato con la Palma d’Oro all’ultima edizione del Festival di Cannes.

Newcastle, oggi. Daniel Blake ha 59 anni e, dopo essere stato colpito da infarto, è impossibilitato a tornare al suo lavoro di carpentiere. Durante le lunghe trafile per riuscire ad ottenere un sussidio, si imbatte in Katie, giovane ragazza madre londinese e disoccupata, anch’ella alla ricerca di aiuto da parte dello Stato. I due instaurano una bella amicizia e si aiutano a vicenda, ma la burocrazia non sembra stare affatto dalla loro parte.

danielblakeKen Loach, si sa, fin dagli inizi della sua prolifica carriera, ha sempre sposato un ben definito messaggio politico, facendosi paladino di chi – per un motivo o per un altro – non sempre riesce a beneficiare dei propri diritti di cittadino. E dopo un periodo che possiamo definire quasi “soft” (i suoi ultimi lavori, fatta eccezione per il documentario The spirit of ’45, pur essendo prodotti più che validi come Jimmy’s hall o La parte degli angeli, hanno spesso deluso le aspettative del pubblico della critica), finalmente il cineasta britannico è tornato il Ken Loach di sempre, il Ken Loach dei tempi d’oro, quello – per intenderci – di Riff raff o di Bread and Roses. Dalla sua, I, Daniel Blake ha – d’altronde – non poche trovate interessanti, al di là del tema trattato. Vediamo perché.

Il protagonista Daniel Blake – magistralmente interpretato da Dave Johns – è un uomo qualunque in una società in cui il cittadino è considerato alla stregua di un cane (come viene sottolineato da Katie alla fine del film). Spiazza la rappresentazione della sua quotidianità, dove – altra grande protagonista – la città di Newcastle – spoglia, grigia, fredda – fa da scenografia perfetta alle vicende dell’uomo. Stesso discorso vale per determinate trovate registiche, quali, ad esempio, le numerose dissolvenze al nero, che – con una totale assenza di musica (fatta eccezione per i momenti in cui il protagonista mostra al pubblico il suo lato più intimo) – stanno a rendere perfettamente l’idea della ripetitività e della lunghezza dei tempi morti in ambito burocratico. Dissolvenze al nero che, con una trovata più che giusta, vengono copiosamente usate anche per quanto riguarda la scena finale ed in chiusura del film.

20160418140729-i_danielblake_01Numerosi sono, tra l’altro, i momenti di forte impatto emotivo. Primo fra tutti: la scena in cui Katie, facendo la spesa alla banca del cibo, non resiste alla fame e, per disperazione, apre una confezione di passata di pomodoro ed inizia a divorarne il contenuto. “Questo è un film che vi farà male”, ha affermato lo stesso Ken Loach in merito. E, bisogna riconoscerlo, il regista è riuscito in pieno nel suo intento, creando sì un lungometraggio con un importante messaggio politico e sociale, ma anche un prodotto che – malgrado l’argomento sia stato più e più volte trattato – riesce fin da subito a stabilire il giusto contatto con il pubblico. Cosa, peraltro, non facile.

Forse è stato eccessivo premiare il cineasta con la Palma d’Oro, in quanto prodotti ben più interessanti erano presenti a Cannes? Può darsi. Ma, in ogni caso, I, Daniel Blake è un’opera raffinata e ben fatta, la quale fa parte di quel cinema che resta dentro a lungo e che non ci stancheremo mai di vedere.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA: IL CLUB di Pablo Larrain

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TITOLO: IL CLUB; REGIA: Pablo Larrain; genere: drammatico; anno: 2015; paese: Cile; cast: Alfredo Castro, Antonia Zegers, Roberto Farias, Jaime Vadell; durata: 98′

Attualmente – e finalmente! – in programmazione – da giovedì 25 febbraio – nelle sale italiane, Il club, vincitore dell’Orso d’Argento al Festival di Berlino nel 2015, è l’ultima fatica del cineasta cileno Pablo Larrain.

In una casa in riva al mare, in un piccolo paesino sulla costa cilena, vivono quattro sacerdoti, insieme ad una suora, i quali devono fare penitenza per i loro peccati. I cinque, però, si dedicano alle scommesse sulle corse clandestine di levrieri e conducono una vita non in linea con ciò che la Chiesa stessa gli ha imposto. L’arrivo di un quinto sacerdote ed il suo subitaneo suicidio, però, sconvolgeranno gli equilibri venutisi a formare.

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Pablo Larrain, autore tra i più influenti nel panorama cinematografico contemporaneo e da sempre impegnato sul piano politico, ha qui, per la prima volta, trattato un tema quanto mai attuale come quello dei preti pedofili e dell’omertà della Chiesa Cattolica a riguardo. Dopo la dittatura di Pinochet – ampiamente trattata già in Post mortem e nel recente No – I giorni dell’arcobaleno – ecco che il cineasta cileno approfondisce un nuovo tema, creando un prodotto altamente d’impatto, “scomodo” (basti pensare che in Italia sono pochissime le sale in cui viene proiettato), ma, allo stesso tempo di grande potenza cinematografica. Un prodotto politico, ma in cui il cinema non viene “assorbito” dal potere politico stesso.

Il-Club-di-Pablo-Larraín-05-1000x583Il lungometraggio si apre con un passo della Genesi: “Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre”. Partendo da questa dicotomia luce/tenebre, ecco che Larrain si concentra su queste ultime, mostrandoci un mondo “sporco”, oscuro, segreto. Ma chi è, in fin dei conti, la vittima e chi il carnefice? La figura del sacerdote mandato dalla Chiesa per indagare circa il passato dei quattro protagonisti sta a rappresentare questo potere supremo, corrotto, fasullo che dall’alto è pronto a giudicare chiunque provi a discostarsi da regole severamente imposte. I sacerdoti, dal canto loro, sono personaggi malati, ipocriti, che, dopo aver perso il contatto con sé stessi a furia di sentirsi costretti in una vita non loro, hanno anche perso la lucidità nell’affrontare la vita stessa.

El-clubUna figura particolarmente interessante è quella del pescatore alcolizzato Sandokan, vittima, durante l’infanzia, di abusi sessuali da parte di un prete. Egli, una sorta di “voce della verità” è un personaggio scomodo, ma anche una sorta di Cristo sceso in terra, che pertanto dovrà “espiare” le colpe dei suoi fratelli – secondo il giudizio della comunità del paesino – immolandosi al posto loro. Particolarmente intrisa di simbolismo religioso, a questo proposito, la scena in cui, dopo aver fatto picchiare Sandokan dalla gente del posto, accusandolo di una colpa non commessa, uno dei sacerdoti, in atto di penitenza, è intento a lavare i piedi all’uomo, per poi chinarsi a baciarli. Sandokan, dal canto suo, è composto sulla sedia alla stregua di un Cristo appena deposto dalla croce.

A021_C013_0722KAPablo Larrain racconta tutto ciò in modo assolutamente personale e spiazzante, senza voler proclamare a tutti i costi una tesi definitiva. Questo suo modo di raccontare viene, qui, inoltre, rafforzato da una regia sapiente e da una fotografia che gioca molto sul contrasto luce/ombra, con immagini spesso poco definite e con personaggi di cui vediamo sovente soltanto il controluce, il riflesso o l’ombra stessa.

Con questo suo ultimo lavoro, Larrain ha nuovamente dato prova del suo grande talento di cineasta e narratore, dimostrando, così, di essere una delle personalità più importanti del panorama cinematografico contemporaneo.

VOTO: 9/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA: WALESA di Andrzej Wajda

Nelle sale italiane dal 6 giugno, Walesa. L’uomo della speranza, è l’ultimo lungometraggio del regista polacco Andrzej Wajda.

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Viene qui narrata la storia di Lech Walesa, importante uomo politico polacco, che tanto ha fatto per far sì che i diritti dei lavoratori venissero riconosciuti. Alla sua carriera politica si intreccia la sua vita personale, insieme alla forte e fedele moglie Danuta ed ai suoi sei bambini.

Il tono narrativo scelto da Wajda risulta essere piuttosto interessante: si tratta di una serie di flashback che partono da un colloquio con la giornalista Oriana Fallaci (interpretata da Maria Rosaria Omaggio) alla vigilia del conferimento a Walesa del Premio Nobel per la Pace.

Le scene si alternano ad immagini apparentemente di repertorio (in realtà è stato tutto girato durante il periodo delle riprese) ed il tutto contribuisce a far entrare lo spettatore nel vivo degli avvenimenti di quegli anni, dai primi scioperi organizzati da Walesa, fino, pian piano, alla presa di potere di quest’ultimo.

Oltre al piano stilistico, molto ricercato e raffinato, è interessante anche, per il pubblico, approfondire più da vicino determinati avvenimenti storici che tanta importanza hanno avuto nella storia della Polonia e dell’Europa in generale. Il tutto raccontato da uno dei più importanti autori polacchi contemporanei che, purtroppo, non sempre ha la distribuzione che merita, nonostante la sua lunga ed importante carriera.

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Si tratta di un film dai toni a tratti documentaristici molto ben realizzato nei singoli dettagli, sia per quanto riguarda l’ambientazione dell’epoca che per quanto riguarda la caratterizzazione di ogni singolo personaggio (basti pensare che Maria Rosaria Omaggio è riuscita addirittura a trovare la stessa marca di sigarette fumate da Oriana Fallaci, nonostante fossero fuori commercio da anni).

Walesa . L’uomo della speranza, presentato in concorso all’ultima edizione del Festival di Toronto e fuori concorso alla 70° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, risulta essere un prodotto piuttosto interessante, da non perdere assolutamente, in modo da conoscere meglio una importante figura politica, ma anche una cinematografia, quella polacca, molto valida e ricercata.

 

Voto: 8/10

 

 

Marina Pavido

ASCOLTA IL COMMENTO DI MARINA DALLA PUNTATA 130 DI ENTR’ACTE – https://www.youtube.com/watch?v=r_WWcydttGs&feature=youtu.be