In uscita CONNESSIONI, il nuovo album di Matteo Sacco

cover Connesssioni fronte jpegRicevo e volentieri pubblico

Secondo disco per il “cantautore 2.0”, anticipato dal singolo “E Tu Dormi”.

Connessioni è il nuovo lavoro di Matteo Sacco, cantautore romano ma orvietano di adozione. Il disco, preceduto dall’uscita del singolo “E tu dormi”, sarà disponibile nei principali store digitali a partire dal 23 maggio.

Il titolo dell’album riporta immediatamente all’era digitale in cui siamo stati repentinamente catapultati: “un mondo fatto di contatti virtuali che stanno man mano occupando la totalità del nostro tempo e consumando ogni spazio”, come dichiara lo stesso Matteo. Nella title track “Connessioni” il cantautore cerca di descrivere proprio questo. “Tutte le nuove canzoni seguono un’idea che è quella di mettere in discussione il concetto di realtà, in modo che lo sguardo sia in grado di spingersi oltre ogni categoria e soprattutto al di là delle facciate dei selfie e dei nostri profili patinati sui social. Esistono collegamenti sconosciuti ed inaspettati, direi ancestrali. L’uomo però ha perso contatto con la sua stessa natura, con la dimensione di viaggio e di scoperta”.

_e tu dormiIl nuovo lavoro segue La Dolce Vita, il primo disco di Matteo Sacco che risale al 2016. Per promuoverlo Matteo aveva girato l’Italia in tour e aveva diviso il palco dell’Umbria Folk Festival con artisti del calibro di Davide Van De Sfroos e Max Gazzè.

Il sound di Connessioni, differentemente da quello più classico e folk del disco precedente, nasce dall’esigenza di veicolare in un modo più attuale le parole dei testi, che restano comunque per Matteo il fulcro di ogni suo lavoro. Lo stile si trasforma così in “cantautorato 2.0”, come lo definisce lo stesso artista per evidenziare una trasformazione elettronica, sia essa più atmosferica o electro-pop: “la scelta di usare negli arrangiamenti synth e batterie campionate è uscita fuori inconsapevolmente e in modo viscerale, suggerita da un gusto maturato negli anni della mia primissima adolescenza con la new wave degli anni ’80. Oltre ai grandi nomi italiani, sono cresciuto ascoltando band come Duran Duran, Depeche Mode, e INXS”.

matteo sacco_2Inoltre – spiega Matteo – il piacere più grande e irresistibile è stato quello di cantare le mie canzoni su ritmi che strizzano l’occhio alla musica dance elettronica, che dagli anni ’90 in poi ha trascinato me, insieme a molti altri, nel vortice estatico dei rave party”.

Connessioni – tracklist:

  1. E Tu Dormi

  2. Battibaleno

  3. Connessioni

  4. Amici Miei

  5. Il Male

  6. Viaggi

  7. Il Sole di Maggio

  8. Il Vecchio dei Giorni

  9. Attraverso lo Specchio

  10. Odisseo

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LA RECENSIONE – BOHEMIAN RHAPSODY di Bryan Singer

Bohemian-Rhapsody-film-3763-600x347TITOLO: BOHEMIAN RHAPSODY; REGIA: Bryan Singer; genere: biografico; paese: USA; anno: 2018; cast: Rami Malek, Ben Hardy, Gwilym Lee; durata: 134′

Nelle sale italiane dal 29 novembre, Bohemian Rhapsody è l’ultimo, attesissimo lavoro del regista Bryan Singer, nonché biopic del compianto Freddie Mercury, leader del gruppo musicale The Queen.

Il presente lavoro – prodotto da Brian May – segue per quindici anni la nota rock band inglese, dalla sua formazione nel 1970, fino al celebre Live Aid Concert del 1985, concentrando la sua attenzione proprio sulla figura di Mercury, impersonato per l’occasione dal giovane Rami Malek, il quale, oltre ad aver ottenuto una straordinaria somiglianza fisica con il cantante – con un trucco importante che non risulta mai posticcio né eccessivamente artefatto – ha esercitato un lungo e difficile lavoro su sé stesso, al fine di rendere al meglio sul grande schermo il suo impegnativo personaggio.

Cercando di evitare ogni pericolosa retorica, tipica dei biopic, Bohemian Rhapsody si apre con una bella carrellata a seguire che vede Mercury, rigorosamente di spalle, nel momento in cui, dopo essersi svegliato in casa sua, circondato dai numerosi gatti, si accinge a salire sul palco davanti al quale un’enorme folla di fan adoranti lo aspetta. Nel frattempo, la musica dei Queen fa il resto, oltre a un minuziosissimo lavoro di ricostruzione – inquadratura per inquadratura – di tutti i filmati riguardanti lo storico gruppo.

La peculiarità di un lungometraggio come il presente è, di fatto, quella di concentrarsi quasi esclusivamente sulla musica prodotta dal gruppo (memorabile, a tal proposito, la sequenza che ci mostra i quattro intenti a registrare in studio proprio la coraggiosa e sperimentale Bohemian Rhapsody), senza soffermarsi eccessivamente – ma, allo stesso tempo, trattando il tutto in modo adeguato – sulle vicende private dello stesso Mercury, dalla sua relazione con Mary Austin, alla scoperta della propria omosessualità, fino alla malattia.

Forte – come già è stato scritto – di una musica vincente, il presente lungometraggio vanta, accanto a una regia a tratti eccessivamente virtuosistica, un montaggio studiato fin nei minimi dettagli. il risultato finale è un prodotto decisamente coinvolgente, tra le più fedeli rappresentazioni di una delle icone della musica rock anni Settanta e Ottanta.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – A STAR IS BORN di Bradley Cooper

a-star-is-bornTITOLO: A STAR IS BORN; REGIA: Bradley Cooper; genere: drammatico; paese: USA; anno: 2018; cast: Lady Gaga, Bradley Cooper, Andrew Dice Clay; durata: 135′

Nelle sale italiane dall’11 ottobre, A Star is born, presentato fuori concorso alla 75° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, è l’esordio alla regia dell’attore Bradley Cooper, qui anche nel ruolo di co-protagonista.

Terzo remake del celebre lungometraggio (a sua volta trasposizione cinematografica di un musical) diretto nel 1937 da William A. Wellman, il film racconta la storia di Ally, giovane e timida cameriera con un grande talento per il canto, la quale, esibendosi in un locale, incontra per caso il celebre cantante Jackson Maine. Tra i due nasce un grande amore e la donna avrà finalmente modo di mostrare al mondo intero il proprio talento, diventando in poco tempo una vera e propria celebrità. Saranno i problemi di alcolismo di Jackson, però, a minare la serenità del loro rapporto e le loro stesse carriere.

Il problema principale di un lavoro come A Star is born è – come sovente in casi del genere accade – quello di essere stato diretto da un attore che interpreta anche il ruolo del protagonista, facendo sì che la voglia di apparire e di dare mostra del proprio talento abbia la meglio sulla qualità del lavoro stesso. E questo, purtroppo, è ciò che accade (dopo un inizio più che dignitoso) nella seconda parte del film, in cui vediamo Cooper sempre più schiavo dell’alcool e delle droghe: un personaggio eccessivamente caricato, da togliere quasi visibilità alla co-protaginista. Peccato. Soprattutto perché lo stesso Cooper, registicamente parlando, si è dimostrato pulito e interessante.

La vera peculiarità del presente lungometraggio, però, è proprio Lady Gaga, qui nell’insolita veste di attrice: affascinante, intensa, mai sopra le righe e bella in modo magnetico con il suo look al naturale, la giovane cantante non ha nulla da invidiare alle colleghe che, negli anni scorsi hanno ricoperto il suo stesso ruolo. Un talento inaspettato che ha fatto acquistare a questo A Star is born parecchi punti. Anche se, qualitativamente parlando, i precedenti lavori di Wellman, di George Cuckor e di Frank Pierson ci sembrano, purtroppo, lontani anni luce.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – TUTTI IN PIEDI di Franck Dubosc

Tutti-in-piedi-3TITOLO: TUTTI IN PIEDI; REGIA: Franck Dubosc; genere: commedia; paese: Francia; anno: 2018; cast: Franck Dubosc, Alexandra Lamy, Gérard Darmon; durata: 107′

Nelle sale italiane dal 27 settembre, Tutti in piedi è l’ultima commedia diretta dall’attore e sceneggiatore francese Franck Dubosc, qui alla sua opera prima da regista.

Jocelyn è un seduttore impenitente alla soglia dei cinquant’anni. Appena rimasto orfano della madre – con la quale era da tempo ai ferri corti – l’uomo è incapace di avere relazioni durature con le donne. Tutto sembra cambiare, però, in seguito all’incontro con la bella violinista Florence, la quale è paraplegica. Per una serie di equivoci, però, la donna si convincerà che anche Jocelyn è paraplegico. Non sarà facile, dunque, mettere in piedi una farsa, al fine di non ferire i sentimenti di Florence.

Una commedia molto classica nella sua impostazione, che dalla sua ha soprattutto il fatto di ridere con garbo e delicatezza della disabilità, ritraendo personaggi forti e determinati, i quali, a loro volta, ben sanno rendere l’idea di ciò che i disabili vivono ogni giorno.

Cosa non facile, dunque, soprattutto a causa del rischio di scadere nella retorica. Questo,però, è stato fortunatamente evitato dal regista – qui nei panni dello stesso protagonista – il quale, pur avendo dimostrato di saper gestire al meglio determinati elementi, non ha evitato scivoloni e scelte poco azzeccate tipiche di chi per la prima volta si rapporta al lavoro dietro la macchina da presa.

Ed ecco che espedienti comici spesso forzati (vedi il collega musicista di Florence che è solito accompagnarsi ai transessuali o anche gli imbarazzanti controlli della prostata a cui il protagonista deve sottoporsi) si alternano spesso a un personaggio principale gestito non al meglio, in quanto, come, purtroppo, sovente accade, nel momento in cui il ruolo di regista e quello di attore protagonista vengono ricoperti dalla stessa persona, il rischio che una pericolosa megalomania e un fastidioso egocentrismo abbiano la meglio sulla qualità complessiva del lavoro è più che mai elevato.

E questo è, purtroppo, ciò che è accaduto in Tutti in piedi, che, tutto sommato, avrebbe potuto essere complessivamente un lavoro pulito e gradevole. Che ciò dipenda (solo) all’inesperienza di Dubosc come regista? Questo, ovviamente, soltanto il tempo potrà dircelo.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

VERTICAL MOVIE 2018: PETER GREENAWAY PRESENTA IL SUO PRIMO FILM GIRATO IN VERTICALE

VerticalMovie_pplPeter Greenaway ha scelto il VerticalMovie per annunciare in esclusiva il suo primo film girato in verticale – e il primo realizzato in Europa – ispirato e immaginato proprio sull’onda del Festival in corso a Piazza del Popolo a Roma.

Verticality, questo il titolo del film, prodotto dalla Stemo Production di Claudio Bucci, sarà composto da sette episodi: il cineasta britannico firma la regia del primo capitolo e supervisiona artisticamente l’intero progetto. Peter Greenaway sarà al VerticalMovie nelle serate di Sabato 22 e Domenica 23 accompagnato dalla moglie, la regista e videoartist Saskia Boddeke che dirige con lui il primo episodio.
Dopo le prime due serate il VerticalMovie, primo Festival di video verticali ideato e artisticamente diretto da Salvatore Marino e realizzato dal Presidente Maurizio Ninfa, prosegue:

stasera, sabato, spazio anche alla danza, quella di Alex La Rosa, evoluzioni in verticale naturalmente, poi la musica di Mario Venuti, Ainè e Mahmood sullo stesso palco per un concerto inedito trasmesso anche in diretta su Rai Radio2 Indie. Domenica gran finale con i vincitori del concorso presentato da Andrea Delogu, e la musica di Nesli, Grace Cambria e LaceBlack. In platea la giuria tutta presieduta da Marco Giusti, Peter Greenaway, Saskia Boddeke e tanti ospiti.

VENEZIA 75 – AT ETERNITY’S GATE di Julian Schnabel

eternitygTITOLO: AT ETERNITY’S GATE; REGIA: Julian Schnabel; genere: biografico; paese: USA; anno: 2018; cast: Willem Dafoe, Rupert Friend, Oscar Isaac; durata: 110′

Presentato in anteprima – e in corsa per il Leone d’Oro – alla 75° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, At Eternity’s Gate è l’ultimo di una lunga serie di biopic sulla vita del celebre pittore olandese Vincent Van Gogh, firmato Julian Schnabel.

Partendo dal momento in cui l’artista ha stretto la sua forte amicizia con il collega Paul Gauguin, At Eternity’s Gate ci mostra un Van Gogh sofferente, incompreso, che vive un eterno conflitto interiore e che riesce a sentirsi sé stesso solo nel momento in cui si trova da solo, immerso nella natura più incontaminata, e si accinge a dipingere un altro dei suoi quadri.

Inutile dire che – data anche la parallela carriera da pittore dello stesso Julian Schnabel – il presente lungometraggio (probabilmente una delle opere più personali e necessarie per l’autore stesso insieme a Basquiat, del 1996) vanta una cura dell’immagine e della fotografia come poche volte capita di vedere sul grande schermo. I dipinti di Vincent Van Gogh vengono, così, ricreati da una macchina da presa che, tuttavia, risulta essere a tratti troppo traballante. Ingiustificatamente traballante. Facendo, sovente, perdere di impatto visivo alle sopracitate immagini, ma soffermandosi sapientemente su un primissimo piano del protagonista che in tutto e per tutto sta a ricordarci il suo stesso Autoritratto con orecchio bendato (datato 1889).

Non ha paura dei silenzi, Julian Schnabel. Non li teme e, al contrario, tende a esasperarli fino all’estremo, fino al massimo del consentito, accompagnando le immagini di un Van Gogh in estasi nella natura, solo con un misurato commento musicale firmato Tatiana Lisovskaya, al fine di far sì che lo spettatore stesso diventi parte di quell’estasi quasi mistica vissuta dal protagonista. Ma, in fin dei conti, è davvero necessaria una messa in scena così estrema? O tali scelte registiche denotano soltanto una pericolosa mancanza di idee da parte del regista stesso?

Malgrado le suggestive immagini, malgrado i buoni intenti da parte dell’autore, At Eternity’s Gate risulta, alla fine, un’opera che non riesce a esprimere fino in fondo tutto il proprio potenziale. Come se, negli scorsi anni, tutto fosse già stato detto in merito. L’immagine che si ha, dunque, è quella di un regista non del tutto a proprio agio, che non sa come concludere un discorso ormai aperto e che, di fronte a un tema sì importante, si sente alquanto spaesato. Peccato. Perché, di fatto, di spunti interessanti (soprattutto dal punto di vista estetico) ce n’erano eccome.

Lungometraggio ingenuo e maldestro, At Eternity’s Gate vanta, tuttavia, una straordinaria prova attoriale da parte del sempre ottimo Willem Dafoe, nel ruolo del protagonista. Sarà Coppa Volpi?

VOTO: 6/10

Marina Pavido

 

VENEZIA 75 – FIRST MAN di Damien Chazelle

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TITOLO: FIRST MAN; REGIA: Damien Chazelle; genere: biografico; paese: USA; anno: 2018; cast: Ryan Gosling, Claire Foy, Corey Stoll; durata: 135′

Presentato in concorso – e come film d’apertura – alla 75° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, First Man è l’ultimo lungometraggio del giovane e acclamato cineasta statunitense Damien Chazelle.

La storia qui messa in scena è quella dell’astronauta Neil Armstrong, uomo segnato da un grave lutto famigliare (la figlioletta è morta prematuramente), ma che, nonostante tutto, è riuscito a coronare un sogno e ad essere il primo uomo ad atterrare sulla Luna.

Tema interessante, dunque, questo scelto da Chazelle, il quale, reduce dal successo planetario del suo La La Land (che già aveva aperto il concorso veneziano nel 2016), ha certamente sentito il forte peso della responsabilità di non deludere le aspettative dei suoi estimatori. Il giovane autore, dunque, ha deciso di dare alla vita dell’astronauta un taglio del tutto personale, evitando ogni pericolosa retorica, tipica della maggior parte dei biopic. Ed ecco che, di punto in bianco, viene abbandonata (quasi) del tutto quell’estetica ricercata e patinatissima di La La Land, per lasciare spazio unicamente al protagonista e alle numerose e intense emozioni da lui vissute. Al via, dunque, primi e primissimi piani, dettagli di oggetti che ricordano un passato (non troppo) lontano e giochi di sguardi che ben sanno delineare i personaggi qui presentatici. A tal proposito, particolarmente degna di nota è l’interpretazione di Ryan Gosling, la quale potrebbe anche lasciar prevedere più di un premio importante.

Tali momenti intimisti, tuttavia, ben si amalgamano con scene adrenaliniche riguardanti lanci di astronavi, atterraggi mozzafiato e, non per ultimo, la stessa scena in cui vediamo il protagonista sbarcare sulla Luna. Momenti fortemente d’effetto, che, grazie anche al supporto di un valido – e mai invasivo – commento musicale, riescono a conferire all’intero lungometraggio un carattere del tutto personale.

Non mancano numerose citazioni, in questo ultimo lavoro di Chazelle. Ma d’altronde, si sa, nel momento in cui si mettono in scena scene nello spazio, anche solo un oggetto che fluttua nel vuoto non può non far pensare al glorioso 2001 – Odissea nello Spazio, del maestro Stanley Kubrick. Diamo a Cesare quel che è di Cesare!

VOTO: 7/10

Marina Pavido

20° FAR EAST FILM FESTIVAL – THE BATTLESHIP ISLAND: DIRECTOR’S CUT di Ryoo Seung-wan

battleship-islandTITOLO: THE BATTLESHIP ISLAND: DIRECTOR’S CUT; REGIA: Ryoo Seung-wan; genere: storico, guerra; paese: Corea del Sud; anno: 2017; durata: 151′

Presentato in anteprima alla 20° edizione del Far East Film Festival, The Battleship Island: Director’s Cut è l’ultimo lungometraggio realizzato dal regista sudcoreano Ryoo Seung-wan, del quale al festival è stato proiettato anche Veteran (2015).

Siamo nel 1945. Il direttore d’orchestra Gang-ok è solito tenere concerti a Seul insieme a Sohee, la sua figlioletta di undici anni. In seguito a un flirt con la moglie di un alto ufficiale, però, l’uomo sarà costretto a partire e si imbarcherà, insieme alla figlia, alla volta del Giappone. Non appena giungerà a destinazione, però, Gang-ok si renderà conto di essere stato deportato, insieme a un nutrito gruppo di coreani, su un’isola al largo della costa di Nagasaki, dove molti prigionieri saranno costretti a lavorare in una miniera in condizioni disumane. Tale sito è stato nominato nel 2016 patrimonio dell’UNESCO. Ciò che è accaduto durante la Seconda Guerra Mondiale è una ferita ancora aperta.

Dopo la visione di un lungometraggio come il presente, dunque, non ci si può che sentire arricchiti. Merito non solo della messa in scena di eventi storici tanto importanti quanto meno noti rispetto ad altri, ma anche del pregiato valore artistico dell’intero lavoro. Al di là dell’impeccabile regia – con una macchina da presa agile, perfettamente in grado di gestire gli spazi sia in momenti di calma che durante i combattimenti – al di là delle fedeli ricostruzioni degli ambienti dell’epoca, è soprattutto un sapiente e raffinato lavoro di scrittura a far sì che un prodotto come The Battleship Island non solo non perda mai di ritmo e sappia reggere bene la durata di oltre due ore e mezzo, ma vanti anche al suo interno un nutrito numero di personaggi interessanti e ben caratterizzati. A partire, appunto, proprio da Gang-ok e da sua figlia Sohee. Un accurato lavoro di ricostruzione storica che vede al proprio interno anche un evento doloroso come il lancio della bomba atomica su Nagasaki (particolarmente d’effetto, a tal proposito, le scelte cromatiche attuate dal regista nel mostrarci l’evento, con un improvviso bianco e nero su cui stride il giallo fuoco dei fumi della bomba stessa).

E poi c’è l’Arte. L’Arte come puro amore per il Bello, così come strumento salvifico nel vero senso della parola. È (soprattutto) grazie al loro talento che Sohee e suo padre riescono a ottenere un trattamento meno duro rispetto agli altri durante la loro prigionia. È soltanto durante qualche performance artistica che anche il più spietato dei comandanti giapponesi sembra placarsi anche solo momentaneamente. L’Arte, secondo quanto ha voluto mettere in scena Ryoo Seung-wan, è l’unico elemento che accomuna tutti e che ci rende più umani. E, pertanto, va celebrata.

Ciò che Ryoo Seung-wan ha voluto realizzare è, dunque, sì un film di denuncia contro i crimini di guerra compiuti dai giapponesi (e, più in generale, da ogni essere umano), ma anche – e soprattutto – una dichiarazione d’amore rivolta al proprio paese e alla propria gente: uomini forti e dignitosi, in grado di far fronte alle situazioni più complicate. Che sia, questa, una sorta di “incoraggiamento” rivolto proprio al popolo coreano, in un periodo storico difficile come quello che sta vivendo? Al pubblico il privilegio di ogni personale, soggettiva interpretazione.

Piccola chicca: durante una delle battaglie più cruente di tutto il lungometraggio, il regista ha scelto come sottofondo una musica firmata Ennio Morricone. Non mancano, in tutto il mondo, ottimi estimatori del nostro buon cinema e dei nostri grandi autori. E questo, ovviamente, non può che riempirci di orgoglio.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – DON’T WORRY. HE WON’T GET FAR ON FOOT di Gus van Sant

dont-worry-he-wont-get-far-on-footTITOLO: DON’T WORRY. HE WON’T GET FAR ON FOOT; REGIA: Gus van Sant; genere: biografico; paese: USA; anno: 2018; cast: Joaquin Phoenix, Jonah Hill, Rooney Mara; durata: 113′

Presentato in concorso alla 68° edizione del Festival di Berlino, Don’t worry. He won’t get far on Foot è l’ultimo lungometraggio del regista statunitense Gus van Sant, basato sulle memorie del disegnatore John Callahan, scomparso nel 2010 e amico dello stesso van Sant.

Calcando fedelmente lo schema del biopic, ma, allo stesso tempo, riuscendo ad evitare pericolosi clichés e manierismi tipici di molti lungometraggi del genere, van Sant, dopo averci mostrato John Callahan – magistralmente interpretato da Joaquin Phoenix – nell’intento di tenere un discorso di fronte ad una platea gremita di gente, dà il via ad un lungo flashback in cui vediamo il fumettista alle prese con problemi di alcool, assiduo frequentatore di feste, solito condurre una vita allo sbando e che fa fatica ad accettare il fatto di essere stato abbandonato da sua madre quando era ancora un bambino. La sua vita cambierà di punto in bianco, la sera in cui, in seguito ad un incidente automobilistico, l’uomo perderà l’uso delle gambe. Sarà grazie alla frequentazione di una comunità di ex alcolisti e all’amore per la bella Annu, tuttavia, che John troverà il coraggio di andare avanti e scoprirà il suo grande talento di disegnatore.

Non è un film perfetto, questo di Gus van Sant. Non è perfetto, ma è anche vero che, se prima abbiamo affermato che già realizzare di per sé un biopic può essere rischioso, bisogna considerare che lo è ancor di più raccontare la vita e le gesta di chi – come nel caso di Callahan – è diversamente abile o soffre di malattie di qualsiasi genere. E, fortunatamente, visto che van Sant, al di là del gusto personale, fino a prova contraria, col mezzo cinematografico ci sa fare, questo suo lavoro risulta tutto sommato un prodotto onesto, pulito, che – fatta eccezione per una certa retorica che prevede, ad esempio, un commento musicale eccessivamente invasivo, soprattutto per quanto riguarda i momenti finali – procede per circa due ore senza rilevanti intoppi e ci regala un ritratto fedele e sincero del giovane disegnatore recentemente scomparso. Non ci è dato vedere la tormentata infanzia del protagonista. Non vediamo la sua morte prematura, né quella del suo più caro amico. Per tutta la durata del lungometraggio, il regista si concentra quasi esclusivamente sull’interiorità di Callahan, sul suo percorso di crescita emotiva e, non per ultima, sulla sua arte. Particolarmente interessanti, a tal proposito, le divertenti animazioni di alcune vignette originali che, di quando in quando, vanno ad intervallarsi al racconto stesso.

Ciò che, registicamente parlando, meno convince di un prodotto come Don’t worry. He won’t get far on Foot è, probabilmente, la scena in cui Callahan vede, o crede di vedere, una sorta di “fantasma” della propria madre, la quale lo esorta ad andare avanti ed a lasciarsi il passato alle spalle. Analogamente, ci sembra del tutto fuori luogo una macchina da presa che tende eccessivamente ad indugiare su primi piani dei personaggi, dandoci involontariamente, di quando in quando, un’idea di ciò che sta per accadere totalmente diversa da ciò che successivamente realmente accade. È il caso, questo, ad esempio, del momento in cui vediamo il protagonista salutare la fidanzata appena salita in macchina: il soffermarsi della telecamera sul volto di lei sta quasi a dare l’impressione che stia per accadere qualcosa di tragico. Cosa, questa, neanche lontanamente contemplata.

Con un lavoro come questo presentato alla Berlinale, van Sant continua a coltivare il suo lato prettamente hollywoodiano. Quello che lo ha visto realizzare film del calibro di Will Hunting – Genio ribelle, Milk o Scoprendo Forrester, per intenderci. Ed anche se i film sopracitati hanno avuto una riuscita di gran lunga migliore del presente lungometraggio o anche se, probabilmente, in molti preferiscono di gran lunga il lato maggiormente indie dello stesso van Sant, bisogna riconoscere che, soprattutto per il fatto che Don’t worry. He won’t get far on Foot sia un’opera così intimamente sentita dallo stesso autore, all’interno dell’ottima selezione della 68° Berlinale riesce a trovare una sua collocazione più che dignitosa. Cosa, questa, certamente non da poco.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – RESET – STORIA DI UNA CREAZIONE di Thierry Demaziére e Alban Teurlai

RESET_Original_1_PRESSTITOLO: RESET – STORIA DI UNA CREAZIONE; REGIA: Thierry Demaziére, Alban Teurlai; genere: documentario; paese: Francia; anno: 2017; durata: 110′

Nelle sale italiane come evento speciale solo il 12, 13 e 14 febbraio, Reset – Storia di una creazione è un interessante documentario diretto da Thierry Demaziére ed Alban Teurlay e presentato in anteprima al Biografilm 2017.

Quattro parole: Clear, loud, bright, forward. Questo è il titolo di una coreografia di soli trentatré minuti. La coreografia che il giovane a talentuoso Benjamin Millepied (probabilmente noto al grande pubblico in quanto marito dell’attrice Nathalie Portman) ha a suo tempo scelto come spettacolo d’apertura della sua prima stagione teatrale in qualità di direttore del balletto dell’Opéra National di Parigi. Una carriera lampo, la sua, che, tuttavia, ha visto anche una brevissima permanenza all’interno della celebre Opéra. Saranno solo due, infatti, gli anni in cui il ballerino e coreografo ricoprirà l’incarico di direttore all’Opéra. Due anni di intenso lavoro e di importanti sperimentazioni, in cui non sono mancate opportunità di crescita e di maturazione artistica sia per tutte le maestranze coinvolte, sia per lo stesso Millepied. Reset sta a raccontarci proprio la creazione e la messa in scena della coreografia scelta, in occasione dell’apertura della stagione teatrale.

Dapprima sono le note della musica composta dal giovane musicista statunitense Nico Muhly che, attraverso gli auricolari, arrivano alle orecchie di Millepied e sul grande schermo, poi, pian piano, vediamo lo stesso coreografo improvvisare i primi passi, prendere appunti su di un quaderno pieno zeppo di segni ed annotazioni varie e, man mano che il giorno della prima si avvicina, vediamo un nutrito gruppo di ballerini provare e provare, fino allo sfinimento. Ed ecco che danza, luci e musica creano qualcosa di nuovo ed unico, fino a coinvolgere lo spettatore ed a farlo sentire parte del mondo che viene raccontato.

I registi, Demaziére e Teurlai, dal canto loro, si sono rifatti al pedinamento zavattiniano, prendendo la decisione di restare invisibili agli occhi dello spettatore e lasciando “semplicemente” che la realtà si manifestasse così com’è davanti alla macchina da presa. Ciò che conta è la messa in scena, o meglio, la costruzione di una messa in scena, in tutte le sue fasi e con tutti gli imprevisti del caso. Il resto non conta. Non vediamo come Benjamin Millepied viene accolto all’Opéra. Non siamo a conoscenza dei motivi per cui,  appena pochi mesi dopo, abbandonerà il proprio incarico presso la stessa. l’unica cosa su cui ci è dato concentrarci e la creazione di un balletto, di un’opera d’arte che, malgrado la sua breve durata, risulta molto più laboriosa di quanto inizialmente possa sembrare.

Merito anche di un montaggio a tratti serrato – oltre che di una regia volutamente pulita e priva di fronzoli – se un prodotto come Reset – Storia di una creazione riesce ad arrivare al pubblico, coinvolgendolo ed emozionandolo come raramente accade. L’unica pecca del lavoro potrebbe essere, forse, un climax troppo debole, rispetto alle aspettative di ognuno e rispetto a ciò che ci hanno preannunciato le scene immediatamente precedenti. Ma tant’è. Sono ben tre arti – la musica, la danza e, non per ultimo, il cinema – ad intrattenerci per quasi due ore e a darci ulteriore conferma del fatto che, per poter sognare ad occhi aperti, anche la stessa realtà, se letta nella chiave giusta, può essere un’ottima fonte di ispirazione.

VOTO: 7/10

Marina Pavido