LA RECENSIONE – A STAR IS BORN di Bradley Cooper

a-star-is-bornTITOLO: A STAR IS BORN; REGIA: Bradley Cooper; genere: drammatico; paese: USA; anno: 2018; cast: Lady Gaga, Bradley Cooper, Andrew Dice Clay; durata: 135′

Nelle sale italiane dall’11 ottobre, A Star is born, presentato fuori concorso alla 75° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, è l’esordio alla regia dell’attore Bradley Cooper, qui anche nel ruolo di co-protagonista.

Terzo remake del celebre lungometraggio (a sua volta trasposizione cinematografica di un musical) diretto nel 1937 da William A. Wellman, il film racconta la storia di Ally, giovane e timida cameriera con un grande talento per il canto, la quale, esibendosi in un locale, incontra per caso il celebre cantante Jackson Maine. Tra i due nasce un grande amore e la donna avrà finalmente modo di mostrare al mondo intero il proprio talento, diventando in poco tempo una vera e propria celebrità. Saranno i problemi di alcolismo di Jackson, però, a minare la serenità del loro rapporto e le loro stesse carriere.

Il problema principale di un lavoro come A Star is born è – come sovente in casi del genere accade – quello di essere stato diretto da un attore che interpreta anche il ruolo del protagonista, facendo sì che la voglia di apparire e di dare mostra del proprio talento abbia la meglio sulla qualità del lavoro stesso. E questo, purtroppo, è ciò che accade (dopo un inizio più che dignitoso) nella seconda parte del film, in cui vediamo Cooper sempre più schiavo dell’alcool e delle droghe: un personaggio eccessivamente caricato, da togliere quasi visibilità alla co-protaginista. Peccato. Soprattutto perché lo stesso Cooper, registicamente parlando, si è dimostrato pulito e interessante.

La vera peculiarità del presente lungometraggio, però, è proprio Lady Gaga, qui nell’insolita veste di attrice: affascinante, intensa, mai sopra le righe e bella in modo magnetico con il suo look al naturale, la giovane cantante non ha nulla da invidiare alle colleghe che, negli anni scorsi hanno ricoperto il suo stesso ruolo. Un talento inaspettato che ha fatto acquistare a questo A Star is born parecchi punti. Anche se, qualitativamente parlando, i precedenti lavori di Wellman, di George Cuckor e di Frank Pierson ci sembrano, purtroppo, lontani anni luce.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – UNSANE di Steven Soderbergh

claire-foy-unsaneTITOLO: UNSANE; REGIA: Steven Soderbergh; genere: thriller; paese: USA; anno: 2018; cast: Claire Foy, Joshua Leonard, Jay Pharoah; durata: 98′

Presentato fuori concorso alla 68° edizione del Festival di Berlino, Unsane  l’ultimo lavoro del cineasta statunitense Steven Soderbergh, il quale, prendendo spunto dal discussissimo caso Weinstein, mette in scena una forte critica al sistema americano.

Sawyer Valentini è una giovane donna con brillanti prospettive di carriera ed un’intensa vita sociale. Il suo passato, tuttavia, non è sempre stato facile, infatti la ragazza è stata stalkerata per ben due anni da un uomo che abitava nella sua città natale. Tale evento le ha procurato un trauma talmente forte da vedere in chiunque uomo le capiti di incontrare un potenziale maniaco e da sentire il bisogno di rivolgersi ad uno psicologo. A tal fine, la giovane si reca in una rinomata clinica, dove, tuttavia, verrà ricoverata senza apparente motivo insieme ad altri malati di mente. Quello che le è capitato le sembra assurdo, fino al momento in cui incontra proprio il suo persecutore, il quale lavora come infermiere nella stessa clinica.

Già da una prima, sommaria lettura della sinossi, possiamo immaginare fino a che punto il genio di Soderbergh sia riuscito a spingersi. Quello a cui ha dato vita è, di fatto, un claustrofobico thriller dagli echi polanskiani, che non ha paura di osare, che si diverte a giocare con lo spettatore facendogli credere determinate cose, per poi ribaltare drasticamente la realtà e che sa ogni volta reinventarsi evitando il già detto o il già visto. A contribuire alla riuscita finale, l’uso – al posto della macchina da presa – di un i-phone, il cui obiettivo leggermente grandangolare si è rivelato particolarmente adatto a rendere il forte senso di spaesamento e quasi di soffocamento provato dalla protagonista. Sono, a tal proposito, primi e primissimi piani spesso presi dal basso verso l’alto, occhi dei personaggi che bucano lo schermo e quasi ci minacciano personalmente e, non per ultimo, l’espressivo volto della protagonista (una Claire Foy in stato di grazia), truccato all’occorrenza per enfatizzare uno sguardo da un lato ingenuo e spaesato, dall’altro terrorizzato e consapevole a fare da valore aggiunto a tutto il lungometraggio. E, non per ultima, non poteva mancare anche quella giusta dose di (non troppo) velata ironia, come tradizione soderberghiana vuole.

Un prodotto, Unsane, che cavalca sì l’onda delle tendenze mediatiche, ma, in modo intelligente e mai gratuito, mette in scena anche una tagliente critica al sistema sanitario nazionale e, non per ultimo, al governo statunitense. Esemplare, a tal proposito, la battuta pronunciata da uno degli internati, diventato una sorta di alleato della protagonista, il quale afferma che alla clinica stessa conviene, per motivi puramente economici, far sì che essi stessi restino ricoverati. Riprendendo, dunque, alcuni elementi del precedente Effetti collaterali (2013), Soderbergh amplia un discorso aperto in passato e dà vita ad un prodotto girato in poco tempo e con un budget bassissimo, ma tutt’altro che modesto, dove a fare da padrona di casa è una forte satira del nostro presente e che si classifica di diritto come una delle chicche di questa 68° Berlinale.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

67° FESTIVAL DI BERLINO – THE BAR di Alex De La Iglesia

1239030_the-barTITOLO: THE BAR; REGIA: Alex De La Iglesia; genere: commedia, horror; anno: 2017; paese: Spagna; cast. Mario Casas, Blanca Suarez; durata: 102′

Presentato fuori concorso alla 67° Berlinale, The bar è l’ultimo lungometraggio diretto dal cineasta spagnolo Alex De La Iglesia.

Otto protagonisti per un film corale che, nel corso della narrazione abbandona l’iniziale impostazione teatrale per diventare successivamente un horror classico, ma che, allo stesso tempo, riesce pur sempre a sorprendere. Otto personaggi che si ritrovano, una mattina, a fare colazione in un bar. Dalla bella ragazza sfortunata in amore al giovane in carriera, dalla casalinga dipendente dalle slot machines al senzatetto estremamente religioso, addirittura fanatico, che continua a citare passi tratti dall’Apocalisse di san Giovanni. La carrellata di tipi umani è più variegata che mai. Tutto sembra scorrere secondo le quotidiane consuetudini, quando uno dei clienti, poco dopo essere uscito dal bar, viene centrato in piena fronte da un proiettile sparato non si sa da dove. È a questo punto che le danze avranno inizio.

Ancora una volta, dunque, De La Iglesia si cimenta con il genere horror. Genere che, come di consueto nei film del cineasta di Bilbao (fatta eccezione per Baby’s room, di impostazione piuttosto classica), risulta pregno anche di una comicità grottesca del tutto fuori dagli schemi. È stato così per il recente Las brujas de Zugarramurdi, ad esempio, così come per l’ormai cult Acción mutante, giusto per citare un paio di titoli. Ed anche in The bar – dagli echi (non troppo) vagamente carpenteriani – tali soluzioni risultano decisamente indovinate. Si ride per situazioni al limite dell’assurdo ed anche grazie a personaggi i cui tratti caratteriali sono portati volutamente all’estremo, per poi lasciare spazio alla tensione vera e propria, nel momento in cui i sopravvissuti sono costretti ad una battaglia all’ultimo sangue all’interno delle fogne di Madrid, al fine di procurarsi le ultime doti di antidoto contro un non ben definito virus. Nel frattempo, frequenti – ma mai eccessive o forzate – immagini di proiettili volanti, fiotti di sangue e vomito ed ustioni, unite ad inquadrature dichiaratamente autocompiacenti che vedono primi piani delle forme dell’avvenente protagonista, in piena tradizione, appunto, del cinema di De La Iglesia.

E poi c’è la religione. Ecco che ancora una volta il regista spagnolo – analogamente a quanto fatto con il cortometraggio La confessione, presentato fuori concorso alla 71° Mostra del Cinema di Venezia, all’interno del progetto collettivo Words with Gods – se la prende con il cattolicesimo radicato nella sua nazione. In questo caso, la figura che maggiormente sta a simboleggiare tale critica è indubbiamente quella del senzatetto/profeta, ma anche l’impostazione stessa di tutto il lungometraggio, se vogliamo, durante il quale, appunto, solo a pochi eletti, dopo aver superato determinate prove, sarà dato di salvarsi e di “rinascere” riuscendo finalmente ad uscire in strada attraverso un tombino.

Un De La Iglesia, in pratica, che non fa che riconfermare sé stesso, il suo coraggio e la sua capacità di gestire determinate situazioni e che, anche se con The bar tende un po’ a ripetersi nel genere e nelle tematiche, di certo non delude, ma, al contrario, è capace di intrattenere il pubblico per quasi due ore dando l’impressione che siano passate solo poche decine di minuti. Un De La Iglesia che, in poche parole, ci piace proprio così com’è.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

RIFF 2016 – NON VOLTARTI INDIETRO di Francesco Del Grosso

1466156317815TITOLO: NON VOLTARTI INDIETRO; REGIA: Francesco Del Grosso; genere: documentario; anno: 2016; paese: Italia; durata: 75′

Presentato fuori concorso alla XV edizione del Rome Independent Film Festival, Non voltarti indietro è l’ultimo documentario di Francesco Del Grosso che, partendo dal fatto che ogni anno, in Italia, circa 1000 persone vengono arrestate a causa di errori giudiziari, ci racconta la storia di cinque innocenti – le vicende di ognuno dei quali hanno avuto epiloghi differenti – che hanno vissuto ingiustamente l’esperienza del carcere.

Si apre fin da subito come una sorta di flusso di coscienza corale, Non voltarti indietro. Le voci dei protagonisti – prima ancora che i loro volti vengano mostrati – si alternano in una sorta di cantilena, nel raccontarci come tutto è per loro iniziato, ossia quando sono stati arrestati. Ed ecco che ci troviamo da subito nel vivo della vicenda, catapultati anche noi in un mondo di cui si è sentito molto parlare, ma che non abbiamo mai avuto l’occasione di vivere in prima persona. Si parte, appunto, dal momento dei loro arresti, fino al loro arrivo in carcere, alla loro vita in cella, alla loro scarcerazione – in alcuni casi avvenuta anche dopo parecchi mesi – al loro ultimo tragitto nel corridoio della prigione per raggiungere l’uscita – senza mai voltarsi indietro! – fino ad arrivare alla loro vita dopo il carcere, con tutte le conseguenze che l’immotivato arresto ha portato dietro di sé. Il tutto viene arricchito da suggestive immagini di disegni a matita – che illustrano, di volta in volta, ciò che viene raccontato – dai volti dei protagonisti – ora frontali, ora di profilo – che, in primissimo piano, ci parlano delle loro esperienze, e da anguste riprese a 360° – con abbondante uso del grandangolo – che ci mostrano le celle, i vari ambienti del carcere e – per quanto riguarda chi dopo la galera ha visto la sua vita andare a rotoli – le minuscole abitazioni occupate dopo la scarcerazione. Spazi stretti, chiusi, bui, ma che ben presto – e solo quando a parlare è qualcuno che è riuscito a risollevarsi dopo l’esperienza dell’arresto – diventano soleggiati parchi o belvedere, in cui anche lo spettatore – finalmente – può respirare a pieni polmoni.

La macchina da presa, dal canto suo, più che messaggero o testimone, diventa vero e proprio confidente dei protagonisti del documentario e – fortemente empatica, ma mai invasiva o giudicante – riesce a farci entrare nel vivo delle vicende facendoci sentire parte delle storie raccontate. Il risultato finale è un prodotto forte, emozionante e per niente retorico. Un vero e proprio urlo di rabbia: l’urlo di coloro che hanno visto le loro vite andare a rotoli per colpa di errori che non hanno commesso e l’urlo di tutti noi, che non ci sentiamo per niente tutelati dal sistema legislativo italiano, dal momento che – qualora dovessero verificarsi eventi del genere – nessuno pagherebbe per gli sbagli commessi e – salvo un misero risarcimento – saremmo abbandonati a noi stessi come gli ultimi tra i derelitti. Rabbia e sconforto, ma anche speranza ed una vera e propria iniezione di coraggio, nel momento in cui ascoltiamo le testimonianze di chi è riuscito a superare esperienze del genere.

In poche parole, tante emozioni in pochi minuti. E un documentario decisamente riuscito, a cui, dopo la visione, si continua a tornare con la mente. Cosa, questa, che, come sappiamo, non sempre accade.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

34° TORINO FILM FESTIVAL – TA’ANG di Wang Bing

1-wbTITOLO: TA’ANG; REGIA: Wang Bing; genere: documentario; anno: 2016; paese: Hong Kong, Francia; durata: 147′

Presentato nella sezione Tff doc/fuori concorso al 34° Torino Film Festival – e dopo essere passato in anteprima anche alla Berlinale 2016Ta’ang è il penultimo lavoro del celebre documentarista cinese Wang Bing, nonché la sua prima opera ad essere stata girata al di fuori della Cina.

Ci troviamo in un campo profughi al confine cinese. Qui migliaia di persone appartenenti ad una minoranza etnica burnese – i Ta’ang, appunto – si sono rifugiate in seguito allo scoppio della guerra civile nel 2015, con la speranza di tornare presto alle loro abitazioni. Il regista osserva attento la loro quotidianità, dal mattino fino a sera, ascoltando i loro racconti circa la recente migrazione, osservando i bambini – adulti precoci – giocare e prendersi cura dei fratellini più piccoli e seguendo gli spostamenti dei singoli gruppi.

Quando ci accingiamo a vedere un film di Wang Bing, si sa, ormai siamo quasi del tutto certi di stare per assistere ad un lavoro di altissima qualità. Anche in questa sede la sua poetica, ormai diventata suo marchio stilistico collaudato, ci fa entrare nel mondo di queste famiglie semplicemente mostrandoci la realtà così com’è, senza bisogno di voci fuori campo, di interviste o di un eccessivo numero di didascalie. Molto semplicemente, dopo poche righe iniziali che ci illustrano la realtà delle minoranze qui raccontate, la macchina da presa – usata rigorosamente a spalla – entra nel mondo degli sfollati Ta’ang e – paziente osservatrice – segue le loro vite con occhio empatico, ma distaccato quanto basta e mai giudicante, proprio secondo le modalità teorizzate a suo tempo da Cesare Zavattini. Il risultato è un prodotto onesto e leale, altamente suggestivo per alcune immagini mostrateci, come, ad esempio, i volti in primo piano di bambini e di anziani o le scene in cui vediamo le singole famiglie raccolte – di sera – intorno al fuoco, intente a raccontare le loro esperienze riguardanti l’esodo. Wang Bing, dal canto suo, si “limita” a collocarsi esclusivamente sul piano di ascolto, senza mai intervenire, senza mai interagire con i protagonisti del film, senza mai esplicitamente dire la sua in merito.

Il risultato – come ben si può immaginare – più che un semplice documentario, è uno spettacolo che potrebbe molto tranquillamente essere definito “magnetico”, un vero e proprio viaggio all’interno di comunità per noi del tutto sconosciute, da cui – grazie anche all’occhio esperto del regista – non possiamo non sentirci affascinati. E dalle quali non vorremmo separarci mai. Perché, in fin dei conti, il punto è proprio questo: nonostante la lunghezza – talvolta considerata, a seconda dei diversi punti di vista, eccessiva – dei suoi lavori, non si può non riconoscere a Wang Bing la straordinaria capacità di far entrare lo spettatore a far parte del mondo che, di volta in volta, ha deciso di raccontare. Peccato solo che, al di fuori di ambiti prettamente “festivalieri”, raramente i suoi prodotti ottengono l’attenzione che meritano. Almeno per quanto riguarda la situazione italiana.

VOTO: 9/10

Marina Pavido

VENEZIA 73 – CONSIDERAZIONI E PRONOSTICI

StampaMancano poche ore, ormai, al conferimento del Leone d’Oro della 73° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Anche quest’anno – come ogni anno, d’altronde – il programma è stato particolarmente ricco, sebbene il numero di lungometraggi selezionati sia di poco inferiore rispetto alle precedenti edizioni.

Salvo qualche eccezione, quest’anno il concorso si è rivelato piuttosto tiepido. Grande spazio è stato dato a lungometraggi provenienti dal continente americano, il che ha reso la selezione non troppo variegata nei suoi standard. Eppure, qualche prodotto particolarmente interessante c’è: The woman who left di Lav Diaz in primis, ma anche Jackie di Pablo Larrain (sebbene non alla portata dei precedenti lavori del regista), come anche El ciudadano ilustre di Mariano Cohn e Gaston Duprat, o Une vie di Stéphane Brizé.

Destinati a passare alla storia come i peggiori film in concorso di Venezia 73, invece, sono Questi giorni di Giuseppe Piccioni, Brimstone di Martin Koolhoven e La region salvaje di Amat Escalante.

Peccato per alcuni registi in concorso, da cui ci si sarebbe aspettato di più, come, ad esempio, Emir Kusturica (On the milky road), Ana Lily Amirpour (The bad Batch) o la coppia di documentaristi D’Anolfi e Parenti (Spira Mirabilis).

Tra i prodotti più interessanti qui presentati, invece, troviamo Monte di Amir Naderi e Austerlitz di Sergei Lonitsa (fuori concorso), oltre agli ottimi Bitter Money di Wang Bing e King of the Belgians (Brosens – Woodworth), nella sezione Orizzonti.

Nell’attesa di sapere a chi verranno assegnati i principali premi della Mostra, proviamo a fare qualche pronostico:

Leone d’OroJackie di Pablo Larrain o The woman ho left di Lav Diaz

Leone d’Argento – come sopra (o almeno si spera)

Miglior sceneggiaturaEl ciudadano ilustre (Cohn – Duprat) o Frantz (François Ozon)

Coppa Volpi alla miglior interpretazione maschile – Oscar Martinez (El ciudadano ilustre)

Coppa Volpi alla miglior interpretazione femminile – Nathalie Portman (Jackie) o Judith Chemla (Une vie)

Sperando che il Presidente di Giuria Sam Mendez non ci riservi spiacevoli sorprese, Entr’Acte si collegherà più tardi, al termine della premiazione, per tutti gli aggiornamenti su questa 73° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia.

Marina Pavido

VENEZIA 73 – ONE MORE TIME WITH FEELING di Andrew Dominik

one-more-feelingTITOLO: ONE MORE TIME WITH FEELING; REGIA: Andrew Dominik; genere: documentario; anno: 2016; paese: USA, GB; durata: 112′

Presentato fuori concorso alla 73° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, One more time with feeling è l’ultimo lavoro dell’acclamato regista statunitense Andrew Dominik, già apprezzato per L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford e Cogan – Killing them softly.

Realizzato interamente in 3D, con un bianco e nero talvolta poco contrastato e decisamente contemplativo, questo ultimo lavoro di Dominik ci mostra un Nick Cave fino ad ora sconosciuto, un Nick Cave che non ha paura di raccontare – davanti alla macchina da presa – il suo passato, il suo rapporto con le canzoni da lui composte, i suoi affetti ed il suo recente dolore, in seguito alla morte prematura del figlio Arthur.

Quel che fin da subito colpisce è un particolare uso del 3D che prevede – inizialmente, quando il protagonista non si è ancora del tutto svelato – immagini spesso fuori fuoco e movimenti di macchina che sembrano ancora incerti. Immagini che, però, si fanno via via sempre più definite, man mano che il personaggio si svela a noi, e movimenti di macchina che si trasformano in lunghi piani sequenza e carrellate che ricordano quasi una danza con una coreografia ben strutturata e particolarmente curata.

Non vi sono domande e risposte. Fatta eccezione per qualche breve interazione, il regista non interviene quasi mai. Cave si limita a raccontare e a raccontarsi in una sorta di flusso di coscienza, facendo sì che il tutto scorra come un fiume in piena. Interessante, inoltre, anche il discorso sulla narratività che fa il cantante durante i primi minuti, parlando dei testi delle sue canzoni, prive, appunto, di un preciso andamento narrativo. La narrazione – secondo Cave – non fa parte della vita, in quanto ognuno di noi segue un iter a sé. Lo stesso vale per i testi delle canzoni da lui composte, così come anche per la struttura narrativa di tutto il documentario, che, dunque, risulta perfettamente in linea con il modo che ha il cantante di concepire la propria arte.

E poi c’è il metacinema. Sovente capita di vedere in campo macchine da presa e carrelli. Talvolta, addirittura, è lo stesso Cave a menzionare i vari macchinari presenti. Ed ecco che è il mezzo cinematografico stesso a prendere coscienza di sé e a mostrarsi in tutta la sua complessità. Il tutto fa sì, di conseguenza, che il documentario proceda su due livelli paralleli: da un lato abbiamo Cave ed il suo scoprirsi e raccontarsi, dall’altro abbiamo il cinema in quanto espressione artistica, il quale, analogamente a quanto fa il cantante, ci mostra – deciso ma mai “prepotente” – la sua imprescindibile presenza.

La complessità di tale opera non può non far riflettere sulla regia di Andrew Dominik e sulla sua evoluzione nel corso della carriera. Il cineasta statunitense ha fin da subito dimostrato un grande talento nella gestione degli spazi, così come dei personaggi fin dalla sua opera prima, Chopper. Il suo “giocare” sapientemente con la macchina da presa, inoltre, ci ha fin da subito svelato un grande talento. E questa sua ultima fatica si classifica, dunque – dal punto di vista della regia – come una sorta di “esplosione”, come se lo stile del cineasta avesse raggiunto qui il suo apice, portando all’estremo i suoi numerosi virtuosismi e facendolo anche in modo del tutto pertinente e mai gratuito.

È per questo che One more time with feeling si è rivelato un’interessante scoperta. Un’opera imponente dentro la quale ci si può solo perdere, per poi lasciarsi trasportare in un vortice di suoni ed immagini di cui difficilmente ci si può dimenticare.

VOTO: 8

Marina Pavido

VENEZIA 73 – MONTE di Amir Naderi

1459871146048TITOLO: MONTE; REGIA: Amir Naderi; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Italia, Iran; cast: Andrea Sartoretti, Claudia Potenza, Zaccaria Zanghellini; durata: 105′

Presentato fuori concorso alla 73° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Monte è l’ultimo lungometraggio del pluripremiato regista iraniano Amir Naderi.

Siamo in epoca medievale. Agostino e sua moglie Nina vivono – insieme al figlio Giovanni – in un piccolo villaggio pedemontano, dove – proprio a causa del monte su cui è situato – non arriva mai la luce del sole. Chiunque abbia vissuto lì ha avuto vita breve oppure è stato costretto a fuggire. Nina ed Agostino, però, hanno appena seppellito la figlioletta Sara e la donna non vuole allontanarsi dalla tomba della bambina. Essi sono gli unici abitanti rimasti.

Forte è l’impatto visivo fin dalla prima inquadratura, in cui viene mostrata l’abitazione dei protagonisti con il monte che si staglia sullo sfondo ed una fotografia con colori freddi e fortemente contrastati. Così forte da farci capire immediatamente che ci troviamo di fronte a puro cinema: a poco servono i dialoghi – a cui Naderi fa ricorso soltanto in caso di estrema necessità. Tutto viene comunicato quasi esclusivamente per immagini. Alle numerose panoramiche, ai campi lunghi, ma anche a primi piani di mani sporche di terra e volti rigati di lacrime il compito di raccontare il tutto. Ed ecco che, fin dai primi minuti, entriamo a far parte delle vite dei protagonisti e quel senso di angoscia, di claustrofobia che fin da subito ci viene trasmesso resta dentro di noi per tutta la durata del film, in un crescendo emotivo che diviene quasi insostenibile, fino all’agognata liberazione finale.

E la sfida, tema costante nelle opere del regista, anche in quest’ultima opera è di centrale importanza: riuscirà l’uomo ad avere la meglio sulla natura quando la natura stessa sembra non dargli scampo? Fino a che punto può spingersi l’essere umano? La risposta sta negli ultimi minuti del film, quando Agostino e suo figlio Giovanni si accaniscono per anni – fino ad invecchiare – contro quel monte che ha tolto loro la vita stessa. Immagini forti che raggiungono il climax quando vediamo la montagna finalmente sgretolarsi, con le inquadrature che si fanno più strette sui protagonisti, insieme ad un azzeccato slow motion.

Naderi, anche questa volta, ha dato prova di grande talento con un’opera che può essere definita monumentale, le cui immagini fanno quasi male per la loro bellezza e la loro potenza. Immagini che, però, non ci mostrano soltanto la natura, ma anche diversi spaccati di una cittadina medievale, con i suoi abitanti, le sue superstizioni e, infine, il suo forte credo religioso. Memorabile – a questo proposito – la scena in cui Agostino, sentendo di essere stato completamente abbandonato, non riesce a guardare – una volta entrato in chiesa – in direzione dell’immagine della Madonna, per poi spegnere con rabbia uno dei ceri accesi sotto al crocifisso.

Un piccolo miracolo al Lido. Una storia semplice, ma attuale in qualsiasi contesto la si voglia collocare. Proprio come accade in alcuni dei grandi capolavori della storia del cinema. E se la definizione di capolavoro – di cui, spesso e volentieri, si fa un uso spropositato – non è del tutto adatta a questo ultimo lungometraggio di Naderi, difficilmente potrà essere associata – nell’ambito della produzione contemporanea – a qualche altra pellicola. Soprattutto in un’epoca come la nostra, in cui, ormai, in ambito cinematografico, è stato creato quasi di tutto. Quasi, però.

VOTO: 9/10

Marina Pavido

VENEZIA 73 – SAFARI di Ulrich Seidl

safari-678x373TITOLO: SAFARI; REGIA: Ulrich Seidl; genere: documentario; anno: 2016; paese: Austria; durata: 90′

Presentato fuori concorso alla 73° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, Safari è l’ultima fatica del celebre e controverso cineasta austriaco Ulrich Seidl.

Una serie di quadri, ritratti di bizzarri personaggi accomunati da una grande passione: quella per la caccia. Il loro orgoglio nell’uccidere esemplari rari. I loro trofei. E, non per ultime, le loro spietate battute di caccia. Tutto questo ci viene mostrato in questo documentario di Seidl, che, anche stavolta, non potrà fare a meno di far parlare di sé. Nel bene o nel male.

Tema prinipale di Safari – così come di tutta la filmografia del cineasta austriaco – è una forte e spietata critica alla società contemporanea e a quel “fascismo latente” presente nel quotidiano. Tema, questo, caro a molti artisti. Basti pensare – volendo restare all’interno dei confini austriaci – anche al Teatro Sociale – nato negli anni Sessanta e che ha visto, tra i suoi maggiori esponenti, Thomas Bernhard, Elfriede Jelinek e Peter Turrini. Tema caro anche – volendo concentrare la nostra attenzione esclusivamente al cinema contemporaneo – al pluripremiato Michael Haneke. E, ovviamente, ognuno ha saputo raccontare la società a modo proprio: mediante l’ironia, attraverso il dramma o anche “giocando” con il pubblico con suggestioni visive ed uditive. Senza dubbio, Seidl è – rispetto ai nomi sopra menzionati – il più estremo di tutti.

Magistrale ed impeccabile la sua regia – ormai suo marchio di fabbrica – che prevede numerose inquadrature a camera fissa con personaggi in posa, statici ed orgogliosi delle loro vite e del loro modo di essere. I ritratti che ne vengono fuori sono quadri grotteschi di ciò che siamo noi oggi – immemori di quanto è avvenuto nei decenni scorsi. In Safari, in particolare, la brutalità dell’essere umano viene raccontata mostrando, appunto, ricchi borghesi appassionati di caccia. Ed il messaggio arriva. Ed anche forte. Il punto, però, è questo: per raccontare ciò che si vuol dire, sarebbe bastato un mediometraggio, dal momento che qui la macchina da presa si sofferma eccessivamente e gratuitamente sugli animali morti che vengono squoiati all’interno dei macelli, con tanto di primi piani sulle loro interiora. Allo stesso modo, la scena in cui viene mostrata una giraffa agonizzante dopo essere stata colpita – quanto di più forte sia mai stato mostrato in un film di Seidl – sta sì a simboleggiare la brutalità dell’essere umano, ma denota anche una non troppo velata compiacenza dell’autore stesso, il quale – perfettamente conscio del suo talento e dell’impatto emotivo delle sue opere – non esita – soprattutto in questo suo ultimo documentario – a calcare eccessivamente la mano. Ma il messaggio arriva. Arriva in ogni caso. E questo atteggiamento di Seidl non fa altro che far perdere parecchi punti ad un lavoro di tutto rispetto, che, malgrado tutto, fino ad ora risulta uno dei prodotti presentati in sala in questi primi giorni di festival.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

APERITIVI E PROIEZIONI AL SARDINIA FILM FESTIVAL

Ricevo e volentieri pubblico

aperitivo-1Peter Marcias dialoga con Francesca Arca di Radio Venere alle 19 in via Torre Tonda. Oggi e domani è possibile ritirare i biglietti gratuiti per una serata di cinema e di calcio. Per venire incontro agli amanti del cinema che hanno anche la passione del calcio, il Sardinia Film Festival propone per sabato 2 luglio una serata particolare: si inizia alle 19.30 con la premiazione dei corti vincitori di questa edizione e poi, alle 21, il grande schermo del Quadrilatero manda in diretta la partita Italia-Germania. Nell’intervallo tra i due tempi, in proiezione il cortometraggio vincitore del David di Donatello, “Bellissima”, alla presenza del regista Alessandro Capitani.

 La quarta giornata del Sardinia Film Festival, giovedì 30 giugno, si apre di pomeriggio alle 17 (Aula “Salvatore Satta” del Quadrilatero, viale Mancini 3) con la proiezione di alcuni cortometraggi fuori concorso selezionati da uno dei partenr europei del SFF, l’irlandese Fastnet Short Film Festival. Il Fastnet fa parte della rete europea di festival che il Sardinia sta consolidando da un paio d’anni per promuovere i giovani filmmakers e far circolare i loro lavori fuori dai confini nazionali. Ne fa parte anche l’Edinburgh Short Film Festival, ospite la sera dell’inaugurazione con una selezione di cortometraggi fuori concorso. Inoltre, il direttore dell’ESFF, Paul Bruce, è quest’anno in giuria insieme al regista Salvatore Mereu e a Manuela Buono della casa di distribuzione “Slingshot Film” di Trieste.

Alle 19 il Sardinia Film Festival si sposta dalla sede del Quadrilatero alla terrazza esterna del ristorante “Borgo di Torre Tonda” in via Torre Tonda 24. Qui la giornalista di Radio Venere, Francesca Arca, intervista il regista Peter Marcias, uno degli autori più conosciuti e apprezzati del giovane cinema sardo. Oristanese, classe 1977, Marcias è autore di numerosi documentari (tra cui “Ma la Spagna non era cattolica” e “Liliana Cavani-Una donna nel cinema”), cortometraggi e lungometraggi, il più recente dei quali è “Dimmi che destino avrò”, che affronta il tema dell’integrazione tra culture diverse.

filmofrenico-lightLe proiezioni serali dei film in concorso iniziano alle 21 nello spazio esterno del Quadrilatero in viale Mancini 5. Il primo film in programma, “La paralisi” di Gianni Costantino, è una commedia amara e divertente con protagonista un anziano pieno di vita costretto dai parenti a spacciarsi per invalido per incassare la pensione di invalidità. “La gita”, in concorso sia in Vetrina Sardegna che in Fiction Italiana è un lavoro tutto sassarese. Il regista, Giampiero Bazzu, ha scritto la sceneggiatura insieme allo scrittore Gianni Tetti, ispirandosi liberamente alla graphic novel “Gli Innocenti” del fumettista e regista Gipi. Anche il cast è tutto locale, così come le location di Piazza d’Italia, Predda Niedda e la spiaggia di Platamona. Dalla Germania arriva “Trade Queen” di David Wagner, con protagonisti Mr Jonas e Mr. Schmidt, all’apparenza due grigi venditori, in realtà portatori di una vita interiore inaspettata. “The pinky” (Polonia) di Tomasz Cichon è un thriller all’ultimo respiro ambientato in un ristorante cinese, capace di tenere gli spettatori incollati sulla sedia fino all’inaspettato scioglimento. Il documentario spagnolo “The dance of the infants” (La danza dei bambini) racconta la corrida parallela dei bambini che costruiscono tori di legno per poi correre lungo le strade proprio come fanno i grandi. Sempre dalla Spagna arriva la commedia Señor o señorito? di Cristina Piernas e Victoria Ruiz. Questa la sinossi: in un mondo dominato dalle donne, Bernardo dovrà affrontare un singolare colloquio per accedere alla posizione di segretario che desidera. La filmmaker francese Agnès Vialleton nel delizioso e surreale “Game of life” (Il gioco della vita) parla di due fratelli che, pur vivendo lontani, si ritrovano tutti gli anni per compiere un rito molto partiolare all’interno di un cimitero. Arriva dal Canada “Winter” (Inverno) di Lina Roessler, la storia dei piccoli Farzin e Gita e del loro tentativo di dare un senso alla scomparsa della madre e alla nuova casa in Canada subito dopo la rivoluzione iraniana nei primi anni del 1980.