34° TORINO FILM FESTIVAL – TA’ANG di Wang Bing

1-wbTITOLO: TA’ANG; REGIA: Wang Bing; genere: documentario; anno: 2016; paese: Hong Kong, Francia; durata: 147′

Presentato nella sezione Tff doc/fuori concorso al 34° Torino Film Festival – e dopo essere passato in anteprima anche alla Berlinale 2016Ta’ang è il penultimo lavoro del celebre documentarista cinese Wang Bing, nonché la sua prima opera ad essere stata girata al di fuori della Cina.

Ci troviamo in un campo profughi al confine cinese. Qui migliaia di persone appartenenti ad una minoranza etnica burnese – i Ta’ang, appunto – si sono rifugiate in seguito allo scoppio della guerra civile nel 2015, con la speranza di tornare presto alle loro abitazioni. Il regista osserva attento la loro quotidianità, dal mattino fino a sera, ascoltando i loro racconti circa la recente migrazione, osservando i bambini – adulti precoci – giocare e prendersi cura dei fratellini più piccoli e seguendo gli spostamenti dei singoli gruppi.

Quando ci accingiamo a vedere un film di Wang Bing, si sa, ormai siamo quasi del tutto certi di stare per assistere ad un lavoro di altissima qualità. Anche in questa sede la sua poetica, ormai diventata suo marchio stilistico collaudato, ci fa entrare nel mondo di queste famiglie semplicemente mostrandoci la realtà così com’è, senza bisogno di voci fuori campo, di interviste o di un eccessivo numero di didascalie. Molto semplicemente, dopo poche righe iniziali che ci illustrano la realtà delle minoranze qui raccontate, la macchina da presa – usata rigorosamente a spalla – entra nel mondo degli sfollati Ta’ang e – paziente osservatrice – segue le loro vite con occhio empatico, ma distaccato quanto basta e mai giudicante, proprio secondo le modalità teorizzate a suo tempo da Cesare Zavattini. Il risultato è un prodotto onesto e leale, altamente suggestivo per alcune immagini mostrateci, come, ad esempio, i volti in primo piano di bambini e di anziani o le scene in cui vediamo le singole famiglie raccolte – di sera – intorno al fuoco, intente a raccontare le loro esperienze riguardanti l’esodo. Wang Bing, dal canto suo, si “limita” a collocarsi esclusivamente sul piano di ascolto, senza mai intervenire, senza mai interagire con i protagonisti del film, senza mai esplicitamente dire la sua in merito.

Il risultato – come ben si può immaginare – più che un semplice documentario, è uno spettacolo che potrebbe molto tranquillamente essere definito “magnetico”, un vero e proprio viaggio all’interno di comunità per noi del tutto sconosciute, da cui – grazie anche all’occhio esperto del regista – non possiamo non sentirci affascinati. E dalle quali non vorremmo separarci mai. Perché, in fin dei conti, il punto è proprio questo: nonostante la lunghezza – talvolta considerata, a seconda dei diversi punti di vista, eccessiva – dei suoi lavori, non si può non riconoscere a Wang Bing la straordinaria capacità di far entrare lo spettatore a far parte del mondo che, di volta in volta, ha deciso di raccontare. Peccato solo che, al di fuori di ambiti prettamente “festivalieri”, raramente i suoi prodotti ottengono l’attenzione che meritano. Almeno per quanto riguarda la situazione italiana.

VOTO: 9/10

Marina Pavido