LA RECENSIONE – PEGGIO PER ME di Riccardo Camilli

peggio per meTITOLO: PEGGIO PER ME; REGIA: Riccardo Camilli; genere: commedia; paese: Italia; anno: 2018; cast: Riccardo Camilli, Claudio Camilli, Tania Angelosanto; durata: 108′

Nelle sale italiane dal 12 luglio grazie a Distribuzione Indipendente, Peggio per me è l’ottavo lungometraggio del regista e montatore Riccardo Camilli.

Ci troviamo a Roma, nel 1986. Francesco e Carlo hanno dodici anni e sono amici per la pelle. Invece di studiare, il giorno sono soliti remixare con un mangianastri televendite televisive e film per adulti. Le loro giornate trascorrono così, fino al momento in cui la madre di Carlo li interromperà e li separerà bruscamente. Trascorrono trent’anni e Francesco è padre di una ragazzina di dodici, si è appena separato dalla moglie e ha perso il lavoro. L’unica soluzione che ritiene possibile è suicidarsi. Nel momento in cui sta per buttarsi da un ponte, però, sentirà, tramite una delle vecchie cassette nello stereo della sua macchina, la sua voce da bambino che si rivolge a lui, impedendogli di saltare.

Lo spunto da cui prende il via tutta la vicenda è indubbiamente interessante. La storia nel complesso funziona e il risultato finale è una commedia brillante con un retrogusto amaro che fa riflettere ma che riesce a intrattenere il pubblico per quasi due ore di visione. Visione gradevole, dove, tuttavia, non mancano piccole imperfezioni, come l’attribuzione degli eventi soprannaturali alla figura di uno zio stregone (trovata eccessivamente debole e quasi improvvisata) o alcune soluzioni in chiusura che, malgrado le buone intenzioni, non riescono ad arrivare allo spettatore con la potenza inizialmente auspicata.

Funzionano molto bene sullo schermo, invece, i due fratelli Riccardo (anche regista) e Claudio Camilli, nel ruolo dei due protagonisti da adulti. La loro è una collaborazione che va avanti da anni, dalla quale sono nati ben otto lungometraggi, tutti realizzati con un budget molto basso (si pensi che Peggio per me è stato girato con soli 6000 euro), tutti che, in un modo o nell’altro, sono riusciti a vedere la luce. Un buon esempio, questo, per il cinema indipendente italiano, all’interno del quale si trovano sempre più nomi e titoli da tenere d’occhio assolutamente.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

20° FAR EAST FILM FESTIVAL – SIDE JOB di Hiroki Ryuichi

sidejobTITOLO: SIDE JOB; REGIA: Hiroki Ryuichi; genere: drammatico; paese: Giappone; anno: 2017; durata: 119′

Presentato in anteprima alla 20° edizione del Far East Film Festival, Side Job è l’ultimo lavoro del cineasta giapponese Hiroki Ryuichi, originario di Fukushima, il quale ci parla proprio della terribile tragedia che ha colpito il suo paese nel 2011.

Viene qui messa in scena la storia della giovane Miyuki Kanazawa, la quale ha perso la madre nel disastro, vive con il padre rimasto praticamente senza occupazione, lavora come impiegata comunale nella città di Iwaki e ogni fine settimana si reca a Tokyo, ufficialmente per seguire un corso di inglese. La ragazza, in realtà, approfitta dei weekend per prostituirsi all’interno di hotel di lusso. Ma qual è il reale motivo per cui ha scelto questa strada? Cosa può darle un’esperienza del genere, dal momento che la giovane non si trova in condizioni economiche precarie?

La risposta, molto banalmente, può essere il desiderio di evasione, di vivere un mondo parallelo e insolito, al fine di scappare dai fantasmi che popolano la vita di tutti i giorni e dai drammatici ricordi di un passato non sempre clemente.

Doloroso al pari del bellissimo Himizu di Sion Sono (2011), al quale si pensa inevitabilmente durante le numerose carrellate che ci mostrano la città che ancora vive i postumi del disastro, Side Job non si limita a raccontarci una singola storia – quella di Miyuki, appunto – bensì la storia di molte persone che ogni giorno devono fare i conti con ciò che è successo: da chi ha deciso di buttarsi a capofitto sul lavoro, al punto di trascurare la propria famiglia, a chi tenta in ogni modo il suicidio; da chi non sa come aiutare i propri figli a vivere una vita “normale” a chi, prendendo sempre più consapevolezza per quanto riguarda l’accaduto, al fine di vivere il presente senza dimenticare ciò che è stato, cerca di fotografare ogni luogo, ogni persona e ogni oggetto legato inevitabilmente alla tragedia.

E, a tal proposito, la scena in cui agli abitanti di Iwaki vengono mostrate le fotografie di una giovane artista, raffiguranti il prima e il dopo tsunami, è forse il momento maggiormente toccante di tutto il film, esplicito, ma mai eccessivo, doloroso ma che evita sapientemente di dirci troppo, lasciando lo spettatore in un momento di doveroso raccoglimento e necessaria meditazione.

Sempre pensando al sopracitato film di Sion Sono, una sostanziale differenza con Side Job c’è eccome: questo ultimo lavoro di Hiroki Ryuichi si differenzia dall’opera di Sono – così come da molti altri lungometraggi sull’argomento – per un’importante iniezione di speranza, mostrandoci un popolo sì profondamente ferito, sì terribilmente sconvolto, ma anche fortemente dignitoso, che, nonostante tutto, non ha mai perso la voglia di rimboccarsi le maniche e di risollevarsi. E, a tal proposito, particolarmente emblematica è una scritta realizzata con un comunissimo spray su di un muro abbandonato, al quale viene dedicata l’ultima inquadratura: “Non preoccupatevi. Siamo sopravvissuti.”. Una scritta che in sé racchiude tutta l’essenza dell’intero lavoro di Hiroki Ryuichi, il quale, malgrado il coinvolgimento in prima persona nei fatti, è riuscito a mantenere anche quel necessario distacco emotivo auspicabile nel momento in cui si dà vita a un’opera. Anche questo, dunque, contribuisce ad accrescere il valore artistico di questo prezioso documento storico.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – MADE IN ITALY di Luciano Ligabue

made-in-italy-film-ligabue-trailerTITOLO: MADE IN ITALY; REGIA: Luciano Ligabue; genere: drammatico; anno: 2017; paese: Italia; cast: Stefano Accorsi, Kasia Smutniak, Fausto Maria Sciarappa; durata: 104′

Nelle sale italiane dal 25 gennaio, Made in Italy sancisce il ritorno del cantante Luciano Ligabue dietro la macchina da presa, dopo diversi anni di pausa.

Riko è sposato da circa vent’anni e lavora in una fabbrica di salumi. Il suo matrimonio sembra andare a rotoli, così come il suo lavoro. Ristabilita la serenità di coppia e trovatosi improvvisamente disoccupato, l’uomo faticherà a trovare un nuovo impiego. L’unica soluzione sembrerebbe quella di lasciare definitivamente l’Italia.

La storia qui messa in scena è la stessa raccontata da molti altri lungometraggi italiani contemporanei: la crisi, l’amore per il proprio paese e per la famiglia, la precarietà del lavoro sono tematiche che ricorrono piuttosto frequentemente, ai giorni nostri. Ma la cosa in sé non sarebbe un problema, nel caso in cui il prodotto in questione fosse un lungometraggio valido e ben realizzato. Il problema di un film come Made in Italy, però, è che, malgrado le iniziali buone intenzioni, malgrado l’evidente empatia del regista/cantante nei confronti della storia, a causa di uno script che fa acqua da tutte le parti e di interpreti che – sebbene indubbiamente validi – sembrano non sentirsi particolarmente a proprio agio nei panni dei personaggi qui impersonati, si è finito inevitabilmente per dare vita ad un lavoro quasi raffazzonato e, a tratti, anche involontariamente comico, dove imbarazzanti dialoghi fanno da cornice ad una sceneggiatura sfilacciata e pericolosamente disorganizzata.

Ed ecco che l’iniziale conflitto del protagonista – ossia la sua infelicità coniugale – viene risolto in men che non si dica dopo soli pochi minuti, per lasciare il posto ad altre questioni come la crisi lavorativa o la morte di un amico, lasciando però in sospeso elementi precedentemente tirati in ballo (vedi, ad esempio, la figura dell’amante di Riko che, una volta scaricata, minaccia di raccontare tutto alla moglie).

Anche da un punto di vista prettamente registico, Made in Italy lascia parecchio a desiderare. Una regia a tratti macchinosa e piuttosto maldestra non riesce a dare a scene studiate ad hoc il pathos necessario. È questo, ad esempio, il caso della sequenza in cui vediamo Riko ed i suoi amici correre di notte per Roma su dei monopattini elettrici per turisti – con in sottofondo, rigorosamente, la voce del cantante – o del momento in cui vediamo il protagonista organizzare insieme alla moglie una specie di finto matrimonio, atto a coronare definitivamente il loro amore.

E così, anche se i precedenti lavori del cantante – Radiofreccia e Da zero a dieci – tutto sommato non si erano rivelati dei prodotti completamente disprezzabili, questo Made in Italy proprio non è riuscito a far centro. Chissà cosa accadrà con il prossimo lungometraggio!

VOTO: 4/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – TUTTI GLI UOMINI DI VICTORIA di Justine Triet

tutti-gli-uomini-di-victoriaTITOLO: TUTTI GLI UOMINI DI VICTORIA; REGIA: Justine Triet; genere: commedia; paese: Francia; anno: 2016; cast: Virginie Efira, Vincent Lacoste, Melvil Poupaud; durata: 98′

Nelle sale italiane dal 25 gennaio, Tutti gli uomini di Victoria è l’ultimo lungometraggio della regista francese Justine Triet, presentato come film d’apertura della Semaine de la Critique al Festival di Cannes 2016.

Victoria, brillante avvocato e madre divorziata di due bambine, ogni giorno cerca di dividersi tra casa e lavoro con scarsi risultati. I suoi problemi sembrano aumentare nel momento in cui dovrà difendere in tribunale un suo amico, accusato di aver aggredito la compagna. Per fortuna, in suo aiuto arriverà il giovane praticante Sam, il quale diventerà per lei una sorta di angelo custode.

Siamo d’accordo: il tema trattato non è particolarmente originale, né promette – almeno ad una prima, sommaria lettura della sinossi – rivoluzionari colpi di scena. Eppure, come ben sappiamo, dal momento che la meravigliosa macchina del cinema può realizzare le cose più impensabili, una semplice storia può acquisire personalità e singolarità anche – e soprattutto – grazie alla propria messa in scena. E questo, fortunatamente, è ciò che accade con questo ultimo lavoro della Triet, dove una regia sapiente e ben calibrata ha contribuito a dar vita ad un prodotto piccolo ma raffinato nel proprio genere, a suo modo coraggioso ma mai eccessivo e che, di quando in quando, riesce a strappare anche qualche sorriso allo spettatore. Ma andiamo per gradi.

Inevitabilmente, quando pensiamo ad una commedia francese contemporanea, ci viene da pensare ad una serie di lavori molto simili tra loro che – salvo qualche eccezione – non sempre riescono a convincere fino in fondo. Eppure, nel nostro caso, quando iniziamo a seguire le vicende della giovane – ma non più giovanissima – Victoria (interpretata da una capace Virginie Efira), fin da subito ci rendiamo conto di trovarci di fronte a qualcosa che va oltre, che mette in primo piano il dramma di una donna e lo fa in modo sì sottile e profondamente empatico, ma anche, quando serve, leggero e giocoso. Oltre alla buona scrittura ed alla bravura della protagonista, dunque, ciò che è particolarmente degno di nota è una regia essenziale e priva di fronzoli, la quale, unitamente ad un commento musicale ridotto quasi al minimo ed a lunghi, ma necessari silenzi, tanto sta a ricordarci le commedie della cineasta tedesca Maren Ade e, nello specifico, del suo fortunato lungometraggio Vi presento Toni Erdmann (2016).

E così, già dopo pochi minuti, non possiamo che affezionarci a una protagonista tanto indaffarata quanto buffa, tanto indipendente quanto bisognosa di amore e – vedendola sovente correre ripresa dall’alto da plongé che tanto stanno a ricordarci il Godard di Fino all’ultimo respiro (1960) – finiamo anche noi per sentirci parte di ciò che Justine Triet ha voluto questa volta raccontarci.

D’accordo, un film del genere di certo non può classificarsi come uno dei lungometraggi dell’anno, questo no. Eppure stupisce come, malgrado il proprio garbo e la propria eleganza, sia passato quasi in sordina al Festival di Cannes. Che sano solo i grandi nomi a catalizzare l’attenzione di stampa e pubblico? Ci auguriamo di no. L’importante, però, è che, nonostante tutto, un piccolo lavoro ben realizzato possa ottenere i propri giusti riconoscimenti.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

35° TORINO FILM FESTIVAL – MOST BEAUTIFUL ISLAND di Ana Asensio

most_beautiful_island_sxsw_winnerTITOLO: MOST BEAUTIFUL ISLAND; REGIA: Ana Asensio; genere: drammatico, thriller; paese: USA; anno: 2017; cast: Ana Asensio, Natasha Romanova, David Little; durata: 80′

Presentato alla 35° edizione del Torino Film Festival nella sezione After Hours, Most Beautiful Island è l’opera prima della regista ed attrice spagnola Ana Asensio.

Luciana è un’avvenente ragazza spagnola con un difficile passato alle spalle, la quale, al fine di iniziare una nuova vita, ha deciso di trasferirsi lontano dal suo paese di origine. La crisi economica e, soprattutto, il fatto di ritrovarsi da sola in un paese straniero, le impediranno di trovare una propria stabilità. La donna, costretta a dividersi tra più lavori, finirà per accettare un misterioso incarico, molto ben pagato, presso una festa privata.

Seppur ricca di spunti interessanti questa opera prima della Asensio, al termine della visione, convince davvero poco. E ciò dipende soprattutto dallo script (realizzato dalla stessa regista): una storia eccessivamente povera che, pur promettendo molto man mano che ci si avvicina al finale, finisce irrimediabilmente per sgonfiarsi come un palloncino, trasmettendo allo spettatore uno spiacevole senso di incompiutezza. Eppure, di spunti interessanti ce n’era eccome. La situazione di partenza, ad esempio, sembrava promettere molto. Stesso discorso vale per quanto riguarda la regia, incredibilmente matura nonostante la scarsa esperienza della Asensio dietro la macchina da presa: con una tecnica quasi zavattiniana, l’obiettivo non perde mai di vista la sua protagonista e, allo stesso modo, sa ben rendere la confusione ed il senso di spaesamento che si può provare all’interno di una città come New York, grazie ad immagini non sempre a fuoco (soprattutto per quanto riguarda le persone incontrate per strada) ed un costante uso di camera a spalla.

Dal genere prettamente drammatico, però, si finisce per passare quasi al thriller, nel momento in cui vediamo la protagonista raggiungere il misterioso luogo dove si svolge la festa. E la cosa andrebbe anche bene, se non fosse, appunto, per la povertà della sceneggiatura in sé che, a causa di una struttura eccessivamente scarna, non fa che rendere il tutto pericolosamente sfilacciato e privo di unità tematica.

Uno dei pochi elementi, unitamente alla regia, che in Most Beautiful Island sembra tuttavia funzionare è proprio la protagonista, la quale regge bene la scena più per la sua espressività che per la sua caratterizzazione all’interno dello script stesso. Poco o nulla si dice, ad esempio, del suo passato. L’unica cosa che si può intuire è che, molto probabilmente, la donna sia colpevole della morte prematura della sua figlioletta. Grave errore, dunque, tirare in ballo un elemento di tale portata, per poi abbandonarlo completamente.

Peccato, dunque, che un prodotto promettente come questa opera prima della Asensio sia stato sprecato così. Non vi sono dubbi, infatti, sulle potenzialità registiche della giovane interprete. Chissà, magari in futuro, con altri lavori, riuscirà anche a riscattarsi. A patto che non la si faccia scrivere, però.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – DIRECTIONS di Stephan Komandarev

directions_3_h_2017TITOLO: DIRECTIONS; REGIA: Stephan Komandarev; genere: drammatico; paese: Bulgaria, Germania, Macedonia; anno: 2017; cast: Vasil Vasilev-Zueka, Ivan Barnev, Irini Zhambonas; durata: 104′

Nelle sale italiane dal 27 novembre, Directions è un interessante lungometraggio corale diretto dal cineasta bulgaro Stephan Komandarev.

In una Sofia dei giorni nostri, un piccolo imprenditore, che per arrotondare lavora come tassista, uccide, in un momento di disperazione, un banchiere a cui deve un’ingente somma di denaro, per poi tentare a sua volta il suicidio. Nella notte, mentre la notizia viene trasmessa dalle emittenti radio locali e nazionali, cinque tassisti, ognuno con la propria storia e le proprie difficoltà, percorrono le strade della città in cerca di nuove direzioni e di nuovi modi in cui affrontare la vita.

Già dopo una prima, sommaria lettura della sinossi, immediatamente ci viene da pensare a Taxi Teheran, interessante lungometraggio di Jafar Panahi interamente girato in un taxi (poiché il governo iraniano non permette a Panahi di girare film). Analogamente all’opera di Panahi, questo lungometraggio di Komandarev si svolge quasi per intero all’interno di taxi – pur raccontandoci non una, ma tante storie, ognuna drammatica a modo proprio – dove viene attaccato in modo (non troppo) velato il governo bulgaro e dove la crisi, la disoccupazione ed il denaro si fanno temi portanti di tutto il lavoro.

Non è facile, come sappiamo, dare vita ad un film corale. Ci è più e più volte riuscito il grande Robert Altman, ma molti altri hanno miseramente fallito. Eppure, un film come Directions regge eccome. Interessanti e ben caratterizzati sono, ad esempio, i protagonisti della pellicola, così come le loro storie – fatta solo qualche piccola eccezione. Ciò che convince meno è, purtroppo, proprio il fatto che, man mano che ci si avvicina al finale, il prodotto ci appare sempre più sfilacciato, i vari collegamenti tra ogni singola storia non vengono sfruttati a dovere e si ha quasi la sensazione che fino alla fine ci sia qualcosa di irrisolto.

Poco male, però. Soprattutto perché, nonostante tutto, stiamo parlando di un prodotto mediamente buono, ulteriore conferma dell’alto valore produttivo di un paese come la Bulgaria, che, come sappiamo, sa spesso regalarci interessanti sorprese.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

VENEZIA 74 – PIAZZA VITTORIO di Abel Ferrara

PIAZZA_VITTORIO_PIC002TITOLO: PIAZZA VITTORIO; REGIA: Abel Ferrara; genere: documentario; paese: Italia; anno: 2017; durata: 82′

Presentato fuori concorso alla 74° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, Piazza Vittorio è l’ultimo documentario del celebre cineasta statunitense, ma di origini italiane, Abel Ferrara.

Sulla scia degli attuali dibattiti circa l’immigrazione e la difficoltà a far sì che i nuovi arrivati possano integrarsi nel nostro paese, Ferrara – con la sua piccola troupe e nell’arco di soli pochi giorni – ha realizzato una serie di interviste a clandestini, immigrati, artisti, clochards, politici e storici abitanti del posto, in modo da darci un ritratto completo e fedele di ciò che è oggi piazza Vittorio. Tra i vari interventi ricordiamo, in particolar modo, quello di Matteo Garrone e di Willem Dafoe, i quali, proprio per il fascino della piazza dato dalla sua multietnicità, hanno deciso di trasferircisi.

Il risultato finale è, come ben si può immaginare, un ritratto variegato e pieno di vita, dove l’amore per una città come Roma, in generale, è palpabile fin dai primi minuti. Particolarmente suggestive, a tal proposito, immagini di artisti di strada, di balli, di canti, di persone intente a fare la spesa nello storico mercato coperto, di mamme con neonati, di anziani seduti al parco e di bambini intenti a giocare a pallone. Si potrebbe quasi affermare che basterebbero soltanto tali immagini a fornirci un quadro esaustivo del tutto. Dal canto suo, anche lo stesso Ferrara vuole entrare a far parte del gioco, non esitando ad entrare in campo egli stesso, mentre interagisce con gli intervistati. Ed ecco che il metacinema anche stavolta svolge un ruolo quasi centrale nel dare al tutto quel tocco in più che non guasta mai.

Il problema di un documentario come Piazza Vittorio è, in realtà, proprio il fatto di concentrarsi esclusivamente sulla questione dell’immigrazione, quando, invece, sarebbe stato interessante dar vita ad un lavoro più complesso, che ci permettesse di conoscere anche la storia della piazza stessa e di come sia cambiata la vita nel corso dei decenni, all’interno di essa. A poco, di fatto, servono i brevi filmati di repertorio inseriti. Ciò che però maggiormente disturba è una battuta – risultante fastidiosamente ipocrita e buonista – dello stesso Abel Ferrara, rivolta ad uno dei clandestini al termine di un’intervista: “Anch’io qui in Italia sono un immigrato, sto cercando di vivere con la mia arte”.

Che peccato, quando accadono certe cose. Fino a prova contraria, di fatto, Abel Ferrara il suo lavoro sa farlo eccome. E senza questa cadute di stile avrebbe potuto realizzare indubbiamente qualcosa di davvero, davvero importante. Che dire? Sarà per la prossima volta!

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – NINNA NANNA di Dario Germani e Enzo Russo

nino frassica-2TITOLO: NINNA NANNA; REGIA: Dario Germani, Enzo Russo; genere: drammatico; paese: Italia; anno: 2017; cast: Francesca Inaudi, Fabrizio Ferracane, Nino Frassica; durata: 112′

Nelle sale italiane dal 29 giugno, Ninna nanna è l’opera prima di Dario Germani ed Enzo Russo, prodotta da Tonino Abballe.

Anita è un’enologa di successo che vive in un piccolo paesino della Sicilia. La donna è felicemente sposata con Salvo ed aspetta la prima figlia. In seguito alla nascita della piccola Gioia, però, qualcosa si incrina e la donna inizierà a vedere la figlioletta più come una minaccia per il suo matrimonio ed il suo lavoro che come una benedizione. Non sarà facile gestire il suo disagio, soprattutto perché nessuno sembrerà disposto a capirla.

ninna_nanna1Dopo l’uscita nelle sale di Girotondo, per la regia di Tonino Abballe, ecco un nuovo prodotto proveniente dalla stessa équipe che, analogamente al primo lavoro, tenta di analizzare un disagio interiore ancora sconosciuto ai più. In questo caso parliamo di depressione post partum e la storia di Anita è la storia di molte altre donne nelle sue condizioni che difficilmente riescono a trovare conforto e comprensione.

nn01Seppur delicata ed adeguatamente empatica, la storia della protagonista vede una sceneggiatura con troppi clichés, per una soluzione finale che appare fin troppo scontata ed anche un po’ affrettata. Il fatto che Ninna nanna sia un’opera prima, lo si vede, purtroppo, da una maldestra direzione attoriale, di fianco ad un cast di tutto rispetto, con un’importante esperienza alle spalle, come anche da scelte registiche che risultano spesso eccessive, malgrado le buone intenzioni (in particolare per quanto riguarda le scene oniriche).

Un po’ di sbavature, anche per quanto riguarda la post produzione, e qualche eccesso di troppo, dunque, per un lavoro in cui tutto sommato si vede che chi ci ha lavorato ha creduto molto. Bisognerà aspettare un nuovo lavoro dei due giovani registi per sapere in come si evolverà il loro modo di fare cinema.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – CATTIVISSIMO ME 3 di Pierre Coffin e Kyle Balda

despicablemeTITOLO: CATTIVISSIMO ME 3; REGIA: Pierre Coffin, Kyle Balda; genere: animazione; paese: USA, Francia; anno: 2017; durata: 98′

Nelle sale italiane dal 24 agosto, Cattivissimo me 3 è l’ultimo (per ora) capitolo della fortunata saga di animazione iniziata nel 2010 con Cattivissimo me, a cui sono seguiti Cattivissimo me 2 (2013) e lo spin-off Minions (2015). Anche in occasione di questo ultimo capitolo, la regia è stata affidata al francese Pierre Coffin – a lui, tra l’altro, il compito di doppiare i simpatici minions – mentre il suo braccio destro Chris Renaud è stato sostituito da Kyle Balda.

A distanza di ben quattro anni dall’ultimo capitolo, ritroviamo, come sempre l’ex cattivissimo Gru, felicemente sposato con la simpatica spia Lucy e papà realizzato delle tre orfanelle – Margot, Edith e Agnes – adottate nel primo film. Il capo della Lega Anti Cattivi, Silas Caprachiappa, è ormai andato in pensione e la nuova direttrice non ci metterà molto a licenziare, senza tanti complimenti, Gru e Lucy, dopo che entrambi hanno fallito la loro ultima missione, che consisteva nel catturare un nuovo, pericoloso criminale: Balthasar Bratt, ex bambino prodigio degli anni ’80 intenzionato a radere al suolo Hollywood, che, a distanza di anni, sembra averlo del tutto dimenticato. Le novità, però, non finiscono qui: ormai senza lavoro, Gru riceve, un giorno, una lettera inaspettata che lo informa circa l’esistenza di un suo fratello gemello – Dru – intenzionato a conoscerlo ed a riallacciare i rapporti. A cosa porterà la nascita di questo nuovo legame?

downloadRicco di spunti l’incipit, perfettamente all’altezza degli altri film – se non, per certi versi, addirittura più interessante – il resto del lungometraggio, Cattivissimo me 3, rispetto ad altre fortunate saghe di animazione che, man mano che si è andati avanti con i capitoli, hanno perso di mordente – come, ad esempio, la saga di Madagascar o di Kung fu Panda – si classifica come un prodotto ricco di interessanti riflessioni sul passato, sul presente, sulla società del consumismo e, non per ultimo, su Hollywood e sul mondo del cinema e dello star system in generale.

A tal proposito, la figura del cattivo Balthasar Bratt è emblematica: ex bambino prodigio, amante delle gomme da masticare – diventate, in seguito, la sua arma più terribile – e di Michael Jackson, di cui imita alla perfezione il look e le movenze, il criminale sta a rappresentare un passato che sembra ormai dimenticato da una “società dell’usa e getta”, la società dei fast food, degli speed date e di tutto ciò che non richieda troppo tempo e dedizione e che possa essere facilmente sostituito ogni volta da qualcosa di “nuovo”. Ed Hollywood stessa, in questo caso, non ne esce del tutto pulita, in quanto artefice della rovina dello stesso Bratt, così come di molti altri divi del passato.

cattivissimo-me-3-trailer-italiano-1280x720Alla luce di tali riflessioni, però, c’è qualcosa che, sebbene nato nei nostri giorni, sembra essere destinato, in un modo o nell’altro, a “passare alla storia”? Sembra proprio di sì. E sono proprio i minions il fortunato cavallo di battaglia di tutta la saga, che – piccoli, gialli e spassosi, pensati come una grade e chiassosa scolaresca di soli alunni maschi – fin dal primo Cattivissimo me hanno saputo conquistare grandi e piccini, al punto di diventare delle vere e proprie icone, spingendo la Universal a produrre uno spin-off a loro dedicato prima ancora di finire la saga. Senza contare che la Illumination Mac Guff, dove i simpatici esserini gialli hanno visto la luce, da grande sconosciuta qual era prima, adesso è diventata grazie a loro uno dei più acclamati studi di animazione. D’altronde, come non affezionarsi e divertirsi con questi simpatici personaggi?

Al termine della visione di Cattivissimo me 3, non possiamo affermare con esattezza se questo sia o meno l’ultimo capitolo della saga, dal momento che il finale è stato volutamente lasciato in sospeso. Eppure ci auguriamo soltanto che la Universal stessa trovi sempre la chiave giusta per portare avanti la storia di Gru, dei minions, delle bambine e di tutti i personaggi a cui noi tutti siamo affezionati. Chissà come ne sarebbe contento Stefano – cugino della sottoscritta – a cui è dedicato questo articolo!

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – THE SPACE BETWEEN di Ruth Borgobello

The-Space-BetweenTITOLO: THE SPACE BETWEEN; REGIA: Ruth Borgobello; genere: drammatico; anno: 2015; paese: Italia, Australia; cast: Flavio Parenti, Maeve Dermody, Lino Guanciale; durata: 98′

Nelle sale italiane dal 4 maggio The space between è l’opera prima della regista italo-australiana Ruth Borgobello, presentata in anteprima all’ultima edizione di Alice nella città.

Ci troviamo ad Udine. Il giovane Marco, dopo aver vissuto qualche anno a New York lavorando come chef, viene messo in cassa integrazione dal proprio datore di lavoro. Insoddisfatto dalla propria vita, si convincerà pian piano ad allargare i propri orizzonti ed a perseguire il proprio sogno di tornare a fare lo chef in seguito alla morte improvvisa del suo migliore amico ed in seguito all’incontro con Olivia, giovane ragazza australiana che sogna di diventare una stimata designer.

Indubbiamente questa opera prima di Ruth Borgobello nasce da ottimi intenti. Intellettualmente onesto, questo suo primo lungometraggio risulta, però, piuttosto ingenuo da un punto di vista prettamente cinematografico. Ciò riguarda soprattutto la scrittura: vi sono non pochi elementi tirati in ballo e lasciati in sospeso che più che una scelta voluta sanno tanto di distrazione da parte dell’autrice stessa (il negozio dell’amico, la ragazza del protagonista che vediamo nelle scene iniziali, così come lo stato di salute del padre del ragazzo sono solo alcuni esempi in merito), oltre a forzature poco convincenti (lo scherzo al citofono da parte di alcuni ragazzi, così come la nascita dei gattini del protagonista). Stesso discorso vale per la regia, soprattutto per quanto riguarda la direzione degli attori: troppo innaturale, in alcuni momenti talmente sopra le righe da far perdere di credibilità a tutta la scena.

Eppure bisogna riconoscere che alcune ambientazioni, così come il respiro internazionale e l’importanza del mondo onirico che l’autrice ha voluto dare a questa sua opera sono indubbiamente trovate interessanti. Chissà, forse è proprio la scarsa esperienza dietro la macchina da presa della regista l’unico vero ostacolo alla buona riuscita del film. Se Ruth Borgobello riuscirà o meno a “crescere”, però, lo sapremo solo dopo la visione dei suoi prossimi lavori, ai quali, si spera, non mancherà quella genuinità di fondo che caratterizza questa sua ingenua opera prima.

VOTO: 5/10

Marina Pavido