In uscita CONNESSIONI, il nuovo album di Matteo Sacco

cover Connesssioni fronte jpegRicevo e volentieri pubblico

Secondo disco per il “cantautore 2.0”, anticipato dal singolo “E Tu Dormi”.

Connessioni è il nuovo lavoro di Matteo Sacco, cantautore romano ma orvietano di adozione. Il disco, preceduto dall’uscita del singolo “E tu dormi”, sarà disponibile nei principali store digitali a partire dal 23 maggio.

Il titolo dell’album riporta immediatamente all’era digitale in cui siamo stati repentinamente catapultati: “un mondo fatto di contatti virtuali che stanno man mano occupando la totalità del nostro tempo e consumando ogni spazio”, come dichiara lo stesso Matteo. Nella title track “Connessioni” il cantautore cerca di descrivere proprio questo. “Tutte le nuove canzoni seguono un’idea che è quella di mettere in discussione il concetto di realtà, in modo che lo sguardo sia in grado di spingersi oltre ogni categoria e soprattutto al di là delle facciate dei selfie e dei nostri profili patinati sui social. Esistono collegamenti sconosciuti ed inaspettati, direi ancestrali. L’uomo però ha perso contatto con la sua stessa natura, con la dimensione di viaggio e di scoperta”.

_e tu dormiIl nuovo lavoro segue La Dolce Vita, il primo disco di Matteo Sacco che risale al 2016. Per promuoverlo Matteo aveva girato l’Italia in tour e aveva diviso il palco dell’Umbria Folk Festival con artisti del calibro di Davide Van De Sfroos e Max Gazzè.

Il sound di Connessioni, differentemente da quello più classico e folk del disco precedente, nasce dall’esigenza di veicolare in un modo più attuale le parole dei testi, che restano comunque per Matteo il fulcro di ogni suo lavoro. Lo stile si trasforma così in “cantautorato 2.0”, come lo definisce lo stesso artista per evidenziare una trasformazione elettronica, sia essa più atmosferica o electro-pop: “la scelta di usare negli arrangiamenti synth e batterie campionate è uscita fuori inconsapevolmente e in modo viscerale, suggerita da un gusto maturato negli anni della mia primissima adolescenza con la new wave degli anni ’80. Oltre ai grandi nomi italiani, sono cresciuto ascoltando band come Duran Duran, Depeche Mode, e INXS”.

matteo sacco_2Inoltre – spiega Matteo – il piacere più grande e irresistibile è stato quello di cantare le mie canzoni su ritmi che strizzano l’occhio alla musica dance elettronica, che dagli anni ’90 in poi ha trascinato me, insieme a molti altri, nel vortice estatico dei rave party”.

Connessioni – tracklist:

  1. E Tu Dormi

  2. Battibaleno

  3. Connessioni

  4. Amici Miei

  5. Il Male

  6. Viaggi

  7. Il Sole di Maggio

  8. Il Vecchio dei Giorni

  9. Attraverso lo Specchio

  10. Odisseo

MATTEO SACCO SOCIAL

Facebook

Instagram

YouTube

Spotify

BOOKING

saccomet@gmail.com

Ufficio stampa Roberta Nardi

Dott.ssarobertanardi@gmail.com

Bugie rosse: CG Entertainment distribuisce in home video il Basic Instinct italiano

BUGIE ROSSE cover dvdRicevo e volentieri pubblico

Dal 30 Maggio 2019 torna in dvd nei negozi specializzati e in tutti gli store digitali, distribuito da CG Entertainment (www.cgentertainment.it), Bugie rosse, la discussa pellicola scritta e diretta da Pierfrancesco Campanella, definita – nel periodo della sua uscita sul grande schermo – a metà strada tra Cruising con Al Pacino e i film di Dario Argento. In realtà, si tratta di un thriller erotico molto spinto, un micidiale mix di sesso a tinte forti e cruda violenza, dove si mescolano perversioni di tutti i tipi a un’avvincente storia gialla, carica di tensione, mistero e colpi di scena. In un certo senso lo si può quasi considerare la risposta italiana a Basic instinct, il sensuale film con Michael Douglas e Sharon Stone che l’anno prima aveva sbancato i botteghini mondiali.

Gianfranco Jannuzzo in BUGIE ROSSEBugie rosse, distribuito nelle sale cinematografiche italiane nel 1994 dalla importante casa americana Warner Bros, narra le scabrose vicende di un cronista televisivo (interpretato da Tomas Arana, antagonista in blockbaster come Guardia del corpo e Il gladiatore) impegnato in uno scottante reportage su alcuni delitti maturati nell’ambiente torbido di una grande città, il quale resta in qualche modo affascinato da quel mondo, grazie anche all’amicizia “particolare” instauratasi con un “ragazzo di vita”, cui presta il volto Lorenzo Flaherty (affermato attore di fiction come Distretto di polizia e R.I.S.). Tra un omicidio e l’altro, il protagonista comincia a distaccarsi dalla moglie (una bellissima Gioia Scola, che tutti ricordano in Yuppies 2 e Sotto il vestito niente 2, qui più conturbante che mai) e tutto lascerebbe pensare a un drastico cambio di vita. Sarà davvero così? Di certo la scoperta dell’insospettabile assassino con i relativi, inconfessabili retroscena umani e psicologici lasceranno nel giornalista una traccia ineluttabile.

Natasha Hovey in BUGIE ROSSEGli altri interpreti di Bugie rosse sono: Natasha Hovey (Acqua e sapone di Verdone e Demoni di Lamberto Bava i suoi film più famosi), Barbara Scoppa (che ha lavorato con registi del calibro di Federico Fellini, Ettore Scola e Gabriele Salvatores), Gianfranco Jannuzzo (interprete teatrale di tutto rispetto, spesso partner di Gino Bramieri) e molti altri come Paolo Calissano, Gianna Paola Scaffidi, Carolyn Spence, Rodolfo Corsato e Gianni Franco. Su tutti primeggia il nome della grandissima Alida Valli, artista di fama mondiale con all’attivo film come Il caso Paradine di Alfred Hitckcock e Senso di Luchino Visconti.

L’opera di Campanella si avvale di un cast tecnico di assoluto prestigio, con il direttore della fotografia Mario Vulpiani (stretto collaboratore di Marco Ferreri), il montatore Franco Fraticelli (Profondo rosso), il costumista Silvio Laurenzi (che nel corso della sua lunga carriera ha curato l’immagine di grandi dive come Edwige Fenech e Carrol Baker), il musicista Natale Massara (tra l’altro curatore delle colonne sonore di molte opere di Brian De Palma).

Tomas Arana e Gioia Scola in BUGIE ROSSEBugie rosse è stato oggetto di aspre critiche per le immagini sfacciatamente disinibite e per le situazioni trasgressive che propone, ritenute da alcuni addirittura troppo “morbose”. Inoltre, Pierfrancesco Campanella è stato duramente contestato – come testimoniano i ritagli stampa dell’epoca – dalle principali associazioni omosessuali italiane per il modo con cui avrebbe rappresentato la realtà gay, giudicata esageratamente “violenta” e avulsa da affettività.

Il film è stato prodotto da Pietro Innocenzi per Globe Films, in associazione con la Sagittario Film e con la collaborazione di Reteitalia del gruppo Mediaset.

Anche Raoul Bova tra i cortometraggi del Sezze Film Festival

Ricevo e volentieri pubblico

SEZZE-3Si svolgerà Sabato 4 Maggio 2019 a Sezze, in provincia di Latina, la prima edizione del Sezze Film Festival, dedicato ai cortometraggi e a tema libero.

Fortemente voluto dai direttori artistici Stefano Madonna e Alfonso Chiarenza, che si occupano di produzione cinematografica e televisiva, il festival prenderà il via alle ore 14.00 presso l’Auditorium San Michele Arcangelo, dove verranno proiettati i cortometraggi finalisti:

Le avventure di Mr Food e Mrs Wine di Antonio Silvestre, con Marco Falaguasta, Christiane Filangieri, Alessandro Tersigni e Vincenzo Di Michele

Colapesce di Vladimir di Prima, con Jacopo Cavallaro, Francesco Russo, Loredana Marino, Carmelo Cannavò

SEZZE-2Tears in heaven di Nicola Barnaba, con Gabriele Rossi e Francesca Flora, prodotto da Raoul Bova

Navan di Attilio Facchini, con Roberto Stasolla

Insane Love di Eitan Pitigliani, con Filippo Gattuso, Miriam Dalmazio, Clara Alonso e Davide Dato, co-prodotto da Rai Cinema

Viola del pensiero di Fabrizio Nardocci, con Alessandro Mario e Giorgia Palmucci

Zi Franco di Vincenzo Palazzo, con Gaetano Mosca, Clara Morlino, Vincenzo Guida ed Eva Cela

SEZZE-1Il Sezze Film Festival 2019 avrà una nuova categoria dedicata ai nuovi talenti del cinema, della televisione e dello spettacolo e consegnerà a Simone Coccia Colaiuta – concorrente del Grande Fratello 2015 – un premio speciale legato ai reality tv.

Il galà di premiazione si svolgerà alle ore 19.00 e sarà trasmesso su Bouquet Sky.

Tra i partner della manifestazione, Miss Spettacolo, Sicurbagno, Mondospettacolo, Radio Noise Italia, Comune di Sezze, Latina Film Commission.

https://www.sezzefilmfestival.it/

LA RECENSIONE – LAZZARO FELICE di Alice Rohrwacher

lazzaro feliceTITOLO: LAZZARO FELICE; REGIA: Alice Rohrwacher; genere: drammatico; paese: Italia; anno: 2018; cast: Adriano Tardiolo, Alba Rohrwacher, Nicoletta Braschi; durata: 130′

Nelle sale italiane dal 31 maggio, Lazzaro felice è l’ultima fatica della giovane regista Alice Rohrwacher, presentato in concorso alla 71° edizione del Festival di Cannes, dove ha vinto la Palma d’Oro alla Miglior Sceneggiatura, ex aequo con Three Faces di Jafar Panahi.

Il giovane Lazzaro, non ancora ventenne, vive in un casolare di campagna insieme alla sua numerosa famiglia, con la quale lavora come contadino a servizio di una nobildonna. La padrona della terra, tuttavia, altro non fa che sfruttare i suoi dipendenti, costringendoli a vivere come schiavi, senza che sappiano nulla di come vadano le cose al di fuori della campagna in cui vivono. Nel momento in cui le autorità si accorgeranno di tale situazione, saranno tutti finalmente liberati, ma non sarà affatto facile adattarsi alla vita al di fuori del loro piccolo mondo.

Un tema di grande potenza, che si fa metafora della nostra società, dei giochi di potere effettuati da padroni, datori di lavoro e banche, ma anche dell’ultimo secolo della storia della nostra Italia. Particolarmente interessante, a tal proposito, è l’ambientazione: durante le prime scene, girate all’interno del casolare di campagna (con atmosfere che tanto stanno a ricordarci il cinema del compianto Ermanno Olmi), si ha l’impressione di trovarsi nell’Italia degli anni Cinquanta. Eppure, vi sono piccoli, sporadici elementi che rimandano all’epoca contemporanea. La cosa si fa maggiormente evidente nel momento in cui i carabinieri fanno irruzione in quel piccolo mondo fuori dal tempo, riportandoci immediatamente ai giorni nostri. Il tutto resta comunque volutamente ambiguo, dal punto di vista spazio-temporale e, unitamente a piccole caratteristiche dei protagonisti e dello stesso Lazzaro, assume un che di surreale, di magico, addirittura di onirico. Particolarmente d’effetto, a tal proposito, l’abitudine – sia del protagonista che della sua famiglia – di soffiare uno strano vento che tanto sta a ricordarci il vento felliniano e il suo significato intrinseco di morte.

E poi, ovviamente, c’è lui, il giovane Lazzaro (interpretato da un ottimo Adriano Tardiolo, qui al suo esordio sul grande schermo). Sempre sereno, sorridente, sembra non desiderare mai nulla per sé, ma, al contrario, sembra sperare solo che agli altri possa capitare del bene. Il ragazzo – analogamente a molte figure della nostra stessa società che vengono banalmente emarginate – è talmente buono, da risultare addirittura stupido. Una sorta di santo che non fa miracoli e che vedrà nella figura di Tancredi – figlio della nobildonna per cui lavora – il suo primo, vero amico. Un amico che non smetterà mai di cercare per tutta la vita.

E così, questo complesso e stratificato lavoro della Rohrwacher – realizzato, tra l’altro, rigorosamente in pellicola – è riuscito a conquistare anche il pubblico di Cannes. La cosa, ovviamente, è stata del tutto meritata e non fa che confermare la giovane autrice come uno dei nomi maggiormente da tener d’occhio all’interno del panorama cinematografico nostrano.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – L’ARTE DELLA FUGA di Brice Cauvin

l'arte della fugaTITOLO: L’ARTE DELLA FUGA; REGIA: Brice Cauvin; genere: commedia; paese: Francia; anno: 2018; cast: Laurent Lafitte, Agnès Jaoui, Nicolas Bedos; durata: 98′

Nelle sale italiane dal 31 maggio, L’Arte della Fuga è l’ultimo lungometraggio del regista francese Brice Cauvin, tratto dall’omonimo romanzo di Stephen McCauley.

Ci sono tre fratelli: Antoine, Louis e Gérard. Antoine ha da circa dieci anni una relazione con Adar, uno psicologo che sembra conoscerlo meglio di chiunque altro. Louis è in procinto di sposare – spinto soprattutto dalla famiglia – Julie, la sua fidanzata storica, ma ha da tempo una relazione clandestina con Mathilde. Gérard, infine, si è da poco lasciato con la moglie Hélène – con la quale tenta di tornare disperatamente – e, dopo essere rimasto disoccupato, è tornato a lavorare nel negozio di abbigliamento dei suoi genitori. Dei tre è indubbiamente Antoine colui che sembra avere una situazione più stabile. E se, invece, il suo eccessivo preoccuparsi delle vite sentimentali dei fratelli fosse, in realtà, solo un tentativo di fuggire dai suoi stessi problemi? Tre fratelli, tre singole esistenze costellate da amori e delusioni, insieme a un infinito numero di responsabilità dalle quali fuggire.

Un romanzo americano per una trasposizione cinematografica francese, dunque. Ed è probabilmente anche per questo che un lavoro come L’Arte della Fuga sembra aver attinto a piene mani da diverse cinematografie e da diverse scuole, frutto di una positiva contaminazione di culture e modi di intendere la Settima Arte. Se pensiamo, infatti, al gran numero di commedie francesi che vengono prodotte ogni anno (e che, salvo rare eccezioni, spesso sembrano tutte confondersi e somigliarsi tra loro), in questo lavoro di Cauvin possiamo solo riconoscere la delicatezza e una certa eleganza di fondo (che, diciamolo, non guastano mai). Per il resto, per quanto riguarda sia la messa in scena, sia la caratterizzazione dei personaggi, sia persino il peso che i dialoghi hanno, possiamo dirci di avere di fronte un prodotto che (quasi) in tutto e per tutto sta a ricalcare il cinema statunitense e, in particolare il cinema del maestro Woody Allen. Al via, dunque, momenti frenetici, corse da una parte all’altra della città, personaggi stressati dal lavoro (o dalla mancanza di esso) e poi pranzi, cene e viaggi, viaggi e ancora viaggi. Una messa in scena dinamica che – forte di uno script robusto – sa ben trattare ogni singolo personaggio, caratterizzandolo (in poco più di un’ora e mezza di film) a 360°.

A proposito dei personaggi, bisogna fare delle considerazioni a parte. Presi come sono dai loro problemi, dalle loro nevrosi e dalle loro vite frenetiche, indubbiamente ci viene da pensare a figure tipicamente alleniane. Se a tutto ciò aggiungiamo anche un continuo parlare e, di conseguenza, un copioso utilizzo dei dialoghi (cosa assolutamente non facile da gestire, ma qui trattata in maniera egregia), ecco che le influenze del caro vecchio Woody si fanno sentire forti più che mai. Eppure, a ben guardare, un’altra importante figura che ha influenzato Brice Cauvin nella caratterizzazione dei suoi personaggi (e, in particolare, della frizzante Ariel, collega di Antoine) c’è eccome. Si tratta, come ben si può immaginare, di Pedro Almodovar (l’Almodovar del primo periodo, per intenderci), dal quale il nostro autore riprende principalmente tutto quell’essere costantemente sotto pressione, praticamente sempre “sull’orlo di una crisi di nervi”, come gran parte dei personaggi almodovariani sono stati a loro tempo.

Girato in parte a Parigi, in parte a Bruxelles, non possiamo non notare in L’Arte della Fuga un’estrema cura e un’attenzione nel rappresentare diversi quartieri delle città, con atmosfere calde e accoglienti e con le loro vite sì frenetiche, ma che, al contrario delle turbe interiori dei personaggi, sembrano comunicarci piacevoli sensazioni di pace. Merito, indubbiamente, delle lunghe passeggiate nei parchi o lungo i viali alberati, o anche della presenza – mai “ingombrante”, ma piuttosto marginale – di importanti monumenti. Le città e, di conseguenza, la vita all’interno di esse, vengono messe in scena da Cauvin con lo stesso amore con cui il già citato Woody Allen ci ha mostrato a suo tempo le sue amate New York e Parigi.

Un lavoro, questo di Cauvin, molto più complesso e raffinato di quanto possa inizialmente sembrare, dunque. Un lungometraggio che, forte di questo suo respiro internazionale, si rivela degna trasposizione di un romanzo che già a suo tempo ha saputo conquistare un gran numero di lettori.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – STATO DI EBBREZZA di Luca Biglione

Stato-di-ebbrezzaTITOLO: STATO DI EBBREZZA; REGIA: Luca Biglione; genere: biografico, drammatico; paese: Italia; anno: 2018; cast: Francesca Inaudi, Andrea Roncato, Fabio Troiano; durata: 90′

Nelle sale italiane dal 24 maggio, Stato di Ebbrezza è l’ultimo lungometraggio diretto da Luca Biglione.

Tratto da una storia vera, il film racconta le vicende della cabarettista Maria Rossi, la quale, in seguito alla morte della madre, è diventata alcolista. Saranno l’aiuto del padre e del fratello, la nascita di nuove, importanti amicizie e la lunga degenza in una clinica per disintossicarsi a darle la possibilità di liberarsi dalla dipendenza dall’alcool e di ritornare sul palco.

La vera Maria Rossi ha dato il suo contributo nella stesura della sceneggiatura e, sia all’inizio che in chiusura del lungometraggio, la si vede sullo schermo, nel ruolo di sé stessa. Un lavoro, dunque, molto sentito e molto personale, questo realizzato da Biglione. Un lavoro che, di fianco a non poche imperfezioni (riguardanti particolarmente lo stesso script), vede anche momenti particolarmente riusciti e di grande impatto emotivo.

Dopo aver visto la giovane Maria esibirsi sul palco, ecco che, nel giro di pochissimi minuti, vediamo una serie di eventi susseguirsi in modo a volte eccessivamente repentino, almeno fino al punto in cui non si arriva al momento del ricovero della protagonista: è qui che si svolge la maggior parte del lungometraggio ed è qui che vediamo la donna iniziare piano piano ad ambientarsi, fino al punto di instaurare forti legami sia con la dottoressa che la segue che con altre persone ricoverate.

Ciò a cui ci viene immediatamente da pensare è il film Si può fare, diretto nel 2008 da Giulio Manfredonia, data la particolare ambientazione e le tematiche trattate. A differenza del suddetto prodotto, tuttavia, Stato di Ebbrezza risulta più grezzo, più “ingenuo”, con personaggi sì empatici, ma con un background di scrittura di gran lunga meno approfondito rispetto a quanto realizzato da Manfredonia (e dallo sceneggiature Fabio Bonifacci).

Ma tant’è. Il lavoro, nel suo complesso, sembra funzionare. Al di là della riuscita finale, però, Stato di Ebbrezza ha visto soprattutto una grandissima prova attoriale di Francesca Inaudi (nel ruolo di Maria Rossi), sempre convincente, ma qui al massimo della forma. C’è da augurarsi soprattutto che possa ottenere i riconoscimenti che merita per questa sua ottima performance.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – LA SETTIMA ONDA di Massimo Bonetti

la_settima_onda_ft_01TITOLO: LA SETTIMA ONDA; REGIA: Massimo Bonetti; genere: drammatico; paese: Italia; anno: 2018; cast: Francesco Montanari, Valeria Solarino, Alessandro Haber; durata: 87′

Nelle sale italiane dal 24 maggio, La Settima Onda è l’opera prima del celebre attore Massimo Bonetti.

La storia qui messa in scena è la storia di una forte amicizia e di una grande passione comune: la storia di Tanino, un giovane pescatore di un paesino del Sud Italia, con il sogno di diventare attore, il quale, tuttavia, ha presto abbandonato le sue speranza giovanili, al fine di mandare avanti la casa e di pagare un gravoso mutuo. Le difficoltà economiche, così come il difficile rapporto con la suocera, sono i suoi principali problemi. Al fine di far fronte alle numerose difficoltà, dunque, il giovane tenterà anche la strada del crimine. Solo l’incontro con un misterioso uomo, anziano e solitario, sembrerà riuscire a cambiargli la vita.

Una storia senza tempo, questa messa in scena da Bonetti. Non sono presenti né computer, né telefoni cellulari, nelle vite dei protagonisti. Ciò che vediamo potrebbe essere accaduto oggi, come venti o trenta anni fa. Una vicenda con personaggi e, soprattutto, una location che per la loro caratterizzazione e per la forte empatia con il pubblico stanno a rappresentare il vero cavallo di battaglia dell’intero lavoro.

A fare da collante tra il protagonista e il suo nuovo amico, il Cinema. Il grande cinema, quello di Bergman e di Rossellini. Il cinema immortale, in grado di smuovere in qualsiasi epoca gli animi di ognuno. È anche un omaggio alla settima arte, dunque, questo interessante lavoro di Bonetti, il quale, per quanto riguarda l’utilizzo di tale elemento, ha affermato di essersi ispirato a un suo incontro avvenuto nella vita di tutti i giorni.

Peccato solo per alcuni elementi di sceneggiatura (vedi, ad esempio, l’elemento del crimine o lo stesso rapporto tra Tanino e sua moglie) che non sono stati sviluppati come auspicato. Ma, d’altronde, non sempre è facile gestire tanti fattori in una sola volta. Soprattutto quando si tratta di un’opera prima.

Fortunatamente, Massimo Bonetti ha saputo regalarci un prodotto ben riuscito e a tratti anche commovente, una storia universale che nel suo piccolo una certa efficacia ce l’ha eccome e che di certo saprà arrivare a un buon numero di spettatori.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – IL CODICE DEL BABBUINO di Davide Alfonsi e Denis Malagnino

il-codice-del-babbuino-trailer-e-poster-del-dramma-di-davide-alfonsi-e-denis-malagnino-2TITOLO: IL CODICE DEL BABBUINO; REGIA: Davide Alfonsi, Denis Malagnino; genere: thriller, drammatico; paese: Italia; anno: 2018; cast: Denis Malagnino; Tiberio Suma, Stefano Miconi Proietti; durata: 81′

Nelle sale italiane dal 17 maggio grazie a Distribuzione Indipendente, Il Codice del Babbuino è l’ultimo lungometraggio diretto da Davide Alfonsi e Denis Malagnino, facenti parte del collettivo Amanda Flor e, successivamente, dell’Associazione Donkey’s Movies.

Il tutto avviene nell’arco di una nottata. Denis, padre di famiglia con difficoltà finanziarie, ritrova per caso, nel pressi di un campo rom, il corpo della ragazza del suo amico Tiberio, la quale è stata stuprata e ridotta in fin di vita. Il giovane e impulsivo Tiberio, una volta venuto a conoscenza dei fatti, non desidererà altro che scoprire i colpevoli e vendicare la sua ragazza. Anche a costo di sfidare la legge e di rimetterci la pelle. Avrà inizio, dunque, una lunga peregrinazione nei quartieri più malfamati della città, dove solo grazie a pericolose alleanze sarà possibile risalire, in qualche modo, alla verità.

Atmosfere cupe, attori non sempre professionisti e, soprattutto, un’interessante – e per nulla facile da gestire – regia fatta di primissimi piani e camera a spalla sono i tratti distintivi di un lungometraggio come Il Codice del Babbuino, il quale, a sua volta, inevitabilmente ci fa pensare al cult Cani Arrabbiati, diretto nel 1974 dal maestro Mario Bava.

Un film, dunque, completamente indipendente, girato con un budget inevitabilmente limitato, ma che riesce a farsi onore all’interno del panorama cinematografico nostrano. Sono soprattutto i personaggi, veri, umani, con mille sfaccettature a contribuire alla riuscita finale. I registi, dal canto loro, bene hanno saputo gestire chi del cinema non ha fatto la sua prima occupazione: come la nostra ottima tradizione insegna, d’altronde, non si riesce a capire chi dei protagonisti sia stato “preso dalla strada” e chi no. Ognuno di loro è perfettamente credibile e riesce a entrare in sintonia con il pubblico fin dai primi momenti. Senza disdegnare anche qualche piccola citazione cinefila.

Al di là del buon risultato finale, al di là del buon livello complessivo, dunque, cosa rende, al giorno d’oggi, un lavoro come Il Codice del Babbuino qualcosa di urgente e necessario? Indubbiamente, il bisogno di dar voce anche ad autori validi che, però, essendo fuori dai grandi circuiti, faticano non poco a ottenere i finanziamenti per il loro lungometraggi. Ed ecco che, quindi, il nostro cinema sembra, di quando in quando, voler tornare addirittura al dopoguerra, quando signori come Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Luchino Visconti e Giuseppe de Santis pur di realizzare i loro film, inventarono un nuovo modo di far cinema. Un modo, questo, che, di fatto, ha fatto scuola in tutto il mondo. E che ancora oggi sembra rivelarsi spesso la soluzione migliore, oltre che maggiormente efficace.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – LE GRIDA DEL SILENZIO di Sasha Alessandra Carlesi

le grida del silenzioTITOLO: LE GRIDA DEL SILENZIO; REGIA: Sasha Alessandra Carlesi; genere: thriller; paese: Italia; anno: 2018; cast: Alice Bellagamba, Luca Avallone, Manuela Zero; durata: 90′

Nelle sale italiane dal 10 maggio, Le Grida del Silenzio è l’opera prima della giovane regista Sasha Alessandra Carlesi.

Viene qui messa in scena la storia di sette ragazzi, tutti soliti frequentare – chi per lavoro, chi, semplicemente, per hobby – un club sportivo, tutti i cerca di relax ed emozioni. Un giorno decidono di andare tutti insieme in campeggio in mezzo ai boschi, dove, tuttavia, non tarderanno ad accadere eventi inspiegabili.

Un esordio, questo della Carlesi, che si rifà sì ai canoni del genere slasher (o quantomeno, inizialmente così sembra), ma che, pian piano prende pieghe inaspettate e del tutto soggettive, che non disdegna né i toni del thriller, così come la presenza di elementi soprannaturali né, soprattutto, echi da film sentimentale.

La cosa in sé è indubbiamente interessante. Se non altro perché il cinema italiano ha indubbiamente bisogno di giovani autori che abbiano voglia di sperimentare e di tentare il nuovo. La Carlesi, a tal proposito, ha avuto il coraggio di osare, dimostrando anche una discreta padronanza con la macchina da presa e riuscendo a dar vita a personaggi ben caratterizzati e con i quali è fin da subito facile empatizzare.

I limiti che un lungometraggio come Le Grida del Silenzio può avere, tuttavia, oltre a essere inevitabilmente dovuti a limiti di budget, stanno soprattutto nello script, con qualche elemento lasciato in sospeso (vedi, ad esempio, il personaggio della ex ragazza di Desirée incontrato al club) e un finale con trovate poco riuscite (come la trasmissione televisiva in cui la ex di uno dei ragazzi è invitata a raccontarsi al pubblico) e che tende a essere tirato un po’ troppo per le lunghe.

Ma, dunque, in fin dei conti, come può essere considerato un lavoro come Le Grida del Silenzio? Di certo questa opera prima di Sasha Alessandra Carlesi è un’interessante apologia dell’importanza dell’essere sé stessi e di accettare ciò che ci accade, senza restare, per forza di cose, ancorati al passato. Un film che vuole parlare un linguaggio universale attraverso un linguaggio di genere e che, malgrado le numerose imperfezioni, risulta ad ogni modo un’opera sincera e sentita.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – I FIGLI DELLA NOTTE di Andrea De Sica

I-figli-della-notte1TITOLO: I FIGLI DELLA NOTTE; REGIA: Andrea De Sica; genere: drammatico; paese: Italia; anno: 2016; cast: Vincenzo Crea, Ludovico Succio, Yuliia Sobol; durata: 85′

Nelle sale italiane dal 31 maggio, I figli della notte è l’opera prima di Andrea De Sica, già presentata in anteprima al Torino Film Festival e dedicata alla memoria di Manuel De Sica, padre del regista, scomparso nel 2014.

All’interno di uno scenario suggestivo come può essere il paesaggio alpino vi è un grande collegio per rampolli dell’alta società che hanno avuto problemi con la giustizia e che, qui “rinchiusi” vengono educati per diventare i “dirigenti del futuro”. Tra di loro c’è anche il diciassettenne Giulio, timido ed introverso che ben presto farà amicizia con l’intraprendente Edoardo. I due prenderanno ben presto l’abitudine di uscire di nascosto di notte per recarsi in un night club poco lontano. Ed è qui che Giulio incontrerà e si innamorerà della spogliarellista Elena.

Al di là della storia con riuscite venature del thriller e dell’horror, al di là della maestosa ambientazione, che tanto sta a ricordarci l’Overlook Hotel, al di là dell’ottima scelta degli interpreti e della scrittura priva di sbavature, questo primo lavoro del giovane De Sica colpisce innanzitutto per la straordinaria maturità e per l’ottima padronanza del mezzo cinematografico stesso.

La macchina da presa, secondo lo sguardo attento del regista, ci mostra il percorso di crescita di un adolescente che, da ragazzo bisognoso di affetto si trasforma pian piano in un adulto cinico e compassato. Senza edulcorazione alcuna. Il tutto, ovviamente, seguendo le regole del buon cinema di genere, con intensi primi piani, giochi di luci ed ombre, suggestive carrellate all’interno degli angusti corridoi del collegio (anche qui l’amore per Kubrick si è fatto sentire) ed un utilizzo della musica che sa dar vita a veri e propri picchi emotivi all’interno del lungometraggio. Di grande impatto, a tal proposito, la scena in cui il protagonista, aiutato da un suo compagno chiamato a minacciare i sorveglianti con una pistola cantando le note di Vivere, scappa dal collegio.

Ottantacinque minuti che scorrono via in un baleno, dunque. Che ci tengono fin da subito incollati allo schermo e che, al termine della visione, ci fanno chiedere quali altri interessanti prodotti Andrea De Sica avrà in serbo per il futuro.

VOTO: 7/10

Marina Pavido