LA RECENSIONE – 15:17 ATTACCO AL TRENO di Clint Eastwood

Film Review The 15:17 to ParisTITOLO: 15:17 ATTACCO AL TRENO; REGIA: Clint Eastwood; genere: drammatico; paese: USA; anno: 2017; cast: Spencer Stone, Anthony Sadler, Alek Skarlatos; durata: 94′

Nelle sale italiane dall’8 febbraio, 15:17 Attacco al treno è l’ultima fatica del celeberrimo cineasta ed attore statunitense Clint Eastwood.

Tratto da una storia vera, il lungometraggio racconta la vita dei tre ragazzi americani – qui presenti anche in qualità di interpreti nel ruolo di sé stessi – che salvarono la vita a più di 500 persone durante un attacco terroristico ad un treno diretto a Parigi avvenuto il 21 agosto 2015.

Questo attesissimo lavoro di Eastwood ci racconta, nello specifico, tre storie di tre ragazzi problematici sin dall’infanzia, che, tuttavia, ben presto si sono rivelati dei veri e propri eroi. Interessante, a tal proposito, l’idea di voler raccontare come determinati personaggi relegati quasi ai margini della società possano poi rivelarsi tra i più meritevoli esempi di coraggio ed amore per il proprio paese. Ed è, come tradizione eastwoodiana vuole, proprio l’amore per la propria nazione, unito anche ad una profonda religiosità (da notare, a tal proposito, la presenza costante di crocefissi ed immagini sacre nelle scene ambientate in interni) il leit motiv dell’opera di Eastwood, nonché vera e propria colonna portante di tutta la sua cinematografia.

Ciò che, però, di un lungometraggio come 15:17 Attacco al treno proprio non convince è il fatto che Eastwood stesso, evidentemente in difficoltà nel dover arrivare al punto e nel portare avanti la storia, abbia attuato scelte registiche e di sceneggiatura in cui vediamo una serie di elementi posticci, collocati all’interno dello script solo per colmare un problematico vuoto, che vengono lasciati cadere senza mai più essere ripresi. È questo il caso, ad esempio, dei personaggi incontrati durante le già di per sé problematiche scene del viaggio dei ragazzi. Senza contare che il viaggio stesso sembra più una sorta di “video promozionale” per qualche agenzia turistica; un momento del tutto superfluo che non ha fatto altro che far perdere punti al film stesso e che avrebbe potuto essere tagliato di oltre mezz’ora.

Nulla da dire dal punto registico, questo è chiaro. Che Eastwood sappia il fatto suo per quanto riguarda la gestione del mezzo cinematografico, è qualcosa che abbiamo avuto modo di appurare già da tempo. Però una cosa è certa: i tempi gloriosi di Mystic River – ma anche del recentissimo Sully – ci sembrano, oggi, lontani anni luce. Peccato.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

12° FESTA DEL CINEMA DI ROMA – THE MOVIE OF MY LIFE di Selton Mello

o-filme-da-minha-vida-paula-huven-4_opt-650x300TITOLO: THE MOVIE OF MY LIFE; REGIA: Selton Mello; genere: drammatico; paese: Brasile; anno: 2017; cast: Johnny Massaro, Vincent Cassel, Bruna Linzmeyer; durata: 113′

Presentato in anteprima all’interno della Selezione ufficiale alla 12° Festa del Cinema di Roma, The Movie of My Life è l’ultimo lungometraggio del regista brasiliano Selton Mello, tratto dal romanzo A Distant Father di Antonio Skarmeta.

Tony Terranova – figlio di un francese e di una brasiliana – è un giovane insegnante con la passione per il cinema e per la poesia. Una volta tornato, dopo aver concluso gli studi, a Remanso, suo paese di origine, scoprirà che suo padre ha improvvisamente abbandonato la madre, la quale viene incessantemente corteggiata da un vicino di casa. Anche Tony, a sua volta, scoprirà l’amore. Questo suo percorso di crescita, però, non sarà sempre facile.

Ѐ una voce fuoricampo – con dei binari in mezzo alla campagna che ci appaiono sullo schermo – ad introdurci, dunque, le vicende del giovane protagonista. E, così, fin da subito, grazie ad una messa in scena pulita e priva di fronzoli, che – unita ad una fotografia che tanto ci ricorda Novecento del nostro Bernardo Bertolucci (senza particolari riferimenti a Pelizza da Volpedo, però) – sa ben realizzare le ambientazioni e le atmosfere della provincia brasiliana degli anni Sessanta, ci troviamo perfettamente a nostro agio all’interno di una storia nella quale un po’ tutti riusciamo ad identificarci.

Tony, il giovane protagonista, è un eterno sognatore, sensibile ma determinato, che non riesce a comprendere il motivo per cui suo padre abbia deciso di sparire completamente dalla sua vita e da quella di sua madre. Il primo confronto con il cosiddetto “mondo degli adulti” sarà, dunque, molto più doloroso del previsto, sebbene edulcorato dalla scoperta dell’amore e, soprattutto, dal cinema stesso, luogo in cui il protagonista è solito rifugiarsi per vedere e rivedere il classico di John Ford Fiume Rosso ed estraniarsi, per un attimo, dalla realtà che lo circonda. Ed ecco che anche lo spettatore viene immediatamente rapito dalle pellicole che, numerose, riempiono la cabina di proiezione o dagli ingranaggi del proiettore stesso, oltre che, appunto, dalle emozioni provate, ogni volta, dallo stesso Tony. Sono questi, probabilmente – grazie anche ad un montaggio che ben sa coniugare musica ed immagini – i momenti meglio riusciti di tutto il lungometraggio. Momenti in cui l’autore stesso ha voluto a proprio modo fare una sorta di dichiarazione d’amore alla Settima Arte. Eppure, The Movie of My Life, non funziona solo per questo.

La struttura circolare qui utilizzata, ad esempio, è un altro dei numerosi fattori che hanno fatto di questo lavoro di Mello un buon prodotto. Nel momento in cui, durante la scena finale, rivediamo i binari inquadrati all’inizio, abbiamo ben presente il concetto della ciclicità della vita (e delle tappe di crescita obbligate che ognuno di noi prima o poi vive in prima persona), che Mello ha voluto rappresentare. Quasi come se l’autore volesse, in qualche modo, “allontanarsi” dalla storia raccontataci, o meglio, quasi come se volesse osservarla con maggiore distacco, presentandocela come una storia universale, come la storia di ognuno di noi. La storia si ripete, ma, alla fin fine, tutto resta invariato. Tutto scorre, perfettamente in linea con la filosofia di Eraclito.

Tale cura nella messa in scena, dunque, fa sì che le (non poche) incongruenze all’interno dello script abbiano meno importanza di quanta non ne avrebbero in diverse occasioni. Sta bene, però. Non è sempre facile trasporre un intero romanzo in poco meno di due ore di film. Ma, volendo citare il buon Woody Allen, “Basta che funzioni”!

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – L’INTRUSA di Leonardo Di Costanzo

covermd_home (2)TITOLO: L’INTRUSA; REGIA: Leonardo Di Costanzo; genere: drammatico; paese: Italia; anno: 2017; cast: Raffaella Giordano, Valentina Vannino, Martina Abbate; durata: 95′

Nelle sale italiane dal 28 settembre, L’intrusa è il secondo lungometraggio a soggetto diretto da Leonardo Di Costanzo e presentato alla Quinzaine des Réalisateurs durante l’ultima edizione del Festival di Cannes.

Giovanna è la fondatrice del centro “La Masseria” di Napoli, un luogo di ritrovo dove i bambini possono imparare a convivere gli uni con gli altri e possono stimolare la loro creatività, restando, dunque, alla larga dalla malavita locale. Un giorno giunge al centro Maria, giovane moglie di un camorrista ricercato per un efferato omicidio. La donna chiederà a Giovanna di essere ospitata presso il centro insieme ai suoi due bambini. La sua presenza, però, causerà non pochi problemi all’interno del centro stesso.

Dopo il successo di L’intervallo – prima opera di finzione di Di Costanzo, presentata nel 2012 alla Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti – di certo il nuovo lungometraggio del giovane autore partenopeo è stato uno dei titoli più attesi dalla critica nostrana. E, di fatto, sebbene con meno mordente rispetto al precedente lavoro, L’intrusa si è rivelato un’ulteriore conferma del talento e della straordinaria sensibilità di Di Costanzo nel raccontare una Napoli fortemente segnata dalla malavita, senza scadere in banali luoghi comuni o in qualcosa di già visto.

Perché, di fatto, il cinema di Di Costanzo ci racconta piccole realtà racchiuse quasi in un mondo a sé, non immuni, però, da “contaminazioni” esterne. E le locations, vero marchio di fabbrica della cinematografia del regista, giocano, dunque, un ruolo fondamentale: le storie messe in scena sembrano svolgersi in delle specie di non-luoghi, o meglio, di luoghi isolati dal mondo, dove in pochi sembrano essere ammessi. È stato così con L’intervallo, dove abbiamo visto una ragazzina tenuta in ostaggio da un coetaneo in una vecchia casa abbandonata immersa nel verde, ed è così anche in L’intrusa, dove il centro fondato dalla protagonista sembra quasi una sorta di “isola felice”, dove i bambini possono ancora giocare all’aria aperta e sentirsi liberi.

Particolarmente interessante è il personaggio di Giovanna, protagonista del lungometraggio. Il suo conflitto interiore dovuto alla presenza di Maria viene ben messo in scena dall’occhio attento del regista. Eppure, purtroppo, lo stesso non si può dire per quanto riguarda il personaggio della stessa Maria, nei confronti del quale il regista sembra troppo distaccato, troppo poco empatico.

Detto questo, il lavoro realizzato è comunque un fiore all’occhiello della cinematografia italiana contemporanea, la quale, in questo 2017, ci ha comunque regalato piacevoli sorprese (basti pensare, ad esempio, a titoli come A Ciambra di Jonas Carpignano, Sicilian Ghost Story di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza o anche a L’equilibrio di Vincenzo Marra, giusto per fare alcuni nomi).

Non ci resta che aspettare, a questo punto, un nuovo lavoro di Di Costanzo, per vedere come si evolverà il suo modo di fare cinema. Quasi sicuramente non ne resteremo delusi. E poi, diciamolo pure, quanto è suggestiva la scena finale in cui vediamo i bambini ospiti del centro far fare una sfilata a Mr Johns, un pupazzo da loro costruito assemblando parti di vecchie biciclette?

VOTO: 7/10

Marina Pavido

VENEZIA 74 – MARVIN di Anne Fontaine

0Y1A8539TITOLO: MARVIN; REGIA: Anne Fontaine; genere: drammatico; paese: Francia; anno: 2017; cast: Finnegan Oldfield, Jules Porier, Isabelle Huppert; durata: 115′

Presentato in concorso nella sezione Orizzonti alla 74° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, Marvin è l’ultimo lavoro della regista lussemburghese, ma francese di adozione, Anne Fontaine.

La storia raccontata è quella del giovane Marvin Bijoux, il quale abita con la sua famiglia in un paesino di provincia e, maltrattato dai compagni di classe che già sospettano la sua omosessualità, riesce ad accettarsi e a ritrovare sé stesso soltanto dopo aver iniziato un corso di teatro, spinto da un’illuminata insegnante. Una volta finite le scuole, il ragazzo continuerà a dedicarsi al teatro ed assumerà il nome d’arte di Martin Clément.

Due nomi, due vite diverse, la stessa persona. E, pertanto, seguendo passo passo il protagonista, la regista Anne Fontaine ha deciso di sviluppare il film stesso su due livelli: da un lato vediamo il bambino – Marvin, interpretato dall’enfant prodige Jules Porier – e tutte le difficoltà legate alla sua età; dall’altro vediamo il ragazzo – diventato nel frattempo Martin – ormai consapevole di sé stesso che, nel rielaborare i suoi difficili anni passati, si accinge a scrivere la sua prima pièce teatrale.

La soluzione adottata, seppur non semplicissima da portare avanti, inizialmente pare funzionare: le due storie scorrono e si sviluppano in parallelo senza particolari intoppi, riuscendo ad incastrarsi alla perfezione l’una con l’altra e sviluppando entrambi i personaggi – Marvin e Martin – in modo soddisfacente, evitando ogni pericoloso cliché. Fino ad arrivare al momento in cui Martin riesce finalmente a riconciliarsi con il proprio padre. Se il lungometraggio fosse finito qui, sarebbe stato un prodotto di tutto rispetto. E invece no, la storia viene tirata per le lunghe fino allo stremo, senza una reale necessità, facendo sì che tutto il lavoro perda di mordente. Peccato, soprattutto perché, in genere, una regista come Anne Fontaine è sempre riuscita a mettere in scena in modo decisamente dignitoso situazioni non facili da sviluppare (basti anche solo pensare all’interessante Agnus Dei, probabilmente uno dei suoi lavori migliori). Eppure, qui, a quanto pare, ha voluto strafare. Che sia proprio Venezia a fare questo effetto ai registi? A giudicare da molti altri autori che, nel contesto lidense, pare siano affetti da pericolosa megalomania, pare proprio di sì.

Cosa portiamo, dunque, a casa, dopo la visione di Marvin? Di sicuro, la suggestiva immagine del teatro – e dell’arte, in generale – come strumento salvifico, unica ancora di salvezza in un mondo dove se non si è tutti uguali, si viene inevitabilmente tagliati fuori. Di notevole impatto anche la scena in cui il giovane Marvin viene accompagnato da suo padre in stazione, al fine di trasferirsi in un’altra città per proseguire gli studi: emozionante il momento in cui il ragazzino, sorridente per le goffe dimostrazioni di affetto del rude genitore, non si accorge che quest’ultimo lo sta ancora guardando prima che il treno si metta in moto. Non basta questo, però, a salvare un intero lavoro. Nemmeno lo pseudo-cameo di un’interprete del calibro di Isabelle Huppert, qui nel ruolo di sé stessa. Quest’ultima trovata, al contrario, risulta come una vera e propria forzatura.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – I FIGLI DELLA NOTTE di Andrea De Sica

I-figli-della-notte1TITOLO: I FIGLI DELLA NOTTE; REGIA: Andrea De Sica; genere: drammatico; paese: Italia; anno: 2016; cast: Vincenzo Crea, Ludovico Succio, Yuliia Sobol; durata: 85′

Nelle sale italiane dal 31 maggio, I figli della notte è l’opera prima di Andrea De Sica, già presentata in anteprima al Torino Film Festival e dedicata alla memoria di Manuel De Sica, padre del regista, scomparso nel 2014.

All’interno di uno scenario suggestivo come può essere il paesaggio alpino vi è un grande collegio per rampolli dell’alta società che hanno avuto problemi con la giustizia e che, qui “rinchiusi” vengono educati per diventare i “dirigenti del futuro”. Tra di loro c’è anche il diciassettenne Giulio, timido ed introverso che ben presto farà amicizia con l’intraprendente Edoardo. I due prenderanno ben presto l’abitudine di uscire di nascosto di notte per recarsi in un night club poco lontano. Ed è qui che Giulio incontrerà e si innamorerà della spogliarellista Elena.

Al di là della storia con riuscite venature del thriller e dell’horror, al di là della maestosa ambientazione, che tanto sta a ricordarci l’Overlook Hotel, al di là dell’ottima scelta degli interpreti e della scrittura priva di sbavature, questo primo lavoro del giovane De Sica colpisce innanzitutto per la straordinaria maturità e per l’ottima padronanza del mezzo cinematografico stesso.

La macchina da presa, secondo lo sguardo attento del regista, ci mostra il percorso di crescita di un adolescente che, da ragazzo bisognoso di affetto si trasforma pian piano in un adulto cinico e compassato. Senza edulcorazione alcuna. Il tutto, ovviamente, seguendo le regole del buon cinema di genere, con intensi primi piani, giochi di luci ed ombre, suggestive carrellate all’interno degli angusti corridoi del collegio (anche qui l’amore per Kubrick si è fatto sentire) ed un utilizzo della musica che sa dar vita a veri e propri picchi emotivi all’interno del lungometraggio. Di grande impatto, a tal proposito, la scena in cui il protagonista, aiutato da un suo compagno chiamato a minacciare i sorveglianti con una pistola cantando le note di Vivere, scappa dal collegio.

Ottantacinque minuti che scorrono via in un baleno, dunque. Che ci tengono fin da subito incollati allo schermo e che, al termine della visione, ci fanno chiedere quali altri interessanti prodotti Andrea De Sica avrà in serbo per il futuro.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – INFEDELMENTE TUA di Preston Sturges

REX HARRISONTITOLO: INFEDELMENTE TUA; REGIA: Preston Sturges; genere: commedia; anno: 1948; paese: USA; cast: Rex Harrison, Linda Darnell; durata: 100′

Nelle sale italiane dal 30 marzo, ecco in versione restaurata – distribuito grazie a Lab80 ed al progetto Happy returns! che vede rimasterizzati in versione digitale alcuni grandi film del passato – Infedelmente tua, classico intramontabile firmato Preston Sturges.

Sir Alfred De Carter è un acclamato direttore d’orchestra, felicemente sposato con la dolce Daphne. Un giorno, però, poco dopo essere tornato da un lungo viaggio, l’uomo verrà a conoscenza tramite suo cognato del fatto che, molto probabilmente, sua moglie lo tradisce con il giovane segretario. Al via, da questo punto, una serie di equivoci e situazioni al limite del paradossale.

unfaithfullyyoursAnalogamente alle sinfonie di Rossini, di Wagner, di Haendel dirette da sir Alfred, ecco che i sentimenti del protagonista vengono messi in scena sul grande schermo assumendo, di volta in volta, toni e colori diversi. Il tutto seguendo una struttura ben delineata, in cui realtà e proiezioni mentali si alternano secondo uno schema predefinito e mantenendo un ritmo in costante crescendo per tutto il lungometraggio. Notevole, a tal proposito, la scena in cui Alfred tenta in modo alquanto maldestro di mettere in atto la propria vendetta. Notevole e, proprio perché priva di dialoghi con il solo protagonista a muoversi in modo impacciato per casa, ottimo esempio di cinema allo stato puro con le sole immagini a portare avanti la narrazione.

Unfaithfully_Yours-4Pur essendo ricordato Sturges più per altri generi cinematografici (come dimenticare il cult del western I magnifici sette?), bisogna ammettere che anche nell’ambito della commedia il cineasta americano è riuscito a distinguersi in modo più che dignitoso, dando vita, in questo caso nello specifico, ad una pellicola frizzante ed ironica, a tratti addirittura esilarante, che – grazie anche alla mimica facciale di uno straordinario Rex Harrison – di certo può essere considerata una vera e propria perla della Hollywood degli anni d’oro.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

67° FESTIVALDI BERLINO – ACHT STUNDEN SIND KEIN TAG di Rainer Werner Fassbinder

media-title-acht_-5TITOLO: ACHT STUNDEN SIND KEIN TAG; REGIA: Rainer Werner Fassbinder; genere: serie televisiva, commedia; anno: 1972; paese: Germania Ovest; cast: Hanna Schygulla, Gottfried John, Luise Ullrich; durata: 478′

Presentata in versione restaurata e rimasterizzata alla 67° Berlinale, Acht STunden sind kein Tag è una serie televisiva girata nel 1972 dal grande Rainer Werner Fassbinder.

Cinque episodi per altrettante storie all’interno di una famiglia della media borghesia di Colonia. La nonna, un’amabile e brillante signora (Luise Ullrich), compie sessant’anni. A festeggiarla ci sono tutti: le due figlie, il marito di una di loro ed i nipoti. Jochen (Gottfried John), uno dei ragazzi, dopo aver incontrato per caso, vicino ad un distributore di bibite, la bella Marion (Hanna Schygulla), invita la ragazza alla festa a casa sua. Ed ecco, finalmente, iniziare le presentazioni. Da questo momento in poi – senza eufemismo alcuno – iniziamo noi stessi a far parte della famiglia a tutti gli effetti ed a voler letteralmente bene ad ogni singolo personaggio. Perché fin dai primi fotogrammi, Acht Stunden sind kein Tag ha il pregio di trasmettere quell’allegria, quella gioia di fondo che sarà caratteristica fondante di tutta la serie. Sullo sfondo, inoltre, la lotta operaia, uno dei temi portanti della cinematografia del regista bavarese.

In questo mondo sereno ed un po’ naïf, di fatto, quello che manca – ripensando, appunto, a gran parte della produzione di Fassbinder – è proprio quel pessimismo di fondo, quella sorta di male di vivere che porterà il cineasta di lì a pochi anni a togliersi la vita. Ed è proprio il tono di Acht Stunden sind kein Tag ad aver sollevato a suo tempo – nel 1972 – non poche critiche, soprattutto per quanto riguarda la sottotrama trattante i movimenti operai, considerati, all’epoca, come rappresentati in modo quasi irreale ed un po’ troppo semplicistico. Al punto di spingere Fassbinder stesso a fermarsi al quinto episodio. Eppure, ripensando alle scene più emozionanti di tutta la serie, non possiamo non ricordarne una ambientata proprio all’interno della fabbrica dove lavora Jochen, nel momento in cui gli operai decidono di firmare un foglio in cui chiedono al loro capo di riconoscergli alcuni diritti fondamentali: nessuno stacco di montaggio, un’unica carrellata in plongé che sta a simboleggiare, appunto, il forte legame tra i lavoratori e, infine, i volti sorridenti di tutto il gruppo. Il messaggio che Fassbinder ha voluto comunicarci è arrivato, così, indubbiamente forte e chiaro. Come, d’altronde, è sempre stato in tutte le sue produzioni.

Certo, a pensare che inizialmente ci fosse stata l’idea di girare più di cinque episodi, un po’ di rabbia viene eccome. Se non altro per il fatto che non ci si stancherebbe mai di questa sorta di favola fuori dal mondo. Così come non ci si stancherebbe mai di ascoltare e riascoltare l’allegro motivetto presente nella sigla di apertura e di chiusura di ogni singolo episodio, quando, con la fabbrica sullo sfondo, vediamo un timido sole sorgere lentamente sulla città di Colonia, dove le storie di Jochen, di Marion, di Monika, di Manfred, di Gregor e della mitica Oma, la nonna, stanno per intrattenerci per un’altra ora e mezzo che, come ogni volta, sembrerà durare appena poche decine di minuti.

VOTO: 9/10

Marina Pavido

67° FESTIVAL DI BERLINO – WILDE MAUS di Josef Hader

201712958_1_img_543x305TITOLO: WILDE MAUS; REGIA: Josef Hader; genere: commedia; anno: 2017; paese: Austria; cast: Josef Hader, Pia Hierzegger; durata: 103′

Presentato in concorso alla 67° edizione del festival di Berlino, Wilde Maus è l’ultimo lungometraggio scritto, diretto ed interpretato dal comico austriaco Josef Hader.

Ci troviamo a Vienna. Georg è uno stimato critico musicale che – considerato il suo modo di lavorare ormai obsoleto – viene ingiustamente licenziato. L’uomo, però, decide di non dire nulla alla propria moglie – già parecchio sotto pressione per il fatto di non riuscire a restare incinta – e tenta di avviare, insieme ad un vecchio conoscente incontrato per caso al Prater, la gestione di una giostra del parco divertimenti. Contemporaneamente, di notte, mette in atto delle piccole vendette nei confronti del suo ex capo, rigandogli la macchina o distruggendo le telecamere di sorveglianza sotto casa di quest’ultimo. Tale situazione di precario equilibrio, però, sembra non essere destinata a durare a lungo.

Che il lungometraggio di Hader si possa classificare a tutti gli effetti come una commedia nera lo si può intuire fin dai primi fotogrammi, quando vediamo il protagonista discutere concitatamente di musica con una giovane collega, per poi ritrovarsi immobile e basito di fronte al capo, inespressivo, che gli sta comunicando il proprio licenziamento. Ed ecco che, sulle note di Vivaldi, vediamo Georg – in campo lungo – attraversare a piedi un’enorme distesa di neve, per poi scavare una buca al centro di essa e sedercisi dentro. Cosa avrà mai in mente? Lo scopriremo, ovviamente, in seguito. Fatto sta che, da questo momento in poi, una serie di gag spesso e volentieri anche politically scorrect faranno da cornice ad una storia che – sia dal punto di vista dello script in sé che dal punto di vista registico – sembra ben funzionare sul grande schermo. I tempi comici azzeccati ed un’indovinata direzione attoriale – che prevede personaggi quasi statici ed apparentemente inespressivi – uniti ad una regia fatta sovente di camera fissa e di primissimi piani, stanno a mettere in scena sì un dramma personale, ma soprattutto, una (non troppo) velata critica alla società ed al mondo del lavoro, dove il detto “mors tua, vita mea” mai è stato così azzeccato. Basti pensare, di fatto, al capo di Georg che ha rovinato la carriera di quest’ultimo, mentre lo stesso Georg, a sua volta, si scopre aver stroncato la carriera di un giovane aspirante musicista, costretto a lavorare ad una tavola calda giapponese. Sullo sfondo una Vienna in questo caso poco valorizzata, se non durante i tramonti visti dall’alto di una delle giostre del Prater, che – spesso cupa e piovosa – fa da spettatrice silente alle disavventure del nostro protagonista.

Una commedia che spara a zero proprio su tutto e su tutti, in pratica. Persino su noi italiani (che novità, eh?), quando l’amico del protagonista definisce scherzosamente (ma non troppo) l’Italia come “il culo del mondo”. Una commedia che somiglia sì a molte altre commedie di produzione austriaca o tedesca, ma che risulta decisamente ben confezionata, nel suo piccolo e nella sua (apparente) semplicità.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – MISTER FELICITA’ di Alessandro Siani

1483002320-sianiTITOLO: MISTER FELICITÀ; REGIA: Alessandro Siani; genere: commedia; anno: 2016; paese: Italia; cast: Alessandro Siani, Diego Abatantuono, Carla Signoris; durata: 93′

Nelle sale italiane dal 1° gennaio, Mister Felicità è l’ultimo lungometraggio diretto ed interpretato dal comico partenopeo Alessandro Siani.

La situazione iniziale da cui prende il via tutta la vicenda è assai semplice: Martino è un giovane disoccupato napoletano che, dopo essere stato licenziato in seguito alla chiusura dell’azienda per la quale lavorava, si trasferisce in Svizzera a casa di sua sorella Caterina, la quale lavora come donna delle pulizie presso lo studio del Dottor Gioia, mental coach di successo. In seguito ad un incidente d’auto, però, Caterina resta con una gamba di tre centimetri più corta dell’altra. Per correggere tale difetto serviranno ventimila euro e, di conseguenza, a Martino non resterà che farsi assumere dal Dottor Gioia al posto di sua sorella. L’occasione per un’importante svolta economica si presenterà nel momento in cui il ragazzo avrà la possibilità di sostituirsi al proprio capo per far tornare la voglia di mettersi in gioco ad una giovane campionessa di pattinaggio sul ghiaccio, caduta in depressione dopo essere scivolata durante un’esibizione. Il resto lo si può facilmente intuire.

mister9-1000x600Eppure, tutto sommato, al di là della prevedibilità della storia in sé, questo ultimo lavoro di Siani ha dalla sua il fatto di presentarsi proprio per quello che è: una semplice commedia, con sporadici momenti riusciti al suo interno, senza troppe pretese. E, osservato da questo punto di vista, fa quasi tenerezza. Il problema è che, di fatto, vi sono non poche imperfezioni al suo interno, sia dal punto di vista contenutistico che dal punto di vista stilistico. Ma andiamo per gradi.

In primo luogo, vediamo il conflitto iniziale – ossia la necessità di un intervento chirurgico di fronte a serie ristrettezze economiche – sparire magicamente nel nulla dopo pochi minuti. Sì, avete letto bene. Succede proprio così: dopo che Martino viene assunto da Gioia, ecco che nessuno sembra più porsi il problema della costosa operazione alla gamba di Caterina. Paradossalmente neanche la stessa Caterina, la quale, a sua volta, sembra semplicemente contenta di spassarsela con un impacciato fisioterapista. Tutto ciò fa pensare, di fatto, ad una grave disattenzione nel momento della stesura di una sceneggiatura già di per sé parecchio deboluccia.

mister-felicita-recensione-del-film-alessandro-siani-recensione-v6-31992-1280x16Un altro grande problema di Mister Felicità è rappresentato, inoltre, anche dalle numerose forzature create al fine di dar vita a pseudo-gag prevedibili, di dubbio gusto (come, ad esempio, la raffica di noci presso una festa di ricchi a cui Martino viene invitato insieme alla sua amica pattinatrice o il maldestro tentativo di Siani&co di introdursi all’interno di un pronto soccorso attraverso una finestra) e, soprattutto, delle quali, in generale, poco ci importa. Uno dei pochi momenti comici ben riuscito si svolge all’interno del bagno di un autogrill, quando vediamo un imbranato Martino improvvisare una sorta di “danza”, al fine di far funzionare almeno uno dei quattro lavandini automatici presenti: forti e chiari sono i rimandi alle slapstick comedies, in una scena che tutto sommato funziona bene e fa sorridere.

Circa le possibili risposte da parte del pubblico ad un film come Mister Felicità, si possono fare mille ipotesi: avranno ancora lo stesso successo di qualche anno fa film del genere, di cui esistono, ormai, infinite copie oppure anche il pubblico ha voglia di qualcosa di diverso? Solo il tempo saprà darci una risposta in merito. Circa il destino della gamba della povera Caterina, invece, non ci è dato nulla da sapere.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

11° FESTA DEL CINEMA DI ROMA – FRITZ LANG di Gordian Maugg

c-belle-epoque-fotograf-tim-fulda-%ef%80%a2-fritz-lang-hTITOLO: FRITZ LANG; REGIA: Gordian Maugg; genere: drammatico, biografico; anno: 2016; paese: Germania; cast: Heino Ferch, Thomas Thieme, Samuel Finzi; durata: 104′

Presentato in anteprima – all’interno della Selezione Ufficiale – all’11° Festa del Cinema di Roma, Fritz Lang, diretto dal regista tedesco Gordian Maugg, è incentrato sul periodo antecedente la lavorazione di uno dei più grandi capolavori del regista, nonché colonna portante del cinema espressionista: M – Il mostro di Düsseldorf.

Un pericoloso serial killer viene, finalmente, arrestato. Il regista Fritz Lang è inizialmente curioso di capire cosa abbia spinto l’uomo a commettere tutti quei delitti. In seguito ad alcuni loro incontri, però, inizierà anche a ripensare al suo passato e, in qualche modo, riuscirà a trovare non pochi punti in comune con l’uomo stesso. Dalle loro conversazioni prenderà vita, successivamente, la sceneggiatura di M – Il mostro di Düsseldorf.

Quali sono le sensazioni che si hanno durante e dopo la visione di Fritz Lang? Dunque, ripercorrendo velocemente con la mente le varie tappe della messa in scena, dovrebbero essere nell’ordine: incredulità, rabbia, sconforto, ilarità, rassegnazione, sonno e di nuovo rabbia. Ecco, il lungometraggio di Maugg trasmette proprio questo. E non perché la storia raccontata sia talmente coinvolgente da farci vivere così tante emozioni. Al contrario, chiunque abbia avuto l’occasione di innamorarsi del cinema di Lang, ha qui l’impressione di trovarsi di fronte ad una vera e propria profanazione. Soprattutto se ci si accorge della furbizia con cui una simile operazione è stata portata a termine, dal momento che un biopic su una figura di tale portata di certo andrà ad attirare un buon numero di spettatori, cinefili e non.

Prima ancora di vedere qualsiasi immagine, ma limitandosi soltanto ad ascoltare – fissando lo schermo nero – il motivetto fischiettato continuamente da Peter Lorre in M, le speranze di assistere ad un lavoro come si deve sono ancora in piedi. Bastano pochi minuti, però, per rendersi conto di avere davanti un prodotto altamente manierista e pretenzioso, le cui scene di maggiore potenza sono proprio filmati di repertorio o spezzoni del film originale di Lang montati sulla paccottiglia piatta e dai ritmi discontinui girata da Maugg. Facile così. Soprattutto quando si vuol creare un finale d’effetto con Peter Lorre che recita il suo monologo durante l’ultima sequenza di M. Come già detto, però, al di là della riuscita messa in scena da un punto di vista prettamente tecnico, quel che maggiormente rende Fritz Lang un lungometraggio urticante è la grande presunzione alla base di tutto.

Partendo dal presupposto che cercare di comprendere una figura complessa come quella di Lang – soprattutto se la si osserva in luce di alcuni avvenimenti di natura oscura (primo fra tutti, il suicidio della giovane moglie)accaduti durante la gioventù – non è compito facile, nel caso in cui si volesse approfondire un particolare momento della vita del regista, ci sarebbe talmente tanto da raccontare che, al di là della forma di messa in scena preferita, di certo potrebbe venirne fuori qualcosa di interessante. Ecco, a quanto pare Gordian Maugg – probabilmente talmente ansioso di creare a tutti i costi qualcosa di “rivoluzionario” – è riuscito in tutto e per tutto a dare vita a quanto di peggio si possa produrre. Il Fritz Lang qui raccontato è un violento, cocainomane e maniaco del sesso. Sembra ossessionato da qualsiasi cosa, fatta eccezione per il cinema stesso, a cui non viene fatto il benché minimo riferimento durante tutto il lungometraggio. Il suo personaggio viene talmente caricato da essere trattato involontariamente – a un certo punto – quasi alla stregua di una macchietta e perdendo totalmente di credibilità. Da ricordare – a questo proposito – la vera e propria scena madre del film, ossia quando vediamo Lang camminare da solo nel bosco e, di punto in bianco, prendere a sparare in aria all’impazzata. A questo punto, al pubblico – già fortemente provato da oltre un’ora di visione – non resta che lasciarsi andare – più per inerzia che per altro – a qualche stanca risata.

Tanto rumore per nulla, in pratica. Eppure, anche volendosi solo soffermare sul periodo antecedente la lavorazione di M, ci sarebbe talmente tanto da raccontare che i 104 minuti qui impiegati sarebbero fin troppo pochi. Basti pensare soltanto alle tematiche del film stesso, alla forte critica nei confronti della società, alla denuncia di quel “nazismo latente” che avrebbe visto, da lì a pochi anni, la nascita della dittatura vera e propria. Invece no. Gordian Maugg non racconta nulla di tutto ciò, impegnato com’è a dare vita a tutti i costi ad un Fritz Lang disturbato e disturbante come quello presentatoci in questa sua opera. E pensare che, anche solo volendosi concentrare sull’uomo piuttosto che sul cineasta, un bel documentario in merito, ad esempio, avrebbe avuto di sicuro una migliore riuscita. Ma, si sa, la presunzione, spesso e volentieri, gioca dei gran brutti scherzi.

VOTO: 3/10

Marina Pavido