LA RECENSIONE – BOHEMIAN RHAPSODY di Bryan Singer

Bohemian-Rhapsody-film-3763-600x347TITOLO: BOHEMIAN RHAPSODY; REGIA: Bryan Singer; genere: biografico; paese: USA; anno: 2018; cast: Rami Malek, Ben Hardy, Gwilym Lee; durata: 134′

Nelle sale italiane dal 29 novembre, Bohemian Rhapsody è l’ultimo, attesissimo lavoro del regista Bryan Singer, nonché biopic del compianto Freddie Mercury, leader del gruppo musicale The Queen.

Il presente lavoro – prodotto da Brian May – segue per quindici anni la nota rock band inglese, dalla sua formazione nel 1970, fino al celebre Live Aid Concert del 1985, concentrando la sua attenzione proprio sulla figura di Mercury, impersonato per l’occasione dal giovane Rami Malek, il quale, oltre ad aver ottenuto una straordinaria somiglianza fisica con il cantante – con un trucco importante che non risulta mai posticcio né eccessivamente artefatto – ha esercitato un lungo e difficile lavoro su sé stesso, al fine di rendere al meglio sul grande schermo il suo impegnativo personaggio.

Cercando di evitare ogni pericolosa retorica, tipica dei biopic, Bohemian Rhapsody si apre con una bella carrellata a seguire che vede Mercury, rigorosamente di spalle, nel momento in cui, dopo essersi svegliato in casa sua, circondato dai numerosi gatti, si accinge a salire sul palco davanti al quale un’enorme folla di fan adoranti lo aspetta. Nel frattempo, la musica dei Queen fa il resto, oltre a un minuziosissimo lavoro di ricostruzione – inquadratura per inquadratura – di tutti i filmati riguardanti lo storico gruppo.

La peculiarità di un lungometraggio come il presente è, di fatto, quella di concentrarsi quasi esclusivamente sulla musica prodotta dal gruppo (memorabile, a tal proposito, la sequenza che ci mostra i quattro intenti a registrare in studio proprio la coraggiosa e sperimentale Bohemian Rhapsody), senza soffermarsi eccessivamente – ma, allo stesso tempo, trattando il tutto in modo adeguato – sulle vicende private dello stesso Mercury, dalla sua relazione con Mary Austin, alla scoperta della propria omosessualità, fino alla malattia.

Forte – come già è stato scritto – di una musica vincente, il presente lungometraggio vanta, accanto a una regia a tratti eccessivamente virtuosistica, un montaggio studiato fin nei minimi dettagli. il risultato finale è un prodotto decisamente coinvolgente, tra le più fedeli rappresentazioni di una delle icone della musica rock anni Settanta e Ottanta.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

VENEZIA 75 – AT ETERNITY’S GATE di Julian Schnabel

eternitygTITOLO: AT ETERNITY’S GATE; REGIA: Julian Schnabel; genere: biografico; paese: USA; anno: 2018; cast: Willem Dafoe, Rupert Friend, Oscar Isaac; durata: 110′

Presentato in anteprima – e in corsa per il Leone d’Oro – alla 75° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, At Eternity’s Gate è l’ultimo di una lunga serie di biopic sulla vita del celebre pittore olandese Vincent Van Gogh, firmato Julian Schnabel.

Partendo dal momento in cui l’artista ha stretto la sua forte amicizia con il collega Paul Gauguin, At Eternity’s Gate ci mostra un Van Gogh sofferente, incompreso, che vive un eterno conflitto interiore e che riesce a sentirsi sé stesso solo nel momento in cui si trova da solo, immerso nella natura più incontaminata, e si accinge a dipingere un altro dei suoi quadri.

Inutile dire che – data anche la parallela carriera da pittore dello stesso Julian Schnabel – il presente lungometraggio (probabilmente una delle opere più personali e necessarie per l’autore stesso insieme a Basquiat, del 1996) vanta una cura dell’immagine e della fotografia come poche volte capita di vedere sul grande schermo. I dipinti di Vincent Van Gogh vengono, così, ricreati da una macchina da presa che, tuttavia, risulta essere a tratti troppo traballante. Ingiustificatamente traballante. Facendo, sovente, perdere di impatto visivo alle sopracitate immagini, ma soffermandosi sapientemente su un primissimo piano del protagonista che in tutto e per tutto sta a ricordarci il suo stesso Autoritratto con orecchio bendato (datato 1889).

Non ha paura dei silenzi, Julian Schnabel. Non li teme e, al contrario, tende a esasperarli fino all’estremo, fino al massimo del consentito, accompagnando le immagini di un Van Gogh in estasi nella natura, solo con un misurato commento musicale firmato Tatiana Lisovskaya, al fine di far sì che lo spettatore stesso diventi parte di quell’estasi quasi mistica vissuta dal protagonista. Ma, in fin dei conti, è davvero necessaria una messa in scena così estrema? O tali scelte registiche denotano soltanto una pericolosa mancanza di idee da parte del regista stesso?

Malgrado le suggestive immagini, malgrado i buoni intenti da parte dell’autore, At Eternity’s Gate risulta, alla fine, un’opera che non riesce a esprimere fino in fondo tutto il proprio potenziale. Come se, negli scorsi anni, tutto fosse già stato detto in merito. L’immagine che si ha, dunque, è quella di un regista non del tutto a proprio agio, che non sa come concludere un discorso ormai aperto e che, di fronte a un tema sì importante, si sente alquanto spaesato. Peccato. Perché, di fatto, di spunti interessanti (soprattutto dal punto di vista estetico) ce n’erano eccome.

Lungometraggio ingenuo e maldestro, At Eternity’s Gate vanta, tuttavia, una straordinaria prova attoriale da parte del sempre ottimo Willem Dafoe, nel ruolo del protagonista. Sarà Coppa Volpi?

VOTO: 6/10

Marina Pavido

 

VENEZIA 75 – FIRST MAN di Damien Chazelle

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TITOLO: FIRST MAN; REGIA: Damien Chazelle; genere: biografico; paese: USA; anno: 2018; cast: Ryan Gosling, Claire Foy, Corey Stoll; durata: 135′

Presentato in concorso – e come film d’apertura – alla 75° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, First Man è l’ultimo lungometraggio del giovane e acclamato cineasta statunitense Damien Chazelle.

La storia qui messa in scena è quella dell’astronauta Neil Armstrong, uomo segnato da un grave lutto famigliare (la figlioletta è morta prematuramente), ma che, nonostante tutto, è riuscito a coronare un sogno e ad essere il primo uomo ad atterrare sulla Luna.

Tema interessante, dunque, questo scelto da Chazelle, il quale, reduce dal successo planetario del suo La La Land (che già aveva aperto il concorso veneziano nel 2016), ha certamente sentito il forte peso della responsabilità di non deludere le aspettative dei suoi estimatori. Il giovane autore, dunque, ha deciso di dare alla vita dell’astronauta un taglio del tutto personale, evitando ogni pericolosa retorica, tipica della maggior parte dei biopic. Ed ecco che, di punto in bianco, viene abbandonata (quasi) del tutto quell’estetica ricercata e patinatissima di La La Land, per lasciare spazio unicamente al protagonista e alle numerose e intense emozioni da lui vissute. Al via, dunque, primi e primissimi piani, dettagli di oggetti che ricordano un passato (non troppo) lontano e giochi di sguardi che ben sanno delineare i personaggi qui presentatici. A tal proposito, particolarmente degna di nota è l’interpretazione di Ryan Gosling, la quale potrebbe anche lasciar prevedere più di un premio importante.

Tali momenti intimisti, tuttavia, ben si amalgamano con scene adrenaliniche riguardanti lanci di astronavi, atterraggi mozzafiato e, non per ultimo, la stessa scena in cui vediamo il protagonista sbarcare sulla Luna. Momenti fortemente d’effetto, che, grazie anche al supporto di un valido – e mai invasivo – commento musicale, riescono a conferire all’intero lungometraggio un carattere del tutto personale.

Non mancano numerose citazioni, in questo ultimo lavoro di Chazelle. Ma d’altronde, si sa, nel momento in cui si mettono in scena scene nello spazio, anche solo un oggetto che fluttua nel vuoto non può non far pensare al glorioso 2001 – Odissea nello Spazio, del maestro Stanley Kubrick. Diamo a Cesare quel che è di Cesare!

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – DON’T WORRY. HE WON’T GET FAR ON FOOT di Gus van Sant

dont-worry-he-wont-get-far-on-footTITOLO: DON’T WORRY. HE WON’T GET FAR ON FOOT; REGIA: Gus van Sant; genere: biografico; paese: USA; anno: 2018; cast: Joaquin Phoenix, Jonah Hill, Rooney Mara; durata: 113′

Presentato in concorso alla 68° edizione del Festival di Berlino, Don’t worry. He won’t get far on Foot è l’ultimo lungometraggio del regista statunitense Gus van Sant, basato sulle memorie del disegnatore John Callahan, scomparso nel 2010 e amico dello stesso van Sant.

Calcando fedelmente lo schema del biopic, ma, allo stesso tempo, riuscendo ad evitare pericolosi clichés e manierismi tipici di molti lungometraggi del genere, van Sant, dopo averci mostrato John Callahan – magistralmente interpretato da Joaquin Phoenix – nell’intento di tenere un discorso di fronte ad una platea gremita di gente, dà il via ad un lungo flashback in cui vediamo il fumettista alle prese con problemi di alcool, assiduo frequentatore di feste, solito condurre una vita allo sbando e che fa fatica ad accettare il fatto di essere stato abbandonato da sua madre quando era ancora un bambino. La sua vita cambierà di punto in bianco, la sera in cui, in seguito ad un incidente automobilistico, l’uomo perderà l’uso delle gambe. Sarà grazie alla frequentazione di una comunità di ex alcolisti e all’amore per la bella Annu, tuttavia, che John troverà il coraggio di andare avanti e scoprirà il suo grande talento di disegnatore.

Non è un film perfetto, questo di Gus van Sant. Non è perfetto, ma è anche vero che, se prima abbiamo affermato che già realizzare di per sé un biopic può essere rischioso, bisogna considerare che lo è ancor di più raccontare la vita e le gesta di chi – come nel caso di Callahan – è diversamente abile o soffre di malattie di qualsiasi genere. E, fortunatamente, visto che van Sant, al di là del gusto personale, fino a prova contraria, col mezzo cinematografico ci sa fare, questo suo lavoro risulta tutto sommato un prodotto onesto, pulito, che – fatta eccezione per una certa retorica che prevede, ad esempio, un commento musicale eccessivamente invasivo, soprattutto per quanto riguarda i momenti finali – procede per circa due ore senza rilevanti intoppi e ci regala un ritratto fedele e sincero del giovane disegnatore recentemente scomparso. Non ci è dato vedere la tormentata infanzia del protagonista. Non vediamo la sua morte prematura, né quella del suo più caro amico. Per tutta la durata del lungometraggio, il regista si concentra quasi esclusivamente sull’interiorità di Callahan, sul suo percorso di crescita emotiva e, non per ultima, sulla sua arte. Particolarmente interessanti, a tal proposito, le divertenti animazioni di alcune vignette originali che, di quando in quando, vanno ad intervallarsi al racconto stesso.

Ciò che, registicamente parlando, meno convince di un prodotto come Don’t worry. He won’t get far on Foot è, probabilmente, la scena in cui Callahan vede, o crede di vedere, una sorta di “fantasma” della propria madre, la quale lo esorta ad andare avanti ed a lasciarsi il passato alle spalle. Analogamente, ci sembra del tutto fuori luogo una macchina da presa che tende eccessivamente ad indugiare su primi piani dei personaggi, dandoci involontariamente, di quando in quando, un’idea di ciò che sta per accadere totalmente diversa da ciò che successivamente realmente accade. È il caso, questo, ad esempio, del momento in cui vediamo il protagonista salutare la fidanzata appena salita in macchina: il soffermarsi della telecamera sul volto di lei sta quasi a dare l’impressione che stia per accadere qualcosa di tragico. Cosa, questa, neanche lontanamente contemplata.

Con un lavoro come questo presentato alla Berlinale, van Sant continua a coltivare il suo lato prettamente hollywoodiano. Quello che lo ha visto realizzare film del calibro di Will Hunting – Genio ribelle, Milk o Scoprendo Forrester, per intenderci. Ed anche se i film sopracitati hanno avuto una riuscita di gran lunga migliore del presente lungometraggio o anche se, probabilmente, in molti preferiscono di gran lunga il lato maggiormente indie dello stesso van Sant, bisogna riconoscere che, soprattutto per il fatto che Don’t worry. He won’t get far on Foot sia un’opera così intimamente sentita dallo stesso autore, all’interno dell’ottima selezione della 68° Berlinale riesce a trovare una sua collocazione più che dignitosa. Cosa, questa, certamente non da poco.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

35° TORINO FILM FESTIVAL -THE DISASTER ARTIST di James Franco

the-disaster-artist-f72066TITOLO: THE DISASTER ARTIST; REGIA: James Franco; genere: commedia; paese: USA; anno: 2017; cast: James Franco, Dave Franco, Seth Rogen; durata: 98′

Presentato in anteprima alla 35° edizione del Torino Film Festival, The disaster artist è l’ultimo lungometraggio dell’attore e regista James Franco, incentrato sulla figura di Tommy Wiseau, autore del lungometraggio trash e, a suo modo, cult The Room.

Il biopic segue passo passo le avventure del nostro Wiseau, dalla nascita del sodalizio artistico con Greg Sestero, fino alla sera della prima di The Room.

Data la portata del tema trattato, ovviamente viene da chiedersi se un autore come il prolifico James Franco – encomiabile come interprete, ma che, pur essendo un cineasta indubbiamente valido, non sempre ha convinto con le sue prove dietro la macchina da presa – sia in grado di rendere sul grande schermo il forte impatto che un personaggio come Wiseau ha avuto sul pubblico e, soprattutto, la vera essenza di un lungometraggio come The Room. Fortunatamente, il giovane attore statunitense, si è rivelato all’unanimità forse la persona più adatta a raccontare le vicende di Wiseau, non solo per l’impeccabile messa in scena – che denota un lavoro minuzioso nel ricostruire sia la storia del regista che lo stesso The Room, con scene appositamente girate per l’occasione – ma anche per la straordinaria interpretazione di Tommy Wiseau, che lo ha reso irriconoscibile sia nel look – al pari, quasi, del personaggio da lui interpretato in Spring Breakers di Harmony Korine (2012) – sia nelle movenze e, soprattutto nel riprodurre il suo bizzarro accento.

Il risultato finale è un giocattolone pulito nella realizzazione e spassosissimo, che, tuttavia, mette in scena soprattutto la fragilità degli artisti “falliti”, se così si può dire, e, nello specifico, ci regala un ritratto quasi inedito di Wiseau, personaggio molto più indifeso di quanto possa inizialmente sembrare che dietro una confezione a dir poco spettacolare del suo film, mal cela, in realtà, un forte bisogno di amore e di attenzione che non è mai riuscito ad avere altrimenti. Ed ecco che James Franco ci regala finalmente uno dei suoi lavori da regista più convincenti, che, dietro una risata, ci mostra quanto è difficile essere artisti se non si possiede il talento e che, allo stesso tempo, si pone in modo onestamente reverenziale nei confronti di un’opera che, nel bene o nel male, è comunque riuscita a suo modo a passare alla storia.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

19° FAR EAST FILM FESTIVAL – SATOSHI: A MOVE FOR TOMORROW di Mori Yoshitaka

AS20160524001110_commTITOLO: SATOSHI: A MOVE FOR TOMORROW; REGIA: Mori Yoshitaka; genere: biografico, drammatico; anno: 2016; paese: Giappone; cast: Kenichi Matsuyama; durata: 124′

Presentato in anteprima alla 19° edizione del Far East Film Festival, Satoshi: a move for tomorrow è l’ultimo lungometraggio diretto da Mori Yoshitaka, biopic sulla vita del celebre giocatore di shogi – una variante giapponese degli scacchi – Satoshi Murayama, morto nel 1998 a soli 29 anni.

Il giovane Satoshi è da sempre cagionevole di salute: i suoi reni non hanno mai funzionato come si deve e fin da bambino è costretto a sottoporsi a pesanti cure. Il suo stato di salute ed il fatto di dover trascorrere molte giornate a letto, però, faranno nascere in lui la passione per lo shogi. Una passione talmente forte da farlo diventare, a soli ventiquattro anni, un grande campione, il cui principale obiettivo sarà battere il freddo e calcolatore Habu, il suo più temuto avversario.

Indubbiamente una figura come quella di Satoshi Murayama può far gola a parecchi cineasti. Il difficile, poi, viene nel momento in cui – nel raccontare la sua breve vita – bisogna evitare ogni pericoloso, ma rischioso cliché. A tal proposito, però, bisogna ammettere che Mori Yoshitaka è stato in grado di dar vita ad un lungometraggio più che dignitoso, senza particolari sbavature e che – nell’ambito di una messa in scena di impronta quasi occidentale – ha saputo rendere giustizia al gioco dello shogi stesso ed a tutti i relativi rituali. Ed ecco che plongés inquadranti il tavolo da gioco, dettagli sulle mani dei personaggi che muovono le pedine ed i rumori delle stesse che vengono spostate sul tavolo – secchi, pieni, che regalano quasi un senso di profonda soddisfazione – diventano i grandi protagonisti dei momenti in cui Satoshi è intento a sfidare i suoi avversari. Momenti di puro cinema in cui la parola lascia esclusivamente lo spazio alle immagini. Tutto il resto è superfluo. Ed ecco che la tensione dei giocatori diventa anche la nostra tensione, quasi come se anche noi stessimo prendendo parte al gioco.

Il Satoshi di Mori Yoshitaka – interpretato dal bravo Kenichi Matsuyama, che per l’occasione è dovuto ingrassare di ben venticinque chili – è, dal canto suo, un ragazzone timido e trasandato, appassionato di graphic novels e completamente dedito al gioco dello shogi, per il quale arriverà anche a trascurare la propria salute. Un ragazzo a cui è impossibile non voler bene, molto amato dalla propria famiglia e dagli amici e che coltiva il sogno nel cassetto di potersi, in un futuro che, come egli stesso sa bene, non arriverà mai, sposare ed innamorare. Di sicuro, un personaggio che non si dimentica facilmente e che fa sì che Satoshi: a move for tomorrow possa quasi considerarsi il film di Kenichi Matsuyama, data, appunto, la sua straordinaria prova d’attore.

Che questo ultimo lavoro di Mori Yoshitaka sia, dunque, un prodotto più che dignitoso, non v’è alcun dubbio. Una domanda, però, sorge spontanea: di quanto sarebbe potuto aumentare il gradimento, da parte del pubblico, se fossero ben note le regole dello shogi?

VOTO: 7/10

Marina Pavido

67° FESTIVAL DI BERLINO – FINAL PORTRAIT di Stanley Tucci

finalportrait-tucci-659x371TITOLO: FINAL PORTRAIT; REGIA: Stanley Tucci; genere: biografico; anno: 2017; paese: USA; cast: Geoffrey Rush, Armie Hammer; durata: 90′

Presentato fuori concorso alla 67° Berlinale, Final Portrait è l’ultimo lungometraggio diretto dall’attore e regista Stanley Tucci, incentrato su un episodio della vita dell’artista Alberto Giacometti.

Siamo a Parigi, nel 1964, due anni prima della morte di Giacometti. Il giovane scrittore americano James Lord (Armie Hammer) è impegnato a farsi fare un ritratto dall’artista, così, ogni giorno, si reca presso il suo studio. Dai loro incontri nascerà un’amicizia destinata a durare sino alla morte di Giacometti stesso.

Perché, dunque, questo ultimo lavoro di Tucci risulta particolarmente interessante? Non solo, ovviamente, perché la figura dello scultore riesce già di suo a catturare l’attenzione, ma anche perché grazie all’ambientazione (la maggior parte del lungometraggio si svolge all’interno dello studio di Giacometti) unita ad una regia attenta e mai scontata, oltre ad un montaggio usato spesso in modo volutamente non convenzionale ci troviamo davanti ad un prodotto elegante ed a suo modo ricercato, che, se lo si osserva attentamente, risulta molto meno banale di quanto inizialmente possa sembrare.

È sui primi piani e sui dettagli, in particolare, che Tucci fa affidamento. Siano essi dettagli della mano dell’artista intento a dipingere, dettagli dei quadri o delle sculture stesse, o dettagli del volto dei due protagonisti. Soprattutto per quanto riguarda i volti, diverse inquadrature – con relativi scavalcamenti di campo in questo caso particolarmente azzeccati – si susseguono con un montaggio frenetico nelle scene in cui James Lord è intento a posare per Giacometti. Malgrado la rilevanza di tali scelte registiche, però, il momento di maggior impatto in assoluto è rappresentato dall’inquadratura che vede l’artista – a destra dello schermo – osservare attentamente un mezzo busto da lui scolpito – situato a sinistra – ed accarezzarlo con la mano. Al centro, la figura, fuori fuoco, dello scrittore che osserva entrambi, prima l’uno, poi l’altro.

Il ritratto che ne viene fuori è un Alberto Giacometti apparentemente ruvido, ma anche gaudente, a volte insicuro e, soprattutto, alla costante ricerca di affetto, sia esso da parte della moglie che da parte di Caroline, prostituta parigina con cui ha una relazione da anni. Un Alberto Giacometti, però, che non riusciremo mai, forse, a comprendere fino in fondo, ma che, spesso e volentieri, ci lascia fuori dalla sua intimità. Emblematiche, a tal proposito, le numerose inquadrature dell’artista, durante la sua quotidianità, con la macchina da presa posta fuori dalla finestra, addirittura dietro i vetri.

Può, dunque, la sola regia fare molto per una sceneggiatura che, in fin dei conti, si è rivelata piuttosto classica, anche se ben scritta? Può farlo eccome. D’altronde, è – soprattutto – questo il grande potere della Settima Arte.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

67° FESTIVAL DI BERLINO – DJANGO di Etienne Comar

djangoTITOLO: DJANGO; REGIA: Étienne Comar; genere: drammatico, biografico; anno: 2017; paese: Francia; cast: Reda Kateb, Cécile De France; durata: 117′

Presentato, in concorso, come film di apertura della 67° edizione del Festival di Berlino, Django – biopic dedicato al musicista Django Reinhardt – è l’opera prima del produttore cinematografico Étienne Comar.

Siamo nel 1943. Django Reinhardt registra un successo dopo l’altro nei teatri parigini. A causa delle sue origini – la sua famiglia era di etnia sinti – il giovane viene tenuto sotto controllo da alcuni ufficiali nazisti presenti in città. Al termine di una sua esibizione, Django viene invitato ad una fantomatica tournée in Germania, durante la quale avrà anche l’occasione di esibirsi alla presenza di Goebbels e del Führer. Una vecchia amica, però, lo mette in guardia circa le vere intenzioni delle autorità tedesche che lo hanno invitato. Al musicista non resterà, dunque, che mettersi in fuga con la moglie incinta e con l’anziana madre, al fine di far perdere le proprie tracce ai tedeschi e di tornare a vivere presso la sua comunità di origine.

Il principale problema di un lungometraggio come questo è che, lo sguardo del regista – al di là del dramma personale messo in scena – non si allontana mai dal protagonista, non cerca di indagare circa il contesto storico, non va alla ricerca di qualcosa di nuovo, di qualcosa che ancora non è stato raccontato. Il risultato finale è, dunque, un film sì ben girato, ma anche un prodotto come già se ne sono visti a bizzeffe e del quale, purtroppo, non resta molto, al termine della visione.

Ovviamente, come abbiamo già detto, questo Django di Comar qualche pregio ce l’ha eccome. Molto intensi, ad esempio, i primi piani dedicati a Reda Kateb, indovinato protagonista della pellicola (a “rischio” di premio?), così come “coraggiose” e ben sfruttate sono le carrellate/contre-plongé che – nella scena iniziale – inquadrano uno ad uno i musicisti durante un’esibizione a teatro. Sempre d’effetto, tra l’altro, sono gli sporadici riferimenti al cinema sparsi qua e là, sia, ad esempio nella scena in cui Django assiste ad un filmato-caricatura di Hitler, sia quando egli stesso propone alla sua amante di andare a sognare al cinema.

Detto questo, Django non ha più niente da comunicare. Un film come tanti, un’ulteriore copia di quello che abbiamo visto da diversi decenni a questa parte. Si potrebbe addirittura affermare che – data la buona realizzazione unita ad una scarsa potenza dello script – questa opera prima di Étienne Comar possa classificarsi quasi come uno sterile esercizio di stile, che ben presto finirà nel dimenticatoio collettivo.

Marina Pavido

34° TORINO FILM FESTIVAL – SARAH WINCHESTER, OPERA FANTOME di Bertrand Bonello

sarahwinc_f04cor_2016111726TITOLO: SARAH WINCHESTER, OPÉRA FANTÔME; REGIA: Bertrand Bonello; genere: documentario; anno: 2016; paese: Francia; cast: Marie-Agnès Gillot, Reda Kated; durata: 24′

Presentato nella sezione Onde al 34° Torino Film Festival, Sarah Winchester, opéra fantôme è l’ultimo cortometraggio diretto dall’acclamato cineasta francese Bertrand Bonello.

La scena si apre sul palco dell’Opéra Garnier: Marie-Agnès Gillot – prima ballerina dell’Opéra – sotto le indicazioni di un musicista, cerca di dar vita al misterioso personaggio di Sarah Winchester, moglie giovane ed innamorata di William Winchester, l’inventore del celebre fucile da guerra. Il suo matrimonio in giovane età, il suo amore per il marito e per la figlioletta, la perdita prematura di quest’ultima, l’improvvisa vedovanza, il dolore, la follia, il progetto di una nuova casa-rifugio. Tutto questo viene messo in scena in soli 24 minuti. Minuti che ad una prima impressione possono sembrare pochi, ma che, in realtà, riescono a farci entrare immediatamente in confidenza con il controverso personaggio di Sarah.

Una vita piena di contrasti, quella di Sarah Winchester. Il grande amore della sua vita che, dall’altro canto, è stato, in qualche modo, responsabile della morte di migliaia di soldati. La prematura scomparsa dei suoi affetti più importanti che si contrappone al rifiuto cieco ed ostinato della morte stessa ed al desiderio di rendere migliore la vita di chi le sta intorno. Momenti di follia apparentemente senza via d’uscita che si alternano a giorni di estrema lucidità. E poi il mistero. Quel fitto mistero che per anni ha avvolto la vita della donna, di cui tanto poco si è sentito parlare, ma che – forse proprio per il grande numero di disgrazie che hanno costellato la sua vita e per le sommarie informazioni sul suo conto – ha sempre suscitato grande curiosità.

La singolare messa in scena adottata da Bonello, dal canto proprio, rispecchia appieno ciò che è stata la vita di Sarah Winchester. In primo luogo abbiamo il contrasto: passi di danza classica ballati sulle note di una musica elettronica (composta, tra l’altro, dallo stesso Bonello) che, a sua volta, si contrappone all’aria lirica cantata dal coro dell’Opéra. Più che una rappresentazione vera e propria, delle prove che vanno a convergere in un’unica opera: un’opera reale che prende vita, appunto, da un’opera fantasma. Il tutto, ovviamente, pervaso, dall’inizio alla fine, dallo stesso alone di mistero che ha caratterizzato la vita della Winchester stessa. Non vediamo il naturale svolgimento dei fatti, non vediamo immagini rappresentanti Sarah o la sua famiglia, non vediamo oggetti che le sono appartenuti. Semplicemente il suo personaggio viene riportato alla vita attraverso la danza, la musica e vecchi disegni d’epoca che – montati in dissolvenza incrociata con il resto della messa in scena – stanno a creare, a loro volta, una sorta di danza, di singolare armonia, insieme alle parole ed al resto del girato.

Sono solo ventiquattro minuti, in fondo. Eppure, una volta giunti ai titoli di coda, sentiamo di conoscere nel profondo quella Sarah Winchester che solo poco tempo prima ci era del tutto sconosciuta. “Sarah, je t’aime!” pronuncia, alla fine della rappresentazione, il musicista, rivolgendosi alla ballerina. Ed insieme a lui, anche noi sentiamo di voler davvero bene a quel personaggio tanto fragile e controverso. Quella sorta di personaggio “fantasma” che – grazie ai sorprendenti mezzi della Settima Arte – è magicamente riuscito ad apparire vivo e reale davanti ai nostri occhi.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

11° FESTA DEL CINEMA DI ROMA – FRITZ LANG di Gordian Maugg

c-belle-epoque-fotograf-tim-fulda-%ef%80%a2-fritz-lang-hTITOLO: FRITZ LANG; REGIA: Gordian Maugg; genere: drammatico, biografico; anno: 2016; paese: Germania; cast: Heino Ferch, Thomas Thieme, Samuel Finzi; durata: 104′

Presentato in anteprima – all’interno della Selezione Ufficiale – all’11° Festa del Cinema di Roma, Fritz Lang, diretto dal regista tedesco Gordian Maugg, è incentrato sul periodo antecedente la lavorazione di uno dei più grandi capolavori del regista, nonché colonna portante del cinema espressionista: M – Il mostro di Düsseldorf.

Un pericoloso serial killer viene, finalmente, arrestato. Il regista Fritz Lang è inizialmente curioso di capire cosa abbia spinto l’uomo a commettere tutti quei delitti. In seguito ad alcuni loro incontri, però, inizierà anche a ripensare al suo passato e, in qualche modo, riuscirà a trovare non pochi punti in comune con l’uomo stesso. Dalle loro conversazioni prenderà vita, successivamente, la sceneggiatura di M – Il mostro di Düsseldorf.

Quali sono le sensazioni che si hanno durante e dopo la visione di Fritz Lang? Dunque, ripercorrendo velocemente con la mente le varie tappe della messa in scena, dovrebbero essere nell’ordine: incredulità, rabbia, sconforto, ilarità, rassegnazione, sonno e di nuovo rabbia. Ecco, il lungometraggio di Maugg trasmette proprio questo. E non perché la storia raccontata sia talmente coinvolgente da farci vivere così tante emozioni. Al contrario, chiunque abbia avuto l’occasione di innamorarsi del cinema di Lang, ha qui l’impressione di trovarsi di fronte ad una vera e propria profanazione. Soprattutto se ci si accorge della furbizia con cui una simile operazione è stata portata a termine, dal momento che un biopic su una figura di tale portata di certo andrà ad attirare un buon numero di spettatori, cinefili e non.

Prima ancora di vedere qualsiasi immagine, ma limitandosi soltanto ad ascoltare – fissando lo schermo nero – il motivetto fischiettato continuamente da Peter Lorre in M, le speranze di assistere ad un lavoro come si deve sono ancora in piedi. Bastano pochi minuti, però, per rendersi conto di avere davanti un prodotto altamente manierista e pretenzioso, le cui scene di maggiore potenza sono proprio filmati di repertorio o spezzoni del film originale di Lang montati sulla paccottiglia piatta e dai ritmi discontinui girata da Maugg. Facile così. Soprattutto quando si vuol creare un finale d’effetto con Peter Lorre che recita il suo monologo durante l’ultima sequenza di M. Come già detto, però, al di là della riuscita messa in scena da un punto di vista prettamente tecnico, quel che maggiormente rende Fritz Lang un lungometraggio urticante è la grande presunzione alla base di tutto.

Partendo dal presupposto che cercare di comprendere una figura complessa come quella di Lang – soprattutto se la si osserva in luce di alcuni avvenimenti di natura oscura (primo fra tutti, il suicidio della giovane moglie)accaduti durante la gioventù – non è compito facile, nel caso in cui si volesse approfondire un particolare momento della vita del regista, ci sarebbe talmente tanto da raccontare che, al di là della forma di messa in scena preferita, di certo potrebbe venirne fuori qualcosa di interessante. Ecco, a quanto pare Gordian Maugg – probabilmente talmente ansioso di creare a tutti i costi qualcosa di “rivoluzionario” – è riuscito in tutto e per tutto a dare vita a quanto di peggio si possa produrre. Il Fritz Lang qui raccontato è un violento, cocainomane e maniaco del sesso. Sembra ossessionato da qualsiasi cosa, fatta eccezione per il cinema stesso, a cui non viene fatto il benché minimo riferimento durante tutto il lungometraggio. Il suo personaggio viene talmente caricato da essere trattato involontariamente – a un certo punto – quasi alla stregua di una macchietta e perdendo totalmente di credibilità. Da ricordare – a questo proposito – la vera e propria scena madre del film, ossia quando vediamo Lang camminare da solo nel bosco e, di punto in bianco, prendere a sparare in aria all’impazzata. A questo punto, al pubblico – già fortemente provato da oltre un’ora di visione – non resta che lasciarsi andare – più per inerzia che per altro – a qualche stanca risata.

Tanto rumore per nulla, in pratica. Eppure, anche volendosi solo soffermare sul periodo antecedente la lavorazione di M, ci sarebbe talmente tanto da raccontare che i 104 minuti qui impiegati sarebbero fin troppo pochi. Basti pensare soltanto alle tematiche del film stesso, alla forte critica nei confronti della società, alla denuncia di quel “nazismo latente” che avrebbe visto, da lì a pochi anni, la nascita della dittatura vera e propria. Invece no. Gordian Maugg non racconta nulla di tutto ciò, impegnato com’è a dare vita a tutti i costi ad un Fritz Lang disturbato e disturbante come quello presentatoci in questa sua opera. E pensare che, anche solo volendosi concentrare sull’uomo piuttosto che sul cineasta, un bel documentario in merito, ad esempio, avrebbe avuto di sicuro una migliore riuscita. Ma, si sa, la presunzione, spesso e volentieri, gioca dei gran brutti scherzi.

VOTO: 3/10

Marina Pavido