TITOLO: DJANGO; REGIA: Étienne Comar; genere: drammatico, biografico; anno: 2017; paese: Francia; cast: Reda Kateb, Cécile De France; durata: 117′
Presentato, in concorso, come film di apertura della 67° edizione del Festival di Berlino, Django – biopic dedicato al musicista Django Reinhardt – è l’opera prima del produttore cinematografico Étienne Comar.
Siamo nel 1943. Django Reinhardt registra un successo dopo l’altro nei teatri parigini. A causa delle sue origini – la sua famiglia era di etnia sinti – il giovane viene tenuto sotto controllo da alcuni ufficiali nazisti presenti in città. Al termine di una sua esibizione, Django viene invitato ad una fantomatica tournée in Germania, durante la quale avrà anche l’occasione di esibirsi alla presenza di Goebbels e del Führer. Una vecchia amica, però, lo mette in guardia circa le vere intenzioni delle autorità tedesche che lo hanno invitato. Al musicista non resterà, dunque, che mettersi in fuga con la moglie incinta e con l’anziana madre, al fine di far perdere le proprie tracce ai tedeschi e di tornare a vivere presso la sua comunità di origine.
Il principale problema di un lungometraggio come questo è che, lo sguardo del regista – al di là del dramma personale messo in scena – non si allontana mai dal protagonista, non cerca di indagare circa il contesto storico, non va alla ricerca di qualcosa di nuovo, di qualcosa che ancora non è stato raccontato. Il risultato finale è, dunque, un film sì ben girato, ma anche un prodotto come già se ne sono visti a bizzeffe e del quale, purtroppo, non resta molto, al termine della visione.
Ovviamente, come abbiamo già detto, questo Django di Comar qualche pregio ce l’ha eccome. Molto intensi, ad esempio, i primi piani dedicati a Reda Kateb, indovinato protagonista della pellicola (a “rischio” di premio?), così come “coraggiose” e ben sfruttate sono le carrellate/contre-plongé che – nella scena iniziale – inquadrano uno ad uno i musicisti durante un’esibizione a teatro. Sempre d’effetto, tra l’altro, sono gli sporadici riferimenti al cinema sparsi qua e là, sia, ad esempio nella scena in cui Django assiste ad un filmato-caricatura di Hitler, sia quando egli stesso propone alla sua amante di andare a sognare al cinema.
Detto questo, Django non ha più niente da comunicare. Un film come tanti, un’ulteriore copia di quello che abbiamo visto da diversi decenni a questa parte. Si potrebbe addirittura affermare che – data la buona realizzazione unita ad una scarsa potenza dello script – questa opera prima di Étienne Comar possa classificarsi quasi come uno sterile esercizio di stile, che ben presto finirà nel dimenticatoio collettivo.
Marina Pavido