LA RECENSIONE – GIRL di Lukas Dhont

girl-Victor-Polster-356x250-c-defaultTITOLO: GIRL; REGIA: Lukas Dhont; genere: drammatico; paese: Belgio; anno: 2018; cast: Victor Polster, Arieh Worthalter, Oliver Bodart; durata: 105′

Presentato nella sezione Un certain regard al Festival di Cannes 2018 e nelle sale italiane dal 27 settembre, Girl è il lungometraggio d’esordio del giovane regista belga Lukas Dhont, il quale, per la presente opera, ha vinto la Caméra d’Or, la Queer Palm e il Premio Fipresci della Critica Internazionale, oltre ad aver visto il suo protagonista, Victor Polster, essere premiato come Miglior Attore.

Questo vero e proprio caso cinematografico, racconta la storia di Lara, che prima era Victor e che ha il sogno di diventare ballerina. Nonostante il supporto morale di suo padre e del suo fratellino, non sarà facile per la ragazza affrontare il lungo percorso preparatorio prima dell’operazione definitiva.

Una storia che prevede uno script apparentemente semplice, ma che, in realtà, richiede un’indagine psicologica molto più profonda di quanto possa inizialmente sembrare. E, malgrado la giovane età, il regista ha saputo affrontare la cosa con grande maestria e padronanza del mezzo cinematografico. Particolarmente d’effetto sono, a tal proposito, gli intensi primi piani di Lara, così come l’attenzione al suo corpo in trasformazione e ai momenti in cui la stessa si dedica anima e corpo alla danza, quasi se, così, volesse ella stessa plasmare il suo fisico a proprio piacimento.

Al di là della delicatezza dell’argomento in sé e al di là della grazia con cui Lukas Dhont ha messo in scena il tutto, ciò che in Girl maggiormente colpisce è la straordinaria – e mai sopra le righe – interpretazione del giovane attore e ballerino Victor Polster, nel ruolo della protagonista.

Un esordio di tutto rispetto, dunque, questo Girl. Direttamente dal Belgio, arriva nelle nostre sale una vera e propria perla da non lasciarsi sfuggire per nessun motivo.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – UNSANE di Steven Soderbergh

claire-foy-unsaneTITOLO: UNSANE; REGIA: Steven Soderbergh; genere: thriller; paese: USA; anno: 2018; cast: Claire Foy, Joshua Leonard, Jay Pharoah; durata: 98′

Presentato fuori concorso alla 68° edizione del Festival di Berlino, Unsane  l’ultimo lavoro del cineasta statunitense Steven Soderbergh, il quale, prendendo spunto dal discussissimo caso Weinstein, mette in scena una forte critica al sistema americano.

Sawyer Valentini è una giovane donna con brillanti prospettive di carriera ed un’intensa vita sociale. Il suo passato, tuttavia, non è sempre stato facile, infatti la ragazza è stata stalkerata per ben due anni da un uomo che abitava nella sua città natale. Tale evento le ha procurato un trauma talmente forte da vedere in chiunque uomo le capiti di incontrare un potenziale maniaco e da sentire il bisogno di rivolgersi ad uno psicologo. A tal fine, la giovane si reca in una rinomata clinica, dove, tuttavia, verrà ricoverata senza apparente motivo insieme ad altri malati di mente. Quello che le è capitato le sembra assurdo, fino al momento in cui incontra proprio il suo persecutore, il quale lavora come infermiere nella stessa clinica.

Già da una prima, sommaria lettura della sinossi, possiamo immaginare fino a che punto il genio di Soderbergh sia riuscito a spingersi. Quello a cui ha dato vita è, di fatto, un claustrofobico thriller dagli echi polanskiani, che non ha paura di osare, che si diverte a giocare con lo spettatore facendogli credere determinate cose, per poi ribaltare drasticamente la realtà e che sa ogni volta reinventarsi evitando il già detto o il già visto. A contribuire alla riuscita finale, l’uso – al posto della macchina da presa – di un i-phone, il cui obiettivo leggermente grandangolare si è rivelato particolarmente adatto a rendere il forte senso di spaesamento e quasi di soffocamento provato dalla protagonista. Sono, a tal proposito, primi e primissimi piani spesso presi dal basso verso l’alto, occhi dei personaggi che bucano lo schermo e quasi ci minacciano personalmente e, non per ultimo, l’espressivo volto della protagonista (una Claire Foy in stato di grazia), truccato all’occorrenza per enfatizzare uno sguardo da un lato ingenuo e spaesato, dall’altro terrorizzato e consapevole a fare da valore aggiunto a tutto il lungometraggio. E, non per ultima, non poteva mancare anche quella giusta dose di (non troppo) velata ironia, come tradizione soderberghiana vuole.

Un prodotto, Unsane, che cavalca sì l’onda delle tendenze mediatiche, ma, in modo intelligente e mai gratuito, mette in scena anche una tagliente critica al sistema sanitario nazionale e, non per ultimo, al governo statunitense. Esemplare, a tal proposito, la battuta pronunciata da uno degli internati, diventato una sorta di alleato della protagonista, il quale afferma che alla clinica stessa conviene, per motivi puramente economici, far sì che essi stessi restino ricoverati. Riprendendo, dunque, alcuni elementi del precedente Effetti collaterali (2013), Soderbergh amplia un discorso aperto in passato e dà vita ad un prodotto girato in poco tempo e con un budget bassissimo, ma tutt’altro che modesto, dove a fare da padrona di casa è una forte satira del nostro presente e che si classifica di diritto come una delle chicche di questa 68° Berlinale.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

35° TORINO FILM FESTIVAL – THE LODGERS di Brian O’Malley

The-Lodgers-movieTITOLO: THE LODGERS; REGIA: Brian O?Malley; genere: horror; paese: Irlanda; anno: 2017; cast: Charlotte Vega, David Bradley, Eugene Simon; durata: 92′

Presentato in anteprima al 35° Torino Film Festival nella sezione After Hours, The Lodgers è un interessante horror diretto dall’irlandese Brian O’Malley.

La storia è quella di Rachel ed Edward, due gemelli appena diventati maggiorenni, che, rimasti orfani diversi anni prima, vivono da soli nella grande villa che da decenni appartiene alla loro famiglia. I loro genitori, così come i loro nonni, i loro bisnonni e via dicendo, erano anch’essi gemelli e, attraverso rapporti incestuosi, hanno dato vita di volta in volta a nuove generazioni, per poi morire suicidi, annegando nel laghetto all’interno del giardino di casa. Desiderosa di una vita propria e di spezzare questa sorta di maledizione di cui insieme al fratello sembra prigioniera, Rachel un giorno farà la conoscenza e si innamorerà del giovane Sean, reduce di guerra che durate il conflitto ha perso una gamba. Solo lui potrà aiutare la ragazza a fuggire ed a sottrarsi, quindi al suo già segnato destino. Bisognerà fare i conti, però, con i fantasmi degli antenati, i quali sembrano contrari a porre fine alla loro stirpe.

Come lo stesso O’Malley ha dichiarato, questo suo riuscito lungometraggio si rifà principalmente ad importanti lavori del passato come The Others – diretto nel 2001 da Alejandro Amenabar – o Miriam si sveglia a mezzanotte, capolavoro del 1983 del compianto Tony Scott. Eppure, data la presenza dei due gemelli – elemento che ben si addice al genere e che, in questo caso specifico, viene ottimamente gestito dallo stesso O’Malley grazie a dettagli dei due fratelli ed a gesti speculari montati in alternanza – immediatamente viene da pensare al bellissimo – ma purtroppo poco conosciuto in Italia – Goodnight Mommy, diretto nel 2014 da Veronika Franz (la signora Seidl, per intenderci) e Severin Fiala.

Sono i due ben caratterizzati protagonisti, la maestosa ma inquietante villa – trattata alla stregua di un vero e proprio coprotagonista – l’elemento dell’acqua come simbolo di morte e di rinascita e le tetre atmosfere che, unitamente ad una sapiente regia e ad uno script pulito e lineare quanto basta, fanno di The Lodgers uno dei più interessanti lungometraggi della suddetta sezione torinese.

E poi, come ogni lavoro di genere che si rispetti, non poteva non mancare anche una (non troppo) velata critica alla società e, soprattutto, un forte (e giustificato) nazionalismo. Particolarmente significativa, a tal proposito, la battuta pronunciata dalla stessa Rachel, quando – nel rivolgersi ad un esattore delle tasse che aveva appena detto di aver affrontato un lungo viaggio dalla terraferma per andare a trovare i ragazzi – ha affermato: “È questa, per noi, la terraferma!”. Simbolo, questo, di una mai sopita rivalità con la vicina Gran Bretagna e, in egual modo, volendo restare in ambito prettamente artistico, della volontà di rivendicare il valore di una cinematografia come quella irlandese che, da anni, non fa che regalarci interessanti e piacevoli sorprese.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

VENEZIA 74 – UNDER THE TREE di Hafsteinn Gunnar Sigurosson

Undir_Tr_nu_Under_the_Tree_7_bTITOLO: UNDER THE TREE; REGIA: Hafsteinn Gunnar Sigurosson; genere: drammatico, commedia; paese: Islanda, Danimarca, Polonia, Germania; anno: 2017; cast: Steinpor Hroar, Edda Bjorgvinsdottir; durata: 89′

Presentato in concorso nella sezione Orizzonti alla 74° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, Under the tree è l’ultimo lungometraggio del giovane cineasta islandese Hafsteinn Gunnar Sigurosson.

Ciò da cui prende il via tutta la vicenda è sì una situazione difficile, ma, in realtà, molto più comune di quanto si possa credere: Atli, padre di una bambina di pochi anni, viene cacciato di casa dalla moglie dopo averla tradita. L’uomo, così, sarà costretto a trasferirsi per qualche giorno dai genitori, ancora sconvolti per la perdita del figlio maggiore ed in continua disputa con i vicini di casa a causa di un albero che, con la propria ombra, “invade” il giardino confinante. Nulla di particolarmente nuovo, no? Eppure, da situazioni all’apparenza facilmente risolvibili, si arriverà man mano ad un progressivo inasprirsi dei conflitti dove vedremo l’essere umano tirare fuori il peggio di sé. Oltre ogni possibile immaginazione.

Ed ecco che, ancora una volta, la cinematografia nordeuropea riesce a spiazzarci, mettendo in scena – in una commedia nera che più nera non si può – l’essere umano nelle sue più spaventose declinazioni, ma, volendo, anche al suo stato più grezzo, scevro da ogni qualsivoglia condizionamento morale. E, così, entra in gioco – finalmente! – la tipica crudeltà nordica nel criticare, in modo cinico ma sottilmente e crudelmente ironico, la società dei giorni nostri, dove regna da tempo ormai immemore un certo fascismo latente e dove – essendo le persone stesse completamente disumanizzate da macchine, crisi economiche, tecnologie e compagnia bella – non v’è più alcuna traccia di umanità stessa.

Nel raccontare ciò, Sigurosson – che, nonostante la giovane età, ha già da tempo dimostrato grande maturità stilistica e padronanza del mezzo cinematografico – ha saputo ricreare alla perfezione ambienti ed atmosfere che ben rispecchiano il disagio dei personaggi. Ecco, quindi, luci fredde, scenografie ridotte all’osso, ambienti angusti e linee nette che, senza l’ombra di abbellimento alcuno, diventano essi stessi protagonisti della vicenda. In perfetta linea con la cinematografia del nord Europa, che, come abbiamo più volte avuto modo di accorgerci, sa essere sì crudele e spietata, ma anche dolorosamente – e tristemente – vera. Malgrado l’ironia, sempre presente. Ѐ stato così, ad esempio, per autori come lo svedese Roy Andersson, ma anche per i più noti Lars von Trier e Thomas Vinterberg, così come per Hans Petter Moland, Ruben Ostlund, Dagur Kari e molti altri ancora. Dal canto suo, Sigurosson ha dimostrato di essere perfettamente all’altezza dei suoi colleghi e, non a caso, già nel 2012 è stato definito da Variety “uno dei dieci registi europei da tenere d’occhio”. Non resta che attendere fiduciosi, dunque, i suoi prossimi lavori.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – THE TEACHER di Jan Hrebejk e Petr Jarchovsky

the-teacherTITOLO: THE TEACHER; REGIA: Jan Hrebejk, Petr Jarchovsky; genere: commedia; paese: Slovacchia; anno: 2016; cast: Zuzana Mauréry, Csongor Kassai, Peter Bebjak; durata: 102′

Nelle sale italiane dal 7 settembre, The teacher è l’ultimo lungometraggio dei registi Jan Hrebejk e Petr Jarchovsky, brillante commedia ispirata a fatti realmente accaduti, con una forte critica alla dittatura comunista dei decenni scorsi.

Siamo a Bratislava, Cecoslovacchia, nel 1983. In una scuola media fa il suo ingresso la signora Maria, professoressa dall’aspetto apparentemente materno ed un po’ eccentrico, vedova di un alto ufficiale comunista e rappresentante, anch’ella, il Partito nella scuola. Al momento dell’appello, la donna non esita a chiedere agli studenti che lavoro facciano i loro genitori. Il suo fine ultimo è quello di ottenere favori dagli stessi – dal taglio di capelli all’assistenza per la spesa – in cambio di buoni voti per i propri figli. I genitori stessi, però, inizieranno a protestare nel momento in cui alcuni alunni verranno ingiustamente vessati se i loro genitori non riusciranno a fare favori alla donna.

the-teacher-0080197-resChe l’Europa dell’Est sia da sempre stata culla di una cinematografia tanto raffinata quanto variegata, non v’è alcun dubbio. Anche quando si tratta di far ridere – in questo caso, come già detto, con grande amarezza di fondo ed una forte critica nei confronti del Comunismo – i paesi slavi si sono sempre rivelati dei grandi maestri. Basti pensare, ad esempio, a cineasti del calibro di Petr Zelenka (I fratelli Karamazov, Lost in Munich) o di Ladislav Smoljak (Corri uomo corri), giusto per fare un paio di esempi. Ed ecco che anche i colleghi slovacchi – Hřebejk e Jarchovsky, appunto – hanno saputo reggere il confronto, dando vita ad un lungometraggio tanto frizzante quanto arguto e tagliente, pregno di significato e dove il contesto scolastico si fa metafora di tutto il sistema politico degli scorsi decenni. La paura, il bisogno e, soprattutto, l’omertà si fanno ruote motrici di un meccanismo che a lungo andare, può solo portare all’annientamento dell’essere umano in quanto tale. A meno che non si trovi il coraggio di ribellarsi e di reagire. Ed è proprio quello che hanno fatto alcuni genitori, protagonisti della vicenda. Un episodio, quello qui messo in scena, che, se da un lato ci fa sperare in un futuro migliore, dall’altro, però, sembra ricondurci, di punto in bianco, di nuovo punto e a capo, quasi ci si trovasse all’interno di un circolo vizioso da cui è difficile – se non addirittura impossibile – uscire. Ottimista e pessimista (o sarebbe meglio dire realista?) allo stesso tempo.

3EaS5gHiQzmxVRlYYQbVIQAl di là dello script impeccabile, al di là di ogni qualsivoglia messaggio subliminale, però, la vera chicca di The teacher è proprio il personaggio dell’insegnante Maria, protagonista della vicenda ed impersonata dalla bravissima Zuzana Mauréry, che per questa sua interpretazione è stata premiata come miglior attrice al Festival di Karlovy Vary. I suoi tacchi a spillo, le sue gonne svolazzanti, così come le sue subdole espressioni e le sue pettinature eccentriche – ben messe in risalto da un’arguta macchina da presa – non verranno dimenticate poi tanto presto. Così come, ci auguriamo, anche l’importante messaggio qui contenuto, d’altronde.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – SCAPPA-GET OUT di Jordan Peele

Get_Out_filmTITOLO: SCAPPA – GET OUT; REGIA: Jordan Peele; genere: horror, thriller; paese: USA; anno: 2017; cast: Daniel Kaluuya, Allison Williams, Catherine Keener; durata: 103′

Nelle sale italiane dal 18 maggio, Scappa – Get out è l’opera prima dell’attore statunitense Jordan Peele.

Chris, un ragazzo di colore, sta per andare a conoscere i genitori di Rose, la sua ragazza, di etnia bianca. Il ragazzo è un po’ preoccupato in quanto la famiglia di Rose ancora non è a conoscenza del fatto che Chris sia nero. La ragazza cerca in tutti i modi di tranquillizzarlo, ma, una volta giunti a destinazione, il giovane scoprirà di essere l’unico di colore oltre ai domestici e fin da subito si renderà conto che nella casa regna una strana ed inquietante atmosfera.

ouehEbbene sì. Malgrado la poca esperienza del regista dietro alla macchina da presa, Scappa – Get out è indubbiamente una sorpresa più che piacevole all’interno del panorama cinematografico attuale. La prima cosa che colpisce di questa opera prima di Jordan Peele sono le singolari atmosfere ricostruite, che tanto stanno a ricordare le pellicole horror anni Settanta/Ottanta. E questo non è soltanto merito delle ambientazioni (fatta eccezione per i telefoni cellulari presenti, è come se ci si trovasse, una volta a casa dei genitori di Rose, in un posto senza tempo), ma anche per le musiche. Interessante, a tal proposito, il contrappunto musicale creato durante i primi minuti quando un ragazzo di colore viene assalito e rapito, con un’allegra canzone – rigorosamente diegetica – proveniente dall’autoradio della macchina su cui verrà successivamente caricato.

Stesso discorso vale per la regia. Sovente lo spettatore si trova a sobbalzare sulla poltrona in seguito ad aggressioni improvvise, inaspettati incidenti d’auto ed altre giuste trovate che rispecchiano appieno i canoni dell’horror classico, senza però cadere mai nel retorico, ma creando, al contrario, un prodotto con una ben marcata identità.

get-out-allison-williams-daniel-kaluuyaParticolare attenzione, inoltre, va dedicata al sottotesto. Come ben sappiamo, negli ultimi mesi la situazione politica statunitense ha fatto discutere non poco. Ora, quale occasione migliore di dire la propria attraverso un film di genere che attacca in modo (non troppo) velato la società americana con tutta la sua ipocrisia ed il fascismo latente che sembra oggi essere vivo più che mai? Un film che non ha pietà per nessuno, questo di Peele. E che, soprattutto, non esita a smorzare i toni con una certa ironia di fondo che risulta in questo caso particolarmente indovinata.

Non si tratta del solito horror, dunque. Scappa – Get out è molto di più. Se non altro può essere letto anche come fedele omaggio al genere. Fedele e decisamente riuscito.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE- IN VIAGGIO CON JACQUELINE di Mohamed Hamidi

coverlg_home (1)TITOLO: IN VIAGGIO CON JACQUELINE; REGIA: Mohamed Hamidi; genere: commedia; anno: 2016; paese: Francia; cast: Fatsah Bouyahmed, Lambert Wilson, Jamel Debbouze; durata: 92′

Nelle sale italiane dal 23 marzo, In viaggio con Jacqueline è una divertente commedia diretta dal regista franco algerino Mohamed Hamidi.

Fatah è un contadino che vive in un piccolo paese dell’Algeria. Egli non ha occhi che per Jacqueline, la sua mucca, la quale viene curata quasi come una vera e propria figlia. L’uomo, da anni, sogna di partecipare con lei al rinomato Salone dell’Agricoltura, che ogni anno si tiene a Parigi. Quando, finalmente, arriva l’invito per potervi prendere parte, Fatah decide di imbarcarsi con Jacqueline alla volta di Marsiglia, per poi attraversare tutta la Francia a piedi e giungere finalmente a Parigi.

In-viaggio-con-Jacqueline-copertinaPiccola, graziosa, senza troppe pretese eppure tagliente al punto giusto. questa ultima opera di Hamidi è un ben riuscito road movie che, insieme alla componente prettamente comica, ben riesce a mescolare anche una forte critica ad una mentalità arcaica come quella del suo paese. E tutto ciò, ovviamente, viene fatto in modo mai banale o scontato, mai sopra le righe, eppure decisamente efficace. Il viaggio intrapreso da Fatah insieme alla sua Jacqueline, dunque, sarà anche (e soprattutto) un’occasione per crescere, per conoscere meglio sé stesso, per riflettere sui propri comportamenti e sui propri errori, soprattutto grazie ai consigli dei personaggi incontrati durante il cammino.

In-viaggio-con-Jacqueline-screen-shot-2017-03-06-at-11.34.11E poi, non dimentichiamo la forte componente “mediatica”. Nell’era dei social networks, una storia come quella di Fatah, che decide di attraversare la Francia a piedi insieme alla sua mucca, non potrebbe certo passare inosservata. Ed ecco che, anche nel film, il nostro protagonista diventa quasi un eroe, inneggiato dai numerosi fans che hanno iniziato a seguirlo virtualmente nella sua impresa e che sono pronti a fare delle frasi da lui pronunciate durante le interviste dei veri e propri slogan.

C’è un po’ di tutto,in poche parole,in questo ultimo lavoro di Mohamed Hamidi. Tanta sostanza per un prodotto piccolo ma sorprendente. Una piacevole commedia da scoprire e che di certo non deluderà.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

67° FESTIVAL DI BERLINO – THE BAR di Alex De La Iglesia

1239030_the-barTITOLO: THE BAR; REGIA: Alex De La Iglesia; genere: commedia, horror; anno: 2017; paese: Spagna; cast. Mario Casas, Blanca Suarez; durata: 102′

Presentato fuori concorso alla 67° Berlinale, The bar è l’ultimo lungometraggio diretto dal cineasta spagnolo Alex De La Iglesia.

Otto protagonisti per un film corale che, nel corso della narrazione abbandona l’iniziale impostazione teatrale per diventare successivamente un horror classico, ma che, allo stesso tempo, riesce pur sempre a sorprendere. Otto personaggi che si ritrovano, una mattina, a fare colazione in un bar. Dalla bella ragazza sfortunata in amore al giovane in carriera, dalla casalinga dipendente dalle slot machines al senzatetto estremamente religioso, addirittura fanatico, che continua a citare passi tratti dall’Apocalisse di san Giovanni. La carrellata di tipi umani è più variegata che mai. Tutto sembra scorrere secondo le quotidiane consuetudini, quando uno dei clienti, poco dopo essere uscito dal bar, viene centrato in piena fronte da un proiettile sparato non si sa da dove. È a questo punto che le danze avranno inizio.

Ancora una volta, dunque, De La Iglesia si cimenta con il genere horror. Genere che, come di consueto nei film del cineasta di Bilbao (fatta eccezione per Baby’s room, di impostazione piuttosto classica), risulta pregno anche di una comicità grottesca del tutto fuori dagli schemi. È stato così per il recente Las brujas de Zugarramurdi, ad esempio, così come per l’ormai cult Acción mutante, giusto per citare un paio di titoli. Ed anche in The bar – dagli echi (non troppo) vagamente carpenteriani – tali soluzioni risultano decisamente indovinate. Si ride per situazioni al limite dell’assurdo ed anche grazie a personaggi i cui tratti caratteriali sono portati volutamente all’estremo, per poi lasciare spazio alla tensione vera e propria, nel momento in cui i sopravvissuti sono costretti ad una battaglia all’ultimo sangue all’interno delle fogne di Madrid, al fine di procurarsi le ultime doti di antidoto contro un non ben definito virus. Nel frattempo, frequenti – ma mai eccessive o forzate – immagini di proiettili volanti, fiotti di sangue e vomito ed ustioni, unite ad inquadrature dichiaratamente autocompiacenti che vedono primi piani delle forme dell’avvenente protagonista, in piena tradizione, appunto, del cinema di De La Iglesia.

E poi c’è la religione. Ecco che ancora una volta il regista spagnolo – analogamente a quanto fatto con il cortometraggio La confessione, presentato fuori concorso alla 71° Mostra del Cinema di Venezia, all’interno del progetto collettivo Words with Gods – se la prende con il cattolicesimo radicato nella sua nazione. In questo caso, la figura che maggiormente sta a simboleggiare tale critica è indubbiamente quella del senzatetto/profeta, ma anche l’impostazione stessa di tutto il lungometraggio, se vogliamo, durante il quale, appunto, solo a pochi eletti, dopo aver superato determinate prove, sarà dato di salvarsi e di “rinascere” riuscendo finalmente ad uscire in strada attraverso un tombino.

Un De La Iglesia, in pratica, che non fa che riconfermare sé stesso, il suo coraggio e la sua capacità di gestire determinate situazioni e che, anche se con The bar tende un po’ a ripetersi nel genere e nelle tematiche, di certo non delude, ma, al contrario, è capace di intrattenere il pubblico per quasi due ore dando l’impressione che siano passate solo poche decine di minuti. Un De La Iglesia che, in poche parole, ci piace proprio così com’è.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

67 FESTIVAL DI BERLINO – POKOT di Agniezska Holland

201711635_5_img_fix_700x700TITOLO: POKOT; REGIA: Agniezska Holland; genere: commedia, giallo; anno: 2017; paese: Polonia; cast: Agniezska Mandat: durata: 128′

Presentato in concorso alla 67° Berlinale, Pokot è l’ultimo lungometraggio della regista polacca Agniezska Holland.

La storia raccontata è, in realtà, piuttosto semplice: un’insegnante di inglese non più giovanissima, ha deciso di ritirarsi – in quasi totale isolamento, fatta eccezione, ovviamente, per quanto riguarda i propri studenti – in un piccolo villaggio polacco al confine con la Repubblica Ceca. Da sempre convinta animalista, la donna non fa che contestare il fatto che nella sua zona venga praticata la caccia. Quando, una sera, i suoi amati cani scompaiono misteriosamente, ecco che prende il via una lunga serie di delitti. Le vittime sono tutti gli appassionati di caccia della zona.

Come facilmente si può intuire, il tono del lungometraggio è piuttosto leggero, piuttosto indovinato per una crime story dall’impronta femminista ed animalista come questa. La protagonista stessa è, infatti, un personaggio che fin da subito – e senza particolari difficoltà – riesce ad incontrare le simpatie del pubblico, ben caratterizzata com’è, con tutte le sue bizzarre convinzioni e la sua passione per gli oroscopi. Al di là di ogni qualsivoglia tono umoristico, però, anche in questo suo ultimo lavoro la Holland ha deciso di inserire come sottotesto una forte critica alla società in cui vive, prendendosela, questa volta, in particolare con il cattolicesimo, fortemente radicato in una nazione come la Polonia. Il problema è che, in questo caso nello specifico, tale critica non sempre funziona. Al contrario, alcune scelte registiche – vedi, ad esempio, il momento in cui la chiesa del paese va in fiamme – risultano decisamente semplicistiche, per non dire addirittura ruffiane. Tante volte, infatti, anche senza sottolineare eccessivamente qualcosa, ma con semplici operazioni di sottrazione, il messaggio arriva eccome. Ma tant’è. Al di là di ogni possibile scivolone preso dalla regista, Pokot risulta in ogni caso, nel suo piccolo, un prodotto che, tutto sommato, si lascia seguire bene. È chiaro, però, che se – come abbiamo detto prima – si pensa agli illustri connazionali della Holland, un po’ di amarezza viene eccome. Soprattutto considerando il fatto che tale lungometraggio è addirittura in corsa per l’Orso d’Oro.

67° FESTIVAL DI BERLINO – WILDE MAUS di Josef Hader

201712958_1_img_543x305TITOLO: WILDE MAUS; REGIA: Josef Hader; genere: commedia; anno: 2017; paese: Austria; cast: Josef Hader, Pia Hierzegger; durata: 103′

Presentato in concorso alla 67° edizione del festival di Berlino, Wilde Maus è l’ultimo lungometraggio scritto, diretto ed interpretato dal comico austriaco Josef Hader.

Ci troviamo a Vienna. Georg è uno stimato critico musicale che – considerato il suo modo di lavorare ormai obsoleto – viene ingiustamente licenziato. L’uomo, però, decide di non dire nulla alla propria moglie – già parecchio sotto pressione per il fatto di non riuscire a restare incinta – e tenta di avviare, insieme ad un vecchio conoscente incontrato per caso al Prater, la gestione di una giostra del parco divertimenti. Contemporaneamente, di notte, mette in atto delle piccole vendette nei confronti del suo ex capo, rigandogli la macchina o distruggendo le telecamere di sorveglianza sotto casa di quest’ultimo. Tale situazione di precario equilibrio, però, sembra non essere destinata a durare a lungo.

Che il lungometraggio di Hader si possa classificare a tutti gli effetti come una commedia nera lo si può intuire fin dai primi fotogrammi, quando vediamo il protagonista discutere concitatamente di musica con una giovane collega, per poi ritrovarsi immobile e basito di fronte al capo, inespressivo, che gli sta comunicando il proprio licenziamento. Ed ecco che, sulle note di Vivaldi, vediamo Georg – in campo lungo – attraversare a piedi un’enorme distesa di neve, per poi scavare una buca al centro di essa e sedercisi dentro. Cosa avrà mai in mente? Lo scopriremo, ovviamente, in seguito. Fatto sta che, da questo momento in poi, una serie di gag spesso e volentieri anche politically scorrect faranno da cornice ad una storia che – sia dal punto di vista dello script in sé che dal punto di vista registico – sembra ben funzionare sul grande schermo. I tempi comici azzeccati ed un’indovinata direzione attoriale – che prevede personaggi quasi statici ed apparentemente inespressivi – uniti ad una regia fatta sovente di camera fissa e di primissimi piani, stanno a mettere in scena sì un dramma personale, ma soprattutto, una (non troppo) velata critica alla società ed al mondo del lavoro, dove il detto “mors tua, vita mea” mai è stato così azzeccato. Basti pensare, di fatto, al capo di Georg che ha rovinato la carriera di quest’ultimo, mentre lo stesso Georg, a sua volta, si scopre aver stroncato la carriera di un giovane aspirante musicista, costretto a lavorare ad una tavola calda giapponese. Sullo sfondo una Vienna in questo caso poco valorizzata, se non durante i tramonti visti dall’alto di una delle giostre del Prater, che – spesso cupa e piovosa – fa da spettatrice silente alle disavventure del nostro protagonista.

Una commedia che spara a zero proprio su tutto e su tutti, in pratica. Persino su noi italiani (che novità, eh?), quando l’amico del protagonista definisce scherzosamente (ma non troppo) l’Italia come “il culo del mondo”. Una commedia che somiglia sì a molte altre commedie di produzione austriaca o tedesca, ma che risulta decisamente ben confezionata, nel suo piccolo e nella sua (apparente) semplicità.

VOTO: 7/10

Marina Pavido