LA RECENSIONE – DIRECTIONS di Stephan Komandarev

directions_3_h_2017TITOLO: DIRECTIONS; REGIA: Stephan Komandarev; genere: drammatico; paese: Bulgaria, Germania, Macedonia; anno: 2017; cast: Vasil Vasilev-Zueka, Ivan Barnev, Irini Zhambonas; durata: 104′

Nelle sale italiane dal 27 novembre, Directions è un interessante lungometraggio corale diretto dal cineasta bulgaro Stephan Komandarev.

In una Sofia dei giorni nostri, un piccolo imprenditore, che per arrotondare lavora come tassista, uccide, in un momento di disperazione, un banchiere a cui deve un’ingente somma di denaro, per poi tentare a sua volta il suicidio. Nella notte, mentre la notizia viene trasmessa dalle emittenti radio locali e nazionali, cinque tassisti, ognuno con la propria storia e le proprie difficoltà, percorrono le strade della città in cerca di nuove direzioni e di nuovi modi in cui affrontare la vita.

Già dopo una prima, sommaria lettura della sinossi, immediatamente ci viene da pensare a Taxi Teheran, interessante lungometraggio di Jafar Panahi interamente girato in un taxi (poiché il governo iraniano non permette a Panahi di girare film). Analogamente all’opera di Panahi, questo lungometraggio di Komandarev si svolge quasi per intero all’interno di taxi – pur raccontandoci non una, ma tante storie, ognuna drammatica a modo proprio – dove viene attaccato in modo (non troppo) velato il governo bulgaro e dove la crisi, la disoccupazione ed il denaro si fanno temi portanti di tutto il lavoro.

Non è facile, come sappiamo, dare vita ad un film corale. Ci è più e più volte riuscito il grande Robert Altman, ma molti altri hanno miseramente fallito. Eppure, un film come Directions regge eccome. Interessanti e ben caratterizzati sono, ad esempio, i protagonisti della pellicola, così come le loro storie – fatta solo qualche piccola eccezione. Ciò che convince meno è, purtroppo, proprio il fatto che, man mano che ci si avvicina al finale, il prodotto ci appare sempre più sfilacciato, i vari collegamenti tra ogni singola storia non vengono sfruttati a dovere e si ha quasi la sensazione che fino alla fine ci sia qualcosa di irrisolto.

Poco male, però. Soprattutto perché, nonostante tutto, stiamo parlando di un prodotto mediamente buono, ulteriore conferma dell’alto valore produttivo di un paese come la Bulgaria, che, come sappiamo, sa spesso regalarci interessanti sorprese.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – 120 BATTITI AL MINUTO di Robin Campillo

photoTITOLO: 120 BATTITI AL MINUTO; REGIA: Robin Campillo; genere: drammatico; paese: Francia; anno: 2017; cast: Nahuel Pérez Biscayart, Arnaud Valois, Adèle Haenel; durata: 135′

Nelle sale italiane dal 5 ottobre, 120 battiti al minuto è l’ultimo lungometraggio di Robin Campillo, presentato in concorso al 70° Festival di Cannes, dove è stato premiato con il Grand Prix, e candidato per la Francia all’Oscar come Miglior Film Straniero.

Le storie messe in scena sono quelle di tanti ragazzi. Giovani affetti dal virus dell’HIV, come il fragile ma coraggioso Sean, o che, come nel caso di Nathan, vogliono saperne di più. Ragazzi e ragazze che, in una Parigi degli anni Novanta, militano nell’associazione Act Up Paris, al fine di chiedere un intervento tempestivo contro l’Aids alla politica nazionale ed alle case farmaceutiche. Non hanno paura, questi ragazzi, di andare oltre, di superare i confini di ciò che è lecito e di ciò che non lo è più. Non si fanno scrupoli davanti alla legge o ai cosiddetti potenti. Ciò che conta è il loro fine ultimo.

Nostalgici del compianto Jonathan Demme, che pure nel 1993, con il bellissimo Philadelphia, aveva trattato lo stesso argomento, non disdegnamo, tuttavia, questo ultimo lungometraggio di Campillo, il quale, dal canto suo, dimostra un’ottima padronanza del tema trattato, oltre ad avere un passato come militante proprio all’interno di Act Up.

Ed è già dai primi minuti, dunque, che vediamo questo nutrito gruppo di attivisti in azione, intenti a scagliare palloncini pieni di sangue finto durante una convention proprio sull’Aids. Un urlo di rabbia, il loro, che non cesserà mai durante tutta la durata del lungometraggio. Ciò che maggiormente è riuscito nella messa in scena di 120 battiti al minuto, a tal proposito, è proprio la coralità dei personaggi. Cosa, come sappiamo, assolutamente non facile da gestire. Stesso discorso vale per quanto riguarda alcune sequenze che vedono i protagonisti ballare seguendo una musica ritmata – 120 battiti al minuto, appunto – con effetti visivi dai colori psichedelici e figure che, piano piano, sembrano assumere le forme di molecole di DNA.

In linea di massima a suo agio, dunque, Robin Campillo, nel gestire questo suo terzo film da regista. Gli unici momenti in cui il lungometraggio in sé sembra zoppicare sono, paradossalmente, proprio quelli in cui la storia d’amore tra Nathan e Sean viene messa in primo piano, scadendo pericolosamente nel già visto e facendo perdere, di conseguenza, non pochi punti a tutto il lavoro. Un lavoro che, malgrado il malcelato desiderio (inconscio?) di Campillo di emulare, a tratti, il suo “maestro” Laurent Cantet – con il quale ha lavorato per anni come montatore – si è rivelato un prodotto di tutto rispetto. Dimostrazione del fatto che, appena pochi anni dopo l’uscita in sala del poco convincente Eastern Boys (secondo lungometraggio di Campillo), il cineasta sta davvero prendendo, finalmente, una strada tutta sua.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – WEST OF THE JORDAN RIVER di Amos Gitai

WestOfTheJordanRiver-Photo1-AmosGitai_986TITOLO: WEST OF THE JORDAN RIVER; REGIA: Amos Gitai; genere: documentario; paese: Israele; anno: 2017; durata: 88′

Presentato alla Quinzaine der Réalisateurs alla 70° edizione del Festival di Cannes, West of the Jordan River è l’ultimo documentario del celebre cineasta israeliano Amos Gitai.

Ricollegandosi inizialmente all’ ultimo documentario del cineasta israeliano (Rabin, the last day, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2015), è proprio dalla figura dell’ex Primo Ministro israeliano – Yitzhak Rabin, appunto – e dal suo progetto di mediazione che prende il via West of the Jordan River. Fu lo stesso Gitai, a suo tempo ad intervistare Rabin. Molti anni dopo l’assassinio dello stesso, però, la situazione non appare migliorare, sebbene da parte della popolazione il desiderio di pace sia forte come non mai. Ed ecco che adulti, bambini, membri di associazioni che prevedono la convivenza tra arabi ed israeliani fanno sentire le loro voci alla telecamera, raccontando ognuno la propria, personale realtà ed alternandosi, di quando in quando, ad analisi di giornalisti e storici.

Ed il cinema, in tutto ciò, che fa? Di certo non è un semplice spettatore, o meglio un testimone silente. Il cinema, in questo ultimo lavoro di Gitai diviene di diritto un vero e proprio attore, presente com’è in ogni situazione mostrataci. Ed ecco che non solo il regista stesso, ma anche macchine da presa, microfoni ed operatori fanno il loro ingresso in campo, quasi a voler ricordare l’importanza stessa della Settima Arte, in qualità di ulteriore strumento di informazione, denuncia ed esortazione ad agire.

Se si pensa al penultimo lavoro di Gitai – Rabin, the last day, appunto – di certo West of the Jordan River per quanto riguarda la messa in scena stessa può essere – erroneamente – classificata come un’opera di gran lunga più modesta rispetto all’imponente documentario presentato a Venezia, in cui anche il live action aveva avuto il proprio spazio. Eppure, questa ultima fatica del cineasta israeliano modesta non lo è affatto. Ciò che abbiamo davanti agli occhi è un intenso film corale, molto personale e comunicativamente efficace che non esita a mostrarci la cruda realtà, ma che, tuttavia, non cela nemmeno una certa speranza ed un certo ottimismo per quanto riguarda un prossimo futuro. Sono la prova di ciò l’immagine di una giostra e di alcuni giocatori di backgammon in chiusura del film, che stanno a suggerire un contesto sereno e pacifico. Eccessivamente ingenuo? Fin troppo ottimista? Più che altro, decisamente speranzoso, West of the Jordan River. Speranzoso e tanto, tanto efficace. Anche stavolta, dunque, la Settima Arte ha saputo colpire nel segno.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – GIROTONDO di Tonino Abballe

24052_origTITOLO: GIROTONDO; REGIA: Tonino Abballe; genere: drammatico: paese: Italia; anno: 2017; cast: Erika Marconi, Massimiliano Buzzanca, Antonella Ponziani, Armando De Razza; durata: 78′

Nelle sale italiane dal 22 giugno, Girotondo è l’ultimo lungometraggio diretto da Tonino Abballe.

Tante storie di tante coppie, ognuna delle quali attraversa momenti difficili: dalla giovane donna separata con un figlio, alla ragazza che ha paura di diventare madre, dalla coppia omosessuale che fa fatica ad essere accettata, fino, addirittura, ad un caso di violenza fisica. Accanto a tante storie finite male, però, ce ne saranno altrettante con un lieto fine. A tentare di dare una spiegazione a determinati comportamenti umani, due figure nel ruolo, spesso invertito, di paziente e psicologo seduti in giardino.

Fermo-immagine-Girotondo-1Sulla carta questo progetto con espliciti rimandi schnitzleriani sembra senza dubbio interessante, benché già fortemente abusato. Il problema è che questo ultimo lavoro di Abballe già fin dalle prime inquadrature convince davvero poco. E non solo per il malriuscito tentativo di dar vita ad un film corale (quanto di più difficile da scrivere), non solo per la discutibile direzione attoriale, ma soprattutto per una regia si potrebbe dire maldestra, che troppo tende ad indugiare su singoli dettagli e che, complice una musica eccessivamente enfatica e ripetitiva, oltre a brevi scene in cui si ricorre addirittura all’animazione senza, però, alcuna logica apparente.

Foto_Antonella_Ponziani_e_Armando_de_Razza_-1Ciò che, però, maggiormente disturba di Girotondo sono proprio i dialoghi: una serie di luoghi comuni, conditi da qualche frase fatta e da situazioni al limite dello stucchevole. Con tali basi, purtroppo ciò che più facilmente si ottiene è un pericoloso effetto comico del tutto involontario.

Malgrado, dunque le intenzioni di sviscerare attraverso il mezzo cinematografico ogni singolo tipo di rapporto di coppia, questo ultimo lungometraggio di Abballe manca totalmente l’obiettivo, risultando uno tra i più deludenti prodotti della stagione cinematografica.

VOTO: 3/10

Marina Pavido

67° FESTIVAL DI BERLINO – THE BAR di Alex De La Iglesia

1239030_the-barTITOLO: THE BAR; REGIA: Alex De La Iglesia; genere: commedia, horror; anno: 2017; paese: Spagna; cast. Mario Casas, Blanca Suarez; durata: 102′

Presentato fuori concorso alla 67° Berlinale, The bar è l’ultimo lungometraggio diretto dal cineasta spagnolo Alex De La Iglesia.

Otto protagonisti per un film corale che, nel corso della narrazione abbandona l’iniziale impostazione teatrale per diventare successivamente un horror classico, ma che, allo stesso tempo, riesce pur sempre a sorprendere. Otto personaggi che si ritrovano, una mattina, a fare colazione in un bar. Dalla bella ragazza sfortunata in amore al giovane in carriera, dalla casalinga dipendente dalle slot machines al senzatetto estremamente religioso, addirittura fanatico, che continua a citare passi tratti dall’Apocalisse di san Giovanni. La carrellata di tipi umani è più variegata che mai. Tutto sembra scorrere secondo le quotidiane consuetudini, quando uno dei clienti, poco dopo essere uscito dal bar, viene centrato in piena fronte da un proiettile sparato non si sa da dove. È a questo punto che le danze avranno inizio.

Ancora una volta, dunque, De La Iglesia si cimenta con il genere horror. Genere che, come di consueto nei film del cineasta di Bilbao (fatta eccezione per Baby’s room, di impostazione piuttosto classica), risulta pregno anche di una comicità grottesca del tutto fuori dagli schemi. È stato così per il recente Las brujas de Zugarramurdi, ad esempio, così come per l’ormai cult Acción mutante, giusto per citare un paio di titoli. Ed anche in The bar – dagli echi (non troppo) vagamente carpenteriani – tali soluzioni risultano decisamente indovinate. Si ride per situazioni al limite dell’assurdo ed anche grazie a personaggi i cui tratti caratteriali sono portati volutamente all’estremo, per poi lasciare spazio alla tensione vera e propria, nel momento in cui i sopravvissuti sono costretti ad una battaglia all’ultimo sangue all’interno delle fogne di Madrid, al fine di procurarsi le ultime doti di antidoto contro un non ben definito virus. Nel frattempo, frequenti – ma mai eccessive o forzate – immagini di proiettili volanti, fiotti di sangue e vomito ed ustioni, unite ad inquadrature dichiaratamente autocompiacenti che vedono primi piani delle forme dell’avvenente protagonista, in piena tradizione, appunto, del cinema di De La Iglesia.

E poi c’è la religione. Ecco che ancora una volta il regista spagnolo – analogamente a quanto fatto con il cortometraggio La confessione, presentato fuori concorso alla 71° Mostra del Cinema di Venezia, all’interno del progetto collettivo Words with Gods – se la prende con il cattolicesimo radicato nella sua nazione. In questo caso, la figura che maggiormente sta a simboleggiare tale critica è indubbiamente quella del senzatetto/profeta, ma anche l’impostazione stessa di tutto il lungometraggio, se vogliamo, durante il quale, appunto, solo a pochi eletti, dopo aver superato determinate prove, sarà dato di salvarsi e di “rinascere” riuscendo finalmente ad uscire in strada attraverso un tombino.

Un De La Iglesia, in pratica, che non fa che riconfermare sé stesso, il suo coraggio e la sua capacità di gestire determinate situazioni e che, anche se con The bar tende un po’ a ripetersi nel genere e nelle tematiche, di certo non delude, ma, al contrario, è capace di intrattenere il pubblico per quasi due ore dando l’impressione che siano passate solo poche decine di minuti. Un De La Iglesia che, in poche parole, ci piace proprio così com’è.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

RIFF 2016 – NON VOLTARTI INDIETRO di Francesco Del Grosso

1466156317815TITOLO: NON VOLTARTI INDIETRO; REGIA: Francesco Del Grosso; genere: documentario; anno: 2016; paese: Italia; durata: 75′

Presentato fuori concorso alla XV edizione del Rome Independent Film Festival, Non voltarti indietro è l’ultimo documentario di Francesco Del Grosso che, partendo dal fatto che ogni anno, in Italia, circa 1000 persone vengono arrestate a causa di errori giudiziari, ci racconta la storia di cinque innocenti – le vicende di ognuno dei quali hanno avuto epiloghi differenti – che hanno vissuto ingiustamente l’esperienza del carcere.

Si apre fin da subito come una sorta di flusso di coscienza corale, Non voltarti indietro. Le voci dei protagonisti – prima ancora che i loro volti vengano mostrati – si alternano in una sorta di cantilena, nel raccontarci come tutto è per loro iniziato, ossia quando sono stati arrestati. Ed ecco che ci troviamo da subito nel vivo della vicenda, catapultati anche noi in un mondo di cui si è sentito molto parlare, ma che non abbiamo mai avuto l’occasione di vivere in prima persona. Si parte, appunto, dal momento dei loro arresti, fino al loro arrivo in carcere, alla loro vita in cella, alla loro scarcerazione – in alcuni casi avvenuta anche dopo parecchi mesi – al loro ultimo tragitto nel corridoio della prigione per raggiungere l’uscita – senza mai voltarsi indietro! – fino ad arrivare alla loro vita dopo il carcere, con tutte le conseguenze che l’immotivato arresto ha portato dietro di sé. Il tutto viene arricchito da suggestive immagini di disegni a matita – che illustrano, di volta in volta, ciò che viene raccontato – dai volti dei protagonisti – ora frontali, ora di profilo – che, in primissimo piano, ci parlano delle loro esperienze, e da anguste riprese a 360° – con abbondante uso del grandangolo – che ci mostrano le celle, i vari ambienti del carcere e – per quanto riguarda chi dopo la galera ha visto la sua vita andare a rotoli – le minuscole abitazioni occupate dopo la scarcerazione. Spazi stretti, chiusi, bui, ma che ben presto – e solo quando a parlare è qualcuno che è riuscito a risollevarsi dopo l’esperienza dell’arresto – diventano soleggiati parchi o belvedere, in cui anche lo spettatore – finalmente – può respirare a pieni polmoni.

La macchina da presa, dal canto suo, più che messaggero o testimone, diventa vero e proprio confidente dei protagonisti del documentario e – fortemente empatica, ma mai invasiva o giudicante – riesce a farci entrare nel vivo delle vicende facendoci sentire parte delle storie raccontate. Il risultato finale è un prodotto forte, emozionante e per niente retorico. Un vero e proprio urlo di rabbia: l’urlo di coloro che hanno visto le loro vite andare a rotoli per colpa di errori che non hanno commesso e l’urlo di tutti noi, che non ci sentiamo per niente tutelati dal sistema legislativo italiano, dal momento che – qualora dovessero verificarsi eventi del genere – nessuno pagherebbe per gli sbagli commessi e – salvo un misero risarcimento – saremmo abbandonati a noi stessi come gli ultimi tra i derelitti. Rabbia e sconforto, ma anche speranza ed una vera e propria iniezione di coraggio, nel momento in cui ascoltiamo le testimonianze di chi è riuscito a superare esperienze del genere.

In poche parole, tante emozioni in pochi minuti. E un documentario decisamente riuscito, a cui, dopo la visione, si continua a tornare con la mente. Cosa, questa, che, come sappiamo, non sempre accade.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – CAFFE’ di Cristiano Bortone

24856-29316-caff-1-2_jpg_620x250_crop_upscale_q85TITOLO: CAFFÈ; REGIA: Cristiano Bortone; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Italia, Cina, Belgio; cast: Hichem Yacoubi, Dario Aita, Fangsheng Lu; durata: 112′

Nelle sale italiane dal 13 ottobre, Caffè è l’ultimo lungometraggio diretto da Cristiano Bortone: una co-produzione italo-cinese-belga presentata in anteprima alla 73° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, nella sezione Giornate degli Autori.

Belgio. Hamed è fuggito dall’Iraq ed ha aperto un’attività insieme alla sua famiglia. Egli è un padre premuroso ed affettuoso. Un giorno, però, qualcuno rapina il suo negozio e l’uomo riesce a rintracciare il ladro – un giovane ragazzo padre disoccupato –al fine di farsi ridare almeno una preziosa macchina del caffè a cui è molto legato. Le cose, però, avranno un esito inaspettato.

Italia. Renzo è un giovane sommelier del caffè appena trasferitosi a Trieste con la sua ragazza, la quale aspetta un bambino. Il ragazzo, però, non riuscendo a trovare lavoro, verrà coinvolto da un gruppo di conoscenti nell’organizzazione di una rapina.

caffeCina. Fei è il giovane manager di un’industria chimica, il quale è in procinto di sposare la figlia del suo capo. Un giorno viene mandato nello Yunnan – la sua terra d’origine – al fine di occuparsi di un grave incidente in alcuni stabilimenti del posto. Qui, grazie anche ad una giovane pittrice solita dipingere i suoi quadri con del caffè, il ragazzo riscoprirà i veri valori della vita.

Senza dubbio, dal punto di vista della scrittura, l’operazione effettuata da Bortone è parecchio interessante. Soprattutto se si pensa ad una società come quella odierna, sempre più xenofoba ed individualista, all’interno della quale ognuno sembra pensare solo a sé stesso e a ciò che lo riguarda in prima persona. E, in questo caso, il caffè – al giorno d’oggi uno dei prodotti più diffusi del mondo – fa da perfetto McGuffin, nonché da indovinato collante all’interno delle tre storie. Storie, queste, che, nonostante tutto, non si incrociano mai. Ma che hanno, appunto, molto più in comune di quanto si possa pensare.

caff_hishem_yacoubi_jpg_351x0_crop_q85Detto questo, il fattore che meno convince è proprio la regia. Dopo una suggestiva scena iniziale in cui vediamo inquadrata una tazzina di caffè con la voce fuoricampo del figlioletto di Hamed intento a leggerne i fondi, tutto il resto del film non riesce a reggere la stessa poesia e la stessa potenza visiva. Saranno il troppo spazio dedicato ai dialoghi a scapito quasi delle immagini, sarà l’universale difficoltà nello scrivere film corali (il buon Robert Altman è stato, in questo settore, una vera e propria mosca bianca), sarà, appunto il troppo “detto” ed il troppo poco “non detto”, ma Caffè ha, purtroppo, tutto l’aspetto di una fiction televisiva. Interessanti le scene in cui viene operato un montaggio alternato (forse eccessivamente usato, però), ad esempio, ma la musica in sottofondo non sempre si rivela appropriata. Al contrario, soprattutto per quanto riguarda la scena del pestaggio di Hamed a casa del ladro, riesce quasi a disturbare lo spettatore.

Peccato. Soprattutto perché – malgrado il tema dell’universalità sia già stato sfruttato – l’idea di unire varie storie e varie culture grazie al caffè è senza dubbio originale, accattivante ed indovinata. Se non altro perché ci regala anche quel tocco di speranza e di ottimismo di cui tutti, in fondo, abbiamo bisogno. Almeno quanto abbiamo bisogno di caffè!

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – LE ULTIME COSE di Irene Dionisio

1464683872020TITOLO: LE ULTIME COSE; REGIA: Irene Dionisio; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Italia, Svizzera, Francia; cast: Fabrizio Falco, Roberto De Francesco, Christina Rosamilia; durata: 85′

Nelle sale italiane dal 29 settembre, Le ultime cose è l’opera prima della giovane regista Irene Dionisio, presentata nella sezione Settimana della Critica all’ultima edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia.

Tante storie che si intrecciano in una Torino dei giorni nostri, che vede, ogni giorno, centinaia di persone fare salti mortali ed importanti rinunce, al fine di poter arrivare a fine mese e mantenere le proprie famiglie. Teatro di tutto ciò è il banco dei pegni. Stefano è un giovane impiegato, appena assunto al banco. Pian piano verrà a conoscenza dei magheggi e delle ingiustizie commesse dai suoi datori di lavoro. Sandra è una giovane trans appena trasferitasi a Torino, per sfuggire ad un passato difficile. Anch’ella – in gravi difficoltà economiche – sarà costretta ad impegnare alcuni dei suoi averi. Michele, infine, è un pensionato, il quale, per poter acquistare un apparecchio acustico al nipotino, entra nel giro del traffico illegale dei pegni.

1469633167402La crisi economica, le mille difficoltà del quotidiano. Senza dubbio il lungometraggio della Dionisio tratta un tema di grande interesse ad attualità Non è uno dei tanti film sul precariato, bensì è un prodotto che si concentra su di una realtà ben precisa: quella del banco dei pegni, appunto. Ed è proprio questa la trovata vincente. Basti pensare ai numerosi compro oro che hanno iniziato la loro attività negli ultimi anni. Le storie qui raccontate sono le storie di ognuno di noi, spiazzanti nella loro normalità. Non dimentichiamo, inoltre, che non c’è nulla di più difficile di realizzare un film corale (non tutti siamo Robert Altman!). Ma Irene Dionisio è stata capace di creare personaggi veri e fortemente empatici, in grado di entrare a contatto con il pubblico fin dai primi minuti.

Un aspetto che, invece, potrebbe far storcere il naso a molti è proprio la regia. Pur vantando uno script semplice e ben realizzato, il lungometraggio ha quasi la forma di una fiction televisiva. Rischio, questo, molto forte, nel momento in cui le storie trattate sono più di una. E, a questo proposito, anche la musica non è stata d’aiuto.

334238-thumb-full-ultimecoseUna scena quasi a sé – in quanto non in linea dal punto di vista formale con il resto del film – è rappresentata, invece, dal momento in cui vediamo arrestarsi per poche ore – durante la chiusura notturna – l’attività del banco dei pegni. Le immagini delle porte chiuse e degli ambienti vuoti, oltre alla pioggia scrosciante all’esterno dell’edificio hanno, senza dubbio, un forte impatto visivo ed emotivo sullo spettatore.

Ultima considerazione: il giovane Fabrizio Falco – già premiato a Venezia nel 2012 con il Premio Mastroianni al Miglior Attore Emergente per È stato il figlio di Daniele Ciprì – ha dato, qui, ulteriore prova del suo talento, confermandosi come uno dei giovani interpreti più promettenti del momento.

Che dire? Come esordio, Le ultime cose presenta senza dubbio degli spunti piuttosto interessanti. Non resta che attendere i prossimi lavori della giovane regista, che, siamo sicuri, avrà ancora tanto e tanto da regalarci.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

ANIMAVì -FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL CINEMA D’ANIMAZIONE POETICO – prima edizione – 14/17 luglio 2016

Ricevo e volentieri pubblico

Pergola (PU) – 14/ 17 luglio 2016

Animavì
Festival Internazionale del Cinema d’animazione poetico

prima edizione

Diretto dal regista Simone Massi, il primo festival al mondo dedicato specificatamente all’animazione poetica e d’autore.
Premio alla Carriera a Emir Kusturica, tra gli ospiti 
il Premio Oscar Aleksandr Petrov, Ascanio Celestini e Valentina Carnelutti, conduce le serate Luca Raffaelli.  

animavi locandinaSi tiene a Pergola (Pesaro – Urbino) nel giardino di Casa Godio, dal 14 al 17 luglio 2016 la prima edizione di ANIMAVÌ – Festival Internazionale del Cinema d’animazione poetico, con la direzione artistica del più importante regista italiano di cinema d’animazione, Simone Massi. Ospite d’eccezione il regista Aleksandr Petrov, vincitore nel 2000 del Premio Oscar per il Miglior Cortometraggio con Il vecchio e il mare, autore anche della sigla e della locandina del festival, mentre il Premio alla Carriera di questa prima edizione è assegnato al regista, musicista e sceneggiatore Emir Kusturica. A condurre le serate Luca Raffaelli, giornalista, saggista, sceneggiatore e uno dei massimi esperti di fumetti e animazione in Italia. Il programma completo al link www.animavi.org. Apre il festival l’attrice e regista Valentina Carnelutti, ospite d’onore e madrina della manifestazione, che presenterà il suo cortometraggio ReCuiem (vincitore di numerosi premi in tutto il mondo); nelle giornate successive l’omaggio sarà invece dedicato ai membri della giuria Umberto Piersanti, Ascanio Celestini e Aleksandr Petrov, tutti presenti nel corso della rassegna. Sedici le opere provenienti da ogni parte del mondo che nel concorso internazionale si contenderanno il Premio Bronzo Dorato per il miglior film d’animazione poetica: Feraldi Daniel Sousa, Chemin Faisan di Georges Schwizgebel, Vasco di Sebastien Laudenbach, Kali the Little Vampire di Regina Pessoa, Nightingales in December di Theodore Ushev,Hipopotamy di Piotr Dumala, Ursus di Reinis Pētersons, The Other Shores di Vasily Chirkov,The Song for Rain di Yawen Zheng, I Was Two di Shiva Sadegh Assadi, A Tale of Longing di Xin Li, A Tangled Tale di Corrie Francis Parks, Spesso viene sera di Paola Luciani, The Song di Ines Sedan, Wiegelied di Naomi van Niekerk, It’s Raining di Anna Shepilova. A questi piccoli capolavori si aggiungono inoltre le otto animazioni inserite nel concorso dedicato alla scuola del libro di Urbino: D’istante di Rojna Bagheri, Certezze di Pietro Elisei, 1/0 di Laura Fuzzi,Corale di Giulia Olivieri, Le matrici dell’io di Francesco Ruggeri, Dasma di Laura Paja, Ho imparato a nuotare di Valentino Marigo, Sarajevo – Ricordi di un assedio di Giacomo Passanisi. A giudicare i lavori, una giuria prestigiosa composta da Ascanio Celestini (in rappresentanza di cinema e teatro), dal poeta Umberto Piersanti (per la letteratura) e dal caposcuola dell’animazione russa Aleksandr Petrov. Nutrita e variegata anche la schiera di ospiti musicali: la cantautrice Frida Neri, l’Ensemble Laus Veris (formazione specializzata nell’esecuzione di musica medievale), Giuliano Dottori e il gruppo folk-rock Gangchiuderanno con i loro concerti le quattro serate, scandite anche dalla proiezione delleMemorie vive del documentarista Filippo Biagianti.

Animavì primo festival al mondo dedicato specificatamente all’animazione poetica e d’autore, vanta già il supporto di numerose figure di spicco della cultura e dell’arte: da Giannalberto Bendazzi, autorevole critico e Presidente onorario del festival, ai membri del Comitato Promotore (fra gli altri Valentina Carnelutti, Ascanio Celestini, Erri De Luca, Nino De Vita, Goffredo Fofi, Daniele Gaglianone, Valeria Golino, Natassja Kinski, Neri Marcoré, Laura Morante, Marco Paolini, Umberto Piersanti, Alba Rohrwacher, Silvio Soldini, Paolo e Vittorio Taviani, Miklós Vámos, Daniele Vicari, Emily Jane White, Emir Kusturica).

Animavì vuole soprattutto rappresentare a livello internazionale il “cinema d’animazione artistico e di poesia”, quel genere di animazione indipendente e d’autore che si propone di raccontare per suggestione, prendendo le distanze in maniera netta dall’animazionemainstream.

arton25636Ho pochissime idee che tuttavia sono chiare, nette, incontrovertibilisottolinea il direttore artistico Simone Massi.Nel momento in cui mi si mette a capo di un progetto non mi si può dire come fare, non mi si può chiedere di essere diverso da quello che sono. E dunque Animavì, bello o brutto, non potrà che somigliarmi. Pergola è un piccolo paese che si attraversa in pochi minuti. Il tentativo è quello di portare qui un certo tipo di persone e farle fermare perché qualcosa ce l’abbiamo anche noi e sfugge a una prima occhiata e magari è più importante di quello che sembra”. Il nome del festival deriva dall’unione di due parole: anima è quella che vibra dinanzi a un’opera d’arte, ma al contempo è l’abbreviazione di animazione e mavì, termine caduto in disuso che identificava il colore azzurro chiaro dei pittori rinascimentali.

Animavì è un evento realizzato grazie all’organizzazione di Mattia Priori, Leone Fadelli, Silvia Carbone e dall’associazione culturale Ars Animae, con il patrocinio di Regione Marche, Ministero della Cultura, Marche Film Commission, Comune di Pergola, SNGCI (Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani) e Accademia del Cinema Italiano.


Per maggiori informazioni:
www.animavi.org
info@animavi.org
www.facebook.com/animavifestival/?fref=ts
cell. +39 338 7998385

Biglietti
Acquistabili su http://www.liveticket.it (costo dell’abbonamento alle 4 serate: 25 euro + diritti di prevendita; costo del biglietto per una singola serata: 7 euro + diritti di prevendita)

LA RECENSIONE DI MARINA: KIKI E I SEGRETI DEL SESSO di Paco Leon

kikiTITOLO: KIKI E I SEGRETI DEL SESSO; REGIA: Paco León; genere: commedia; anno: 2016; paese: Spagna; cast: Natalia De Molina, Alex Garcia, Ana Katz; durata: 102′

Nelle sale italiane dal 23 giugno, Kiki e i segreti del sesso è l’ultima commedia diretta dal regista ed attore spagnolo Paco León.

Una donna è affetta da dacrifilia: si eccita vedendo il partner che piange. Un’altra è affetta da efefilia, cioè prova piacere nello sfiorare soffici tessuti. Un’altra ancora ha l’arpaxofilia, raggiungendo l’orgasmo ogni volta che viene aggredita o derubata. Infine, un uomo è affetto da sonnofilia, cioè ha strani pensieri nel vedere la moglie che dorme. Ovviamente, ognuno dei nostri personaggi ha problemi con  il proprio partner. Almeno fino a quando non prenderà pienamente coscienza delle proprie manie.

xKiki-e-i-segreti-del-sesso.jpg.pagespeed.ic.K5G6GGvIVfI film corali, si sa, sono quanto di più difficile ci sia da realizzare. Non soltanto per la complessità di dover portare avanti tante trame e sottotrame contemporaneamente, quanto per il fatto che il rischio maggiore che si corre nell’intraprendere un simile progetto è quello di dare vita a personaggi che, proprio per la loro breve permanenza sullo schermo e per il loro scarso sviluppo, rischiano di empatizzare poco o – addirittura – di non empatizzare per niente con lo spettatore. Ciò, ovviamente, non è il caso di questo ultimo lungometraggio di León, il quale – dal canto suo – ha saputo creare una commedia brillante, gradevole e provocatoria, che va giù come un bicchiere d’acqua fresca e ti lascia con il buonumore.

kiki_0844_mg_7280Il sesso, spesso e volentieri considerato ancora oggi un argomento tabù, viene qui presentato in un’ottica trasversale, attraverso insolite manie di cui praticamente pochissimi di noi sono a conoscenza. Ed il tutto è condito con un’ironia leggera e mai esagerata.

I colori, la fotografia, una frizzante regia rispecchiano appieno i toni di tutto il film e sembrano ricordare – a volte – il Pedro Almodovar dei tempi d’oro. Si sa, d’altronde è lui il cineasta che ha maggiore influenza sul cinema spagnolo dei giorni nostri. Eppure, nonostante ciò, Kiki e i segreti del sesso ha una propria, onesta identità. Anche se non urliamo al capolavoro del secolo – sia ben chiaro – questo ultimo lavoro di León è comunque un prodotto pulito e ben realizzato, la cui visione non può far altro che regalarci un’ora e quaranta di risate. E questo, ovviamente, non è roba da poco.

VOTO: 7/10

Marina Pavido