68° BERLINALE – INLAND SEA di Kazuhiro Soda

inland-seaTITOLO: INLAND SEA; REGIA: Kazuhiro Soda; genere: documentario; paese: USA, Giappone; anno: 2018; durata: 122′

Presentato in anteprima alla 68° edizione del Festival di Berlino, all’interno della sezione Forum, Inland Sea è l’ultimo, toccante documentario – il quale ci racconta di Ushimado, un piccolo villaggio di pescatori destinato a rimanere deserto – del regista giapponese Kazuhiro Soda.

Un anziano uomo, con il volto pieno di rughe, sale sulla sua barca da pesca e si dirige, come di routine da moltissimi anni a questa parte, verso il paesino in cui abita. La telecamera, inizialmente, si limita a osservare ossequiosamente i gesti dell’uomo, spostandosi, di quando in quando, dalla sua figura al paesaggio circostante. I ritmi sono lenti, contemplativi, non vi sono tagli di montaggio o ellissi temporali. Quasi come se ci si volesse preparare, in religioso silenzio, all’arrivo in un posto tanto isolato quanto affascinante come Ushimado. Ed è una volta giunti qui che lo stesso regista inizia ad interagire con i pochi, anziani abitanti del posto, ascoltando rapito le loro storie e sinceramente curioso di come siano soliti trascorrere le loro giornate. Si tratta di persone dedite principalmente alla pesca o alla vendita stessa del pesce, perfettamente integrate in un contesto come quello di Ushimado e che, trascorrendo il loro tempo libero dando da mangiare ai numerosi gatti randagi che popolano il villaggio e prendendosi cura delle tombe al cimitero, sembrano ormai rassegnate al fatto che, ben presto, il loro amato villaggio resterà deserto.

Kazuihiro Soda – giapponese di nascita, ma statunitense di adozione, che da sempre ha dato vita a prodotti dai toni particolarmente contemplativi che tanto, soprattutto in alcuni momenti, sembrano volerci ricordare addirittura i lavori del celebre cineasta filippino Lav Diaz– sembra fin da subito perfettamente in sintonia con ciò che sta raccontando. Al punto di volersi dedicare quasi del tutto da solo alla realizzazione del documentario, per il quale, appunto, non ha curato solo la regia, ma anche la fotografia ed il montaggio. Ciò che fin da subito maggiormente colpisce, però è l’elegante bianco e nero adottato, che sta a darci l’idea di un luogo senza tempo, di personaggi che esistono ai giorni nostri, ma che sarebbero potuti esistere anche dieci, venti, cinquanta anni fa. Un bianco e nero nostalgico e malinconico, che, allo stesso tempo, sembra guardare Ushimado come un luogo già appartenente ad un’altra epoca.

Non si può non affezionarsi agli anziani abitanti intervistati. Ognuno di loro, malgrado la calma raggiunta, non smette mai di sorprendere con storie spesso anche violente e dolorose, storie di un passato non facile, il quale appare nei loro occhi oggi vivo più che mai.

E poi ci sono i gatti. Trattati alla stregua di veri e propri bambini, il villaggio di Ushimado ne è pieno: gatti randagi, di fatto senza padrone, ma, in realtà con tante persone che si prendono cura di loro; gatti in carne, giocherelloni ed affettuosi, che, abituati ad essere sempre coccolati, si sentono fin da subito perfettamente a loro agio davanti alla macchina da presa di Kazuhiro Soda, avvicinandosi e rotolandosi davanti ad essa senza alcuna remora.

Ma questo viaggio fuori dal tempo, come tutte le cose, ha una fine. E così, verso sera, è ora per il regista e per la sua piccola troupe di salutare le persone incontrate. Un momento malinconico e quasi commovente, che trova la sua giusta conclusione con brevi inquadrature di stradine deserte, illuminate solo dalla luce dei lampioni.

Viaggio o sogno? Sembra voler essere questa la domanda che il regista vuol fare in modo che lo spettatore si ponga. Probabilmente entrambe le cose. E così, quasi come a svegliarsi da un lungo sogno, nell’ultima inquadratura, il bianco e nero lascia pian piano il posto al colore. Scelta registica suggestiva e potente che si classifica come il giusto coronamento di un lavoro pregiato e ben realizzato. Una delle inaspettate sorprese di questa ricchissima 68° Berlinale.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

VENEZIA 74 – PIAZZA VITTORIO di Abel Ferrara

PIAZZA_VITTORIO_PIC002TITOLO: PIAZZA VITTORIO; REGIA: Abel Ferrara; genere: documentario; paese: Italia; anno: 2017; durata: 82′

Presentato fuori concorso alla 74° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, Piazza Vittorio è l’ultimo documentario del celebre cineasta statunitense, ma di origini italiane, Abel Ferrara.

Sulla scia degli attuali dibattiti circa l’immigrazione e la difficoltà a far sì che i nuovi arrivati possano integrarsi nel nostro paese, Ferrara – con la sua piccola troupe e nell’arco di soli pochi giorni – ha realizzato una serie di interviste a clandestini, immigrati, artisti, clochards, politici e storici abitanti del posto, in modo da darci un ritratto completo e fedele di ciò che è oggi piazza Vittorio. Tra i vari interventi ricordiamo, in particolar modo, quello di Matteo Garrone e di Willem Dafoe, i quali, proprio per il fascino della piazza dato dalla sua multietnicità, hanno deciso di trasferircisi.

Il risultato finale è, come ben si può immaginare, un ritratto variegato e pieno di vita, dove l’amore per una città come Roma, in generale, è palpabile fin dai primi minuti. Particolarmente suggestive, a tal proposito, immagini di artisti di strada, di balli, di canti, di persone intente a fare la spesa nello storico mercato coperto, di mamme con neonati, di anziani seduti al parco e di bambini intenti a giocare a pallone. Si potrebbe quasi affermare che basterebbero soltanto tali immagini a fornirci un quadro esaustivo del tutto. Dal canto suo, anche lo stesso Ferrara vuole entrare a far parte del gioco, non esitando ad entrare in campo egli stesso, mentre interagisce con gli intervistati. Ed ecco che il metacinema anche stavolta svolge un ruolo quasi centrale nel dare al tutto quel tocco in più che non guasta mai.

Il problema di un documentario come Piazza Vittorio è, in realtà, proprio il fatto di concentrarsi esclusivamente sulla questione dell’immigrazione, quando, invece, sarebbe stato interessante dar vita ad un lavoro più complesso, che ci permettesse di conoscere anche la storia della piazza stessa e di come sia cambiata la vita nel corso dei decenni, all’interno di essa. A poco, di fatto, servono i brevi filmati di repertorio inseriti. Ciò che però maggiormente disturba è una battuta – risultante fastidiosamente ipocrita e buonista – dello stesso Abel Ferrara, rivolta ad uno dei clandestini al termine di un’intervista: “Anch’io qui in Italia sono un immigrato, sto cercando di vivere con la mia arte”.

Che peccato, quando accadono certe cose. Fino a prova contraria, di fatto, Abel Ferrara il suo lavoro sa farlo eccome. E senza questa cadute di stile avrebbe potuto realizzare indubbiamente qualcosa di davvero, davvero importante. Che dire? Sarà per la prossima volta!

VOTO: 6/10

Marina Pavido

VENEZIA 74 – HUMAN FLOW di Ai Weiwei

image001-9TITOLO: HUMAN FLOW; REGIA: Ai Weiwei; genere: documentario; paese: Germania; anno: 2017; durata: 140′

Presentato in concorso alla 74° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, Human Flow è l’ultimo documentario diretto dal controverso artista cinese Ai Weiwei, il quale, per l’occasione, ha affrontato un lungo viaggio al fianco dei numerosi migranti di tutto il mondo.

Al giorno d’oggi, più di 65 milioni di persone in tutto il mondo sono state obbligate ad abbandonare le loro case ed il loro paese a causa di guerre, carestie o cambiamenti climatici. Per quanto riguarda l’informazione circa le reali cause scatenanti o le condizioni di vita dei migranti, vi sono, però, non poche lacune. Almeno per quanto riguarda i canali ufficiali di informazione. È (anche) per questo motivo, dunque, che Ai Weiwei – da sempre attento alla politica del proprio paese e di tutto il mondo, nonché, più in generale, alla società – ha deciso di dar vita al progetto Human Flow. Progetto, questo, maestoso, imponente, dove ad immagini particolarmente forti e disturbanti (prima fra tutte, quella del cadavere in decomposizione di un bambino), si contrappongono visioni decisamente poetiche (quali contemplativi tramonti sul mare), o anche suggestivi colpi d’occhio dati da frequenti plongés che ci mostrano, di volta in volta, accampamenti, bambini che giocano o giubbotti di salvataggio che – visti da lontano – stanno quasi a ricordarci un quadro astratto.

Come in ogni sua opera – cinematografica o meno – che si rispetti, inoltre, anche qui Ai Weiwei ha deciso di “mostrarsi” al pubblico, di essere, in qualche modo, parte integrante dell’opera stessa, pur restando, però, almeno in questo contesto, decisamente moderato: non lo vediamo rompere un antico vaso cinese, non lo vediamo fare gestacci contro monumenti o istituzioni, ma, al contrario, ci appare, qui, particolarmente empatico, seppur un tantino autocompiacente. Ed eccolo, dunque, intento ad aiutare i più anziani, a danzare con un gruppo di persone o, addirittura, a riprendere gli interessati insieme alla sua piccola troupe, concentrato nel dare indicazioni ai tecnici. E, inutile dirlo, la componente metacinematografica riesce ad aggiungere, anche in questa occasione, un tocco in più.

Ciò che di Human Flow convince poco sono, in realtà, le numerose, troppe didascalie presenti, le quali – fatta eccezione per qualche citazione di poesie da tutto il mondo – si limitano a comunicare dati e numeri, contribuendo a dare al tutto un tocco pericolosamente televisivo. Lo scivolone peggiore, però, è stato preso dall’artista proprio nel finale, avendo scelto come frase di chiusura un’affermazione eccessivamente utopica e buonista pronunciata da uno dei politici da lui intervistati. Tale infelice scelta ha fatto perdere non pochi punti a tutto il lavoro nel suo insieme. E, soprattutto, ci ha fatto, in qualche modo, rimpiangere l’Ai Weiwei estremo che da sempre conosciamo ed apprezziamo.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – WEST OF THE JORDAN RIVER di Amos Gitai

WestOfTheJordanRiver-Photo1-AmosGitai_986TITOLO: WEST OF THE JORDAN RIVER; REGIA: Amos Gitai; genere: documentario; paese: Israele; anno: 2017; durata: 88′

Presentato alla Quinzaine der Réalisateurs alla 70° edizione del Festival di Cannes, West of the Jordan River è l’ultimo documentario del celebre cineasta israeliano Amos Gitai.

Ricollegandosi inizialmente all’ ultimo documentario del cineasta israeliano (Rabin, the last day, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2015), è proprio dalla figura dell’ex Primo Ministro israeliano – Yitzhak Rabin, appunto – e dal suo progetto di mediazione che prende il via West of the Jordan River. Fu lo stesso Gitai, a suo tempo ad intervistare Rabin. Molti anni dopo l’assassinio dello stesso, però, la situazione non appare migliorare, sebbene da parte della popolazione il desiderio di pace sia forte come non mai. Ed ecco che adulti, bambini, membri di associazioni che prevedono la convivenza tra arabi ed israeliani fanno sentire le loro voci alla telecamera, raccontando ognuno la propria, personale realtà ed alternandosi, di quando in quando, ad analisi di giornalisti e storici.

Ed il cinema, in tutto ciò, che fa? Di certo non è un semplice spettatore, o meglio un testimone silente. Il cinema, in questo ultimo lavoro di Gitai diviene di diritto un vero e proprio attore, presente com’è in ogni situazione mostrataci. Ed ecco che non solo il regista stesso, ma anche macchine da presa, microfoni ed operatori fanno il loro ingresso in campo, quasi a voler ricordare l’importanza stessa della Settima Arte, in qualità di ulteriore strumento di informazione, denuncia ed esortazione ad agire.

Se si pensa al penultimo lavoro di Gitai – Rabin, the last day, appunto – di certo West of the Jordan River per quanto riguarda la messa in scena stessa può essere – erroneamente – classificata come un’opera di gran lunga più modesta rispetto all’imponente documentario presentato a Venezia, in cui anche il live action aveva avuto il proprio spazio. Eppure, questa ultima fatica del cineasta israeliano modesta non lo è affatto. Ciò che abbiamo davanti agli occhi è un intenso film corale, molto personale e comunicativamente efficace che non esita a mostrarci la cruda realtà, ma che, tuttavia, non cela nemmeno una certa speranza ed un certo ottimismo per quanto riguarda un prossimo futuro. Sono la prova di ciò l’immagine di una giostra e di alcuni giocatori di backgammon in chiusura del film, che stanno a suggerire un contesto sereno e pacifico. Eccessivamente ingenuo? Fin troppo ottimista? Più che altro, decisamente speranzoso, West of the Jordan River. Speranzoso e tanto, tanto efficace. Anche stavolta, dunque, la Settima Arte ha saputo colpire nel segno.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – PIIGS di Adriano Cutraro, Federico Greco, Mirko Melchiorre

piigs1TITOLO: PIIGS; REGIA: Adriano Cutraro, Federico Greco, Mirko Melchiorre; genere: documentario; anno: 2017; paese: Italia; cast: Claudio Santamaria (voce); durata: 76′

Da aprile nelle sale italiane, PIIGS è un tagliente documentario d’attualità firmato a sei mani da Adriano Cutraro, Federico Greco e Mirko Melchiorre.

Da otto anni, ormai, siamo ufficialmente entrati in piena crisi economica. L’acronimo “PIIGS” (che significa letteralmente “maiali”) è stato per l’occasione coniato per indicare quei paesi europei che, negli ultimi anni, hanno adottato riforme economiche e costituzionali tali da aggravare maggiormente la crisi in atto, nonché da rendere praticamente impossibili le condizioni di vita da parte di un numero sempre più elevato di cittadini, i quali a stento possono permettersi una casa o cure sanitarie. Tali paesi sono Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna. In seguito ad una lunga indagine durata cinque anni, i tre cineasti si sono interrogati circa le possibili strategie da adottare al fine di uscire dalla crisi, consultando ed intervistando anche personalità del calibro di Noam Chomsky, Warren Mosler, Stephanie Kelton, Federico Rampini, Paolo Barnard ed Erri De Luca.

Il regime dell’austerity può davvero aiutarci in questo periodo di crisi? Partendo da tale considerazione, gli autori hanno man mano scandagliato tutti i dogmi adottati dai paesi europei che ci hanno portato inevitabilmente alla condizione attuale. Ed ecco che, con un andamento accattivante, si potrebbe dire addirittura pop, ma con un linguaggio elementare (con la voce narrante di Claudio Santamaria che si intervalla ad interviste, filmati di repertorio e piccole animazioni), PIIGS ci esorta tutti a riflettere su ciò che maggiormente ci riguarda, passando da un contesto più ampio, fino a concentrarsi sul singolo, prendendo in esame, nello specifico, la situazione della Cooperativa “Il Pungiglione”, che si occupa di assistenza a persone disabili e con problemi psichici e che, proprio a causa della crisi, rischia oggi il fallimento.

Per la sua efficacia comunicativa, per il suo stile dinamico e a volte ironico, con un vivace commento musicale in sottofondo e, tuttavia, per la sua linearità narrativa PIIGS risulta oggi, come potrebbe risultare in qualsiasi altro momento storico, un prodotto decisamente necessario. Vera e propria perla nel panorama del documentario italiano da non lasciare assolutamente passare inosservata.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

EVENTO SPECIALE: PINO DANIELE – IL TEMPO RESTERA’ di Giorgio Verdelli

1200x675TITOLO: PINO DANIELE – IL TEMPO RESTERA’; REGIA: Giorgio Verdelli; genere: documentario; anno: 2017; paese: Italia; durata: 105′

Nelle sale italiane solo il 20, 21 e 22 marzo, Pino Daniele – Il tempo resterà è un sentito documentario diretto dall’esperto di musica Giorgio Verdelli, omaggio all’indimenticato cantante partenopeo.

Sono stati in molti a raccontarci la vita di questo straordinario personaggio venuto a mancare prematuramente: da James Senese a Renzo Arbore, da Jovanotti ad Enzo Gragnaniello, fino a Peppe Servillo, Massimo Ranieri, Vasco Rossi e molti altri ancora. In sottofondo, le canzoni del celebre cantautore che tutti – chi più, chi meno – conosciamo. E così, tra filmati di repertorio ed interviste, ecco arrivare in sala un prodotto profondamente sentito e toccante, sincero e mai didascalico, che, forse, soltanto nel finale – con l’apparizione di Bianca Guaccero a rimirare i dischi del cantante – sembra risultare un po’ forzato.

Eppure, chi ha avuto modo di apprezzare il cantautore in vita, non potrà non essere soddisfatto anche da questo omaggio. Si preannunciano, dunque, tre giorni di pienone nelle sale che lo avranno in palinsesto!

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – A GOOD AMERICAN di Friedrich Moser

good-moser-1TITOLO: A GOOD AMERICAN; REGIA: Friedrich Moser; genere: documentario; anno: 2016; paese: USA, Austria; durata: 100′

In arrivo nelle sale italiane, A good American è l’ultimo lavoro diretto dal documentarista austriaco Friedrich Moser e prodotto da Oliver Stone.

Bill Binney è un matematico americano ideatore del programma di sorveglianza ThinThread. Tale programma permetteva in modo discreto ed economico di tenere sotto controllo i cittadini americani, al fine di evitare eventuali atti terroristici. Proprio per il fatto di essere così economico, però, i vertici della National Security Agency hanno deciso di scaricarlo esattamente tre settimane prima dell’attentato dell’11 settembre. Non appena, un anno dopo, un amico di Binney decise di riavviare il programma, circa un anno dopo l’attentato, ecco comparire i nomi dei terroristi. A quel punto, l’NSA decise di chiuderlo definitivamente.

Una storia del genere, ovviamente, non avrebbe potuto restare sotto silenzio a lungo. Ed ecco che Moser, con questo suo ultimo lavoro, si mette a scandagliare, grazie ad una serie di interventi di cui lo stesso Binney è parte integrante, si mette a scandagliare ogni singolo passaggio dalla nascita di ThinThread alla sua chiusura,con tanto di riflessioni in merito.

Documentario dall’andamento piuttosto classico e da un taglio prettamente televisivo, A good American risulta, tuttavia, un prodotto di tutto rispetto, che non manca, inoltre, di lasciare aperta una speranza per quanto riguarda una possibile ripresa del programma stesso. Con tanto di esortazione ai cittadini a firmare una petizione in merito.

Anche per questo motivo, oltre che per l’importante tema che, nella sua attualità, riguarda tutti noi, A good American risulta un prodotto necessario, che, si spera, possa avere in tutto il mondo la risonanza che merita.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

 

LA RECENSIONE DI MARINA – MAESTRO di Alexandre Valenti

crop2_visuel-du-film-pour-que-vive-la-musique-des-camps-le-maestro-d-alexandre-valenti_imgTITOLO: MAESTRO; REGIA: Alexandre Valenti; genere: documentario; anno: 2016; paese: Italia, Francia; cast: Francesco Lotoro; durata: 75′

Nelle sale italiane dal 23 gennaio, Maestro è l’ultimo documentario di Alexandre Valenti.

Il regista ci mostra l’appassionante viaggio attraverso l’Europa di Francesco Lotoro, musicista e studioso alla ricerca di testimonianze e documenti che gli permettano di rintracciare ed archiviare tutta la musica composta dagli internati dei campi di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale.

unnamed-6-1024x575Josef Kropinski, Viktor Ullman, Gideon Klein, Rudolf Karel sono solo alcuni nomi che ci hanno lasciato in dono intense melodie direttamente dai campi di concentramento. Musiche che sono, di fatto, l’anima di questo ultimo lavoro di Valenti. Maestro, a sua volta, è pensato principalmente con una struttura narrativa lineare, schematica, con un’importante voce narrante presente in quasi tutto il lungometraggio e che, a tratti, risulta un po’ troppo didascalica. A fare da contorno, ci sono, oltre ai filmati di repertorio, le interviste: talvolta sono i compositori stessi rimasti ancora in vita a raccontarci le origini della loro musica, altre volte sono i loro eredi. E poi, finalmente, è l’ora di ascoltare i brani.

lotoro-696x463Scelta azzeccata, quella di avere optato per una regia semplice e priva di qualsiasi orpello. Dato il tema trattato, però, e data, soprattutto, la poesia di ciò che si è messo in scena, si sarebbe potuto scegliere un andamento narrativo più vicino al flusso di coscienza stesso. Mirate didascalie, ad esempio, avrebbero potuto venire in aiuto. Ma queste, ovviamente, sono solo ipotesi azzardate.

Fatto sta che  tra tutti i film in uscita in sala in occasione della Giornata della Memoria, Maestro si è rivelato, quest’anno, uno dei prodotti maggiormente interessanti e caratterizzato da una ben marcata identità. Una piccola opera, in pratica, a cui vale decisamente la pena dedicare poco meno di un’ora e mezza del nostro tempo.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – MAGIC ISLAND di Marco Amenta

magic-island-2-1024x576TITOLO: MAGIC ISLAND; REGIA: Marco Amenta; genere: documentario; anno: 2016; paese: Italia, USA; durata: 74′

Nelle sale italiane dal 12 gennaio, Magic Island è l’ultimo prodotto del documentarista Marco Amenta, il quale, in questo suo lavoro, ci racconta in modo trasversale il celebre attore e caratterista statunitense, ma di origini siciliane, Vincent Schiavelli.

La vicenda prende il via da Los Angeles, dove vive e lavora come musicista Andrea, figlio ventisettenne dell’attore, il quale – pur essendo legatissimo al padre – negli ultimi anni non è più riuscito a coltivare il loro rapporto. Un giorno Andrea riceve la telefonata di Katia, compagna del padre scomparso, la quale gli chiede di recarsi nel loro paese, al fine di ritirare alcuni soldi che Schiavelli aveva lasciato in eredità in un conto corrente da estinguere. Anche se non sarà facile, Andrea partirà alla volta di Polizzi Generosa e qui avrà modo di conoscere realmente il genitore scomparso.

vincent-schiavelli-600x400D’accordo, di storie del genere ne abbiamo viste tante, quello sì. Eppure questo ultimo documentario di Amenta, vuoi per l’enigmatica – ma non troppo – figura di Vincent Schiavelli, vuoi per la tecnica narrativa utilizzata, vuoi per la magia dei posti raccontati, a fine visione lascia una piacevole quanto rara sensazione di appagamento interiore.

Inizialmente vediamo giovane ragazzo su una nave, prossimo ad arrivare in Sicilia. Chi sarà mai questo giovane? Ed ecco che facciamo un salto temporale fino a qualche settimana prima, al fine di fare la conoscenza di Andrea e della sua vita, fino al momento in cui il ragazzo decide di partire per la Sicilia. È questo, forse, il momento più debole di tutto il documentario, in quanto la macchina da presa, spesso e volentieri, tende ad indugiare eccessivamente sulla quotidianità del ragazzo, dandoci informazioni talvolta decisamente ridondanti. Amenta, però, riesce a riprendersi immediatamente in seguito all’arrivo del ragazzo in Sicilia. È qui, infatti, che – man mano che la figura di Vincent Schiavelli si fa meno misteriosa – assistiamo ad un vero e proprio crescendo visivo e sonoro, con una musica – composta dallo stesso Andrea – che si fa via via sempre più “presente” e gli abitanti, i profumi, i colori del paesino siciliano esplodono nel vero senso della parola sul grande schermo, facendoci sentire subito parte di quei posti magici, vera e propria trasfigurazione dello scomparso Schiavelli. Esplosione, questa, che lascia poi posto ad una rinnovata tranquillità, quando arriva il momento per Andrea di lasciare le terre del padre e di tornare, come rinato, alla vita di tutti i giorni.

news_178035Perché, di fatto, in questo documentario di Amenta è la terra la vera protagonista, trattata alla stregua di un vero e proprio essere vivente, con il suo potere salvifico. Ottimo espediente per raccontare un personaggio come Schiavelli, che abbiamo visto più e più volte, ma che, forse, non abbiamo mai avuto modo di conoscere a sufficienza. Alla terra è affidato, dunque, l’importante incarico di ridargli vita. Per il resto, pochissimi – e brevissimi – sono i filmati di repertorio utilizzati (spezzoni di film, filmati privati, ecc.) e addirittura assenti sono le interviste frontali. Il tutto è raccontato come una sorta di film a soggetto a tutti gli effetti.

Quali critiche si potrebbero muovere, dunque, ad un documentario come Magic Island? Che, forse, proprio per la tecnica narrativa adottata, manca talvolta di spontaneità e risulta eccessivamente costruito? Può darsi. Eppure, nonostante ciò, il risultato finale è un prodotto di tutto rispetto, contemplativo e poetico al punto giusto, ma anche vivo, commovente ed allegro allo stesso tempo e, ciononostante, mai eccessivo.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

RIFF 2016 – UNDER THE GUN di Katie Couric e Stephanie Soechtig

under-the-gun-sundance-2016TITOLO: UNDER THE GUN; REGIA: Katie Couric,Stephanie Soechtig; genere: documentario; anno: 2016; paese: USA; durata: 106′

Presentato in anteprima alla XV edizione del Rome Independent Film Festival, Under the gun è l’ultimo documentario di Katie Couric e Stephanie Soechtig, che ci mostra il lungo iter finalizzato a creare una legge che regoli la vendita di armi a privati, dato il grande numero di stragi che hanno avuto luogo negli scorsi decenni.

Fin dai primi minuti vediamo sullo schermo le immagini del terribile massacro della scuola Sandy Hook, dove persero la vita 20 bambini: immagini di repertorio che si mescolano a fotografie, insieme ad interviste ai genitori di alcune delle vittime.

Pur prendendo determinate posizioni, le registe non mancano di mostrarci i diversi punti di vista in merito, siano essi di gente esaltata o di mamme che vogliono solo proteggere i propri bambini, classificandosi sin dal principio come un prodotto a cui tutto si può dire tranne che non sia intellettualmente onesto. Senza dubbio, ci troviamo di fronte ad un documentario ricco e variegato, sia per quanto riguarda i temi portati sul grande schermo, che per le scelte di messa in scena adottate, che prevedono un uso copioso della musica – spesso in crescendo, a seconda di ciò che si sta raccontando – oltre a, come abbiamo detto, l’alternarsi di fotografie d’epoca e filmati di repertorio. Il tutto montato in modo omogeneo e con i giusti ritmi. Il risultato finale, però, è un prodotto che vedremmo maggiormente “a proprio agio” su di uno schermo televisivo, piuttosto che in una sala cinematografica. “Colpa”, appunto, dell’uso eccessivo della musica, “colpa” del montaggio, “colpa” dello slogan in chiusura che invita i cittadini a votare per limitare la vendita di armi, così come della scelta di esplicare i fatti in tono prettamente “giornalistico”, senza abbellimenti od orpelli alcuni.

Ma sta bene. Malgrado la penalizzazione dell’estetica, Under the gun riesce nel suo iniziale intento primario: quello di informare i cittadini e di esplicare i fatti. E questo, di sicuro, è già qualcosa.

VOTO: 6/10

Marina Pavido