LA RECENSIONE – LA SETTIMA ONDA di Massimo Bonetti

la_settima_onda_ft_01TITOLO: LA SETTIMA ONDA; REGIA: Massimo Bonetti; genere: drammatico; paese: Italia; anno: 2018; cast: Francesco Montanari, Valeria Solarino, Alessandro Haber; durata: 87′

Nelle sale italiane dal 24 maggio, La Settima Onda è l’opera prima del celebre attore Massimo Bonetti.

La storia qui messa in scena è la storia di una forte amicizia e di una grande passione comune: la storia di Tanino, un giovane pescatore di un paesino del Sud Italia, con il sogno di diventare attore, il quale, tuttavia, ha presto abbandonato le sue speranza giovanili, al fine di mandare avanti la casa e di pagare un gravoso mutuo. Le difficoltà economiche, così come il difficile rapporto con la suocera, sono i suoi principali problemi. Al fine di far fronte alle numerose difficoltà, dunque, il giovane tenterà anche la strada del crimine. Solo l’incontro con un misterioso uomo, anziano e solitario, sembrerà riuscire a cambiargli la vita.

Una storia senza tempo, questa messa in scena da Bonetti. Non sono presenti né computer, né telefoni cellulari, nelle vite dei protagonisti. Ciò che vediamo potrebbe essere accaduto oggi, come venti o trenta anni fa. Una vicenda con personaggi e, soprattutto, una location che per la loro caratterizzazione e per la forte empatia con il pubblico stanno a rappresentare il vero cavallo di battaglia dell’intero lavoro.

A fare da collante tra il protagonista e il suo nuovo amico, il Cinema. Il grande cinema, quello di Bergman e di Rossellini. Il cinema immortale, in grado di smuovere in qualsiasi epoca gli animi di ognuno. È anche un omaggio alla settima arte, dunque, questo interessante lavoro di Bonetti, il quale, per quanto riguarda l’utilizzo di tale elemento, ha affermato di essersi ispirato a un suo incontro avvenuto nella vita di tutti i giorni.

Peccato solo per alcuni elementi di sceneggiatura (vedi, ad esempio, l’elemento del crimine o lo stesso rapporto tra Tanino e sua moglie) che non sono stati sviluppati come auspicato. Ma, d’altronde, non sempre è facile gestire tanti fattori in una sola volta. Soprattutto quando si tratta di un’opera prima.

Fortunatamente, Massimo Bonetti ha saputo regalarci un prodotto ben riuscito e a tratti anche commovente, una storia universale che nel suo piccolo una certa efficacia ce l’ha eccome e che di certo saprà arrivare a un buon numero di spettatori.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

68° BERLINALE – INLAND SEA di Kazuhiro Soda

inland-seaTITOLO: INLAND SEA; REGIA: Kazuhiro Soda; genere: documentario; paese: USA, Giappone; anno: 2018; durata: 122′

Presentato in anteprima alla 68° edizione del Festival di Berlino, all’interno della sezione Forum, Inland Sea è l’ultimo, toccante documentario – il quale ci racconta di Ushimado, un piccolo villaggio di pescatori destinato a rimanere deserto – del regista giapponese Kazuhiro Soda.

Un anziano uomo, con il volto pieno di rughe, sale sulla sua barca da pesca e si dirige, come di routine da moltissimi anni a questa parte, verso il paesino in cui abita. La telecamera, inizialmente, si limita a osservare ossequiosamente i gesti dell’uomo, spostandosi, di quando in quando, dalla sua figura al paesaggio circostante. I ritmi sono lenti, contemplativi, non vi sono tagli di montaggio o ellissi temporali. Quasi come se ci si volesse preparare, in religioso silenzio, all’arrivo in un posto tanto isolato quanto affascinante come Ushimado. Ed è una volta giunti qui che lo stesso regista inizia ad interagire con i pochi, anziani abitanti del posto, ascoltando rapito le loro storie e sinceramente curioso di come siano soliti trascorrere le loro giornate. Si tratta di persone dedite principalmente alla pesca o alla vendita stessa del pesce, perfettamente integrate in un contesto come quello di Ushimado e che, trascorrendo il loro tempo libero dando da mangiare ai numerosi gatti randagi che popolano il villaggio e prendendosi cura delle tombe al cimitero, sembrano ormai rassegnate al fatto che, ben presto, il loro amato villaggio resterà deserto.

Kazuihiro Soda – giapponese di nascita, ma statunitense di adozione, che da sempre ha dato vita a prodotti dai toni particolarmente contemplativi che tanto, soprattutto in alcuni momenti, sembrano volerci ricordare addirittura i lavori del celebre cineasta filippino Lav Diaz– sembra fin da subito perfettamente in sintonia con ciò che sta raccontando. Al punto di volersi dedicare quasi del tutto da solo alla realizzazione del documentario, per il quale, appunto, non ha curato solo la regia, ma anche la fotografia ed il montaggio. Ciò che fin da subito maggiormente colpisce, però è l’elegante bianco e nero adottato, che sta a darci l’idea di un luogo senza tempo, di personaggi che esistono ai giorni nostri, ma che sarebbero potuti esistere anche dieci, venti, cinquanta anni fa. Un bianco e nero nostalgico e malinconico, che, allo stesso tempo, sembra guardare Ushimado come un luogo già appartenente ad un’altra epoca.

Non si può non affezionarsi agli anziani abitanti intervistati. Ognuno di loro, malgrado la calma raggiunta, non smette mai di sorprendere con storie spesso anche violente e dolorose, storie di un passato non facile, il quale appare nei loro occhi oggi vivo più che mai.

E poi ci sono i gatti. Trattati alla stregua di veri e propri bambini, il villaggio di Ushimado ne è pieno: gatti randagi, di fatto senza padrone, ma, in realtà con tante persone che si prendono cura di loro; gatti in carne, giocherelloni ed affettuosi, che, abituati ad essere sempre coccolati, si sentono fin da subito perfettamente a loro agio davanti alla macchina da presa di Kazuhiro Soda, avvicinandosi e rotolandosi davanti ad essa senza alcuna remora.

Ma questo viaggio fuori dal tempo, come tutte le cose, ha una fine. E così, verso sera, è ora per il regista e per la sua piccola troupe di salutare le persone incontrate. Un momento malinconico e quasi commovente, che trova la sua giusta conclusione con brevi inquadrature di stradine deserte, illuminate solo dalla luce dei lampioni.

Viaggio o sogno? Sembra voler essere questa la domanda che il regista vuol fare in modo che lo spettatore si ponga. Probabilmente entrambe le cose. E così, quasi come a svegliarsi da un lungo sogno, nell’ultima inquadratura, il bianco e nero lascia pian piano il posto al colore. Scelta registica suggestiva e potente che si classifica come il giusto coronamento di un lavoro pregiato e ben realizzato. Una delle inaspettate sorprese di questa ricchissima 68° Berlinale.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

35° TORINO FILM FESTIVAL – 2557 di Roderick Warich

2557TITOLO: 2557; REGIA: Roderick Warich; genere: drammatico, thriller; paese: Germania, Thailandia; anno: 2017; cast: Leonel Dietsche, Wason Dokkathum; durata: 111′

Presentato alla 35° edizione del Torino Film Festival nella sezione Onde, 2557 è l’opera prima del giovane regista e sceneggiatore tedesco Roderick Warich.

Ci troviamo a Bangkok, nell’anno 2557. Due studenti tedeschi passano le loro serate a bere e divertirsi nei locali della città. Una sera, uno di loro fa la conoscenza e si innamora di una bella ragazza del posto, al punto di decidere, insieme all’amico, di tornare nel suo paese e recuperare dei soldi necessari ad aprire un ristorante in Thailandia. Una volta tornato, però, verrà derubato di tutto il denaro dalla sua stessa ragazza, la quale sparirà misteriosamente.

Un thriller/non thriller, in realtà, questa opera prima di Roderick Warich. Una volta avvenuto il furto, infatti, tutto il lungometraggio sembra abbandonare i toni iniziali, per cominciare una riflessione sul tempo e sulla caducità dell’esistenza umana. Cosa, questa, spesso in linea con autori come Hou Hsiao-Hsien o Wong Kar-Wai, a cui lo stesso Warich si ispira dichiaratamente.

L’operazione, tuttavia, pur essendo sotto molti aspetti piuttosto interessante, può dirsi riuscita solo a metà. Ottima la regia, che prevede intense carrellate ed immagini di una Bangkok notturna non sempre a fuoco, con tutte le sue luci ed i suoi colori. Stesso discorso vale per le poche scene in diurna, dove vediamo la giovane rifugiarsi insieme a due amici in una casa in riva al mare. L’andamento volutamente lento, tra l’altro, rende bene il concetto della precarietà della vita e dello scorrere del tempo che lo stesso regista ha voluto trasmetterci. Il reale problema di un lungometraggio come 2557 è, in realtà, proprio la mancanza di spontaneità dello stesso Warich. Si ha l’impressione che il regista, volendo a tutti i costi rifarsi agli autori sopracitati, si sia lasciato prendere eccessivamente la mano, perdendo pericolosamente di genuinità e svolgendo quasi un compitino impeccabile nella sua forma, ma, in fin dei conti, praticamente fine a sé stesso.

Sia ben chiaro, se tutte le opere prime che ogni anno vengono prodotte fossero allo stesso livello di 2557, non potremmo far altro che gioire. Il livello complessivo dell’opera, di fatto, è piuttosto alto, malgrado tutto. I problemi sopracitati sono, in questo caso, frutto di un’evidente immaturità stilistica, come se Warich dovesse ancora trovare una propria dimensione all’interno dell’universo cinematografico. Poco male, però. Giovane com’è, ha tutto il tempo di scoprire quale sia la sua strada.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

 

67° FESTIVAL DI BERLINO – RETURN TO MONTAUK di Voelker Schloendorff

201719812_1-h_2017TITOLO: RETURN TO MONTAUK; REGIA: Völker Schlöndorff; genere: drammatico; anno: 2017; paese: Germania, USA; cast: Stellan Skarsgård, Nina Hoss; durata: 106′

Presentato in concorso alla 67° edizione della Berlinale, Return to Montauk è l’ultimo lungometraggio diretto dall’autore tedesco Völker Schlöndorff.

Ci troviamo a New York, dove l’acclamato scrittore Max Zorn – ormai non più giovanissimo – è appena arrivato con la moglie per presentare il suo ultimo romanzo, che parla di un vecchio amore finito male. Il caso vuole che la sua antica fiamma – un’avvenente avvocato di origini tedesche – lavori e viva proprio a New York. I due, ovviamente, si incontreranno e decideranno di trascorrere un fine settimana insieme a Montauk, località sul mare dove erano soliti passare parecchio tempo insieme. Sarà ancora amore o soltanto nostalgia dei tempi passati?  Comunque vadano le cose, arriveremo ad un punto in cui il destino dei due protagonisti finirà per non interessarci minimamente. Soprattutto perché il grande problema di un lungometraggio come Return to Montauk è un vero e proprio concentrato di banalità e luoghi comuni come non se ne vedevano da anni.

Dopo un iniziale primissimo piano di Stellan Skarsgård che parla del suo libro, della sua infanzia e del rapporto con suo padre (incipit, questo, che inizialmente farebbe anche ben sperare in qualcosa di interessante), ecco che prendono il sopravvento, dunque, una storia ai limiti della banalità – priva anche di un’approfondita e necessaria riflessione introspettiva – una colonna sonora decisamente disturbante (la scena madre in merito è rappresentata dalla scena in cui Max/Skarsgård reincontra il suo amore di gioventù ed un gruppetto di violini inizia a suonare una melodia talmente sdolcinata da chiedersi se si stiano prendendo sul serio o meno) e, dulcis in fundo, delle ambientazioni che hanno quasi del mocciano, giusto per essere cattivi quanto basta. Una chicca di tutto rispetto, a tal proposito, è rappresentata, durante una scena in cui i due amanti passeggiano sulla spiaggia completamente deserta, dalla presenza di un faro in riva al mare. E credo che, a questo punto, non ci sia null’altro da aggiungere in merito.

La cosa che maggiormente lascia basiti è che, di fatto, un autore come Völker Schlöndorff di talento ne ha eccome. E infatti, da un punto di vista prettamente registico, Return to Montauk è un film pressoché perfetto. Peccato, però, che quel disturbante senso di obsolescenza presente nelle ultime opere del cineasta tedesco sia stato qui portato all’estremo in modo irrecuperabile. C’è solo da augurarsi un eventuale (ma improbabile) ritorno alle origini, a questo punto. E, nel frattempo, continueremo a sognare vecchi tamburi di latta.

VOTO: 4/10

Marina Pavido

11° FESTA DEL CINEMA DI ROMA -MOONLIGHT di Barry Jenkins

1663TITOLO: MOONLIGHT; REGIA: Barry Jenkins; genere: drammatico; anno: 2016; paese: USA; cast: Mahershala Ali, Naomie Harris, Trevante Rhodes; durata: 110′

Film di apertura dell’11° Festa del Cinema di Roma è Moonlight, diretto dal giovane regista statunitense Barry Jenkins.

Chiron è un bambino fragile, il quale viene bullizzato dai suoi coetanei e, come se non bastasse, vive una difficile situazione familiare, in quanto sua madre è dipendente dalla droga. Saranno l’incontro con uno spacciatore del luogo – che fin da subito prende a cuore la situazione del ragazzo – e l’amicizia con il coetaneo Kevin ad aiutare il ragazzino a sopravvivere all’ambiente in cui vive, a conoscersi e a crescere.

Apertura piuttosto deludente, quella di quest’ultima edizione della Festa del Cinema. Malgrado le attese, infatti, Moonlight risulta un prodotto decisamente deludente che non riesce a salvarsi da banali clichés, ma che, al contrario, si è classificato come un lungometraggio “furbo”, con il solo intento di accattivarsi consensi di pubblico e di critica. Senza riuscire del tutto nel suo scopo, però.

Facendo eccezione per la recitazione – di fatto, tutti gli interpreti si sono rivelati perfettamente all’altezza dei loro ruoli – e fatta eccezione anche per la regia – ottima la scelta dell’uso frequente di camera a spalla, così come particolarmente riuscita è l’operazione di ricostruzione di particolari ambienti ed atmosfere – questo ultimo lungometraggio di Jenkins, seppur adottando inizialmente un’interessante struttura narrativa (suddividendo il film stesso in tre sezioni: le principali fasi della vita di Chiron), non riesce a mantenere lo stesso ritmo durante tutta la durata, rendendo il tutto eccessivamente frammentato, fino a dargli pericolosamente la forma di una sorta di soap opera, man mano che ci si avvicina al finale.

Per quanto riguarda il tema trattato – la scoperta della propria omosessualità – va fatto un discorso a parte. Ora, volenti o nolenti, abbiamo avuto spesso modo di notare, negli ultimi anni, con quale frequenza analoghe situazioni siano state trasposte sul grande schermo. Ma, ovviamente, al di là di ciò che si vuole parlare, l’importante, alla fin fine, è come parlarne, come raccontarlo per immagini. E, purtroppo, in Moonlight troviamo una scarsa quanto raffazzonata indagine psicologica in merito, a causa della quale non ci si riesce a staccare da banali e sbagliati luoghi comuni. Oltre, ovviamente, a situazioni già abbondantemente viste e riviste.

Ultima considerazione: nel lontano 1959 un giovane critico cinematografico francese, tale François Truffaut, girò la sua opera prima, I 400 colpi: grande capolavoro della storia del cinema che si conclude con l’immagine del giovane protagonista Antoine Doinel, il quale, dopo una corsa sulla spiaggia, guarda in macchina. Bene, allora dov’è il problema? Il problema è che tale scena è stata citata e barbaramente scopiazzata così spesso che ogni volta che si presenta l’ennesimo film  con una simile conclusione, la reazione che si ha è quasi di rabbia, oltre che di sconforto. Non credo, a questo punto, serva dire altro.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA: LA CANZONE DEL MARE di Tomm Moore

saoirseTITOLO: LA CANZONE DEL MARE; REGIA: Tomm Moore; genere: animazione, fantasy, drammatico; anno: 2015; paese: Irlanda, Lussemburgo, Belgio, Francia, Danimarca; durata: 93′

Nelle sale italiane dal 23 giugno, La canzone del mare è l’ultimo lungometraggio diretto da Tomm Moore e candidato all’Oscar come Miglior Film di Animazione.

Ben vive in un faro insieme a suo padre ed alla sorellina Saoirse. Sua mamma – metà donna metà foca – è morta di parto anni prima. Un giorno la nonna va a fargli visita e – convinta che il faro non sia un posto adatto dove far crescere dei bambini – lo porterà con sé – insieme alla sorellina – in città. I due bimbi cercheranno in ogni modo – mediante un lungo viaggio in un mondo di antiche leggende e magia – di tornare nella loro vecchia casa.

xLa-canzone-del-mare-La-mamma-in-una-delle-prime-scene-del-film.jpg.pagespeed.ic.ihCiq10ceoL’animazione europea, si sa, da sempre ci regala piacevoli sorprese. E questo è anche il caso dell’ultimo lavoro di Tomm Moore, ispirato alla mitologia delle Selkies del folklore irlandese. In primis, è una grafica essenziale, ma suggestiva allo stesso tempo – che rifiuta totalmente la tridimensionalità, tanto amata dal cinema statunitense – a colpirci. Il tratto a volte netto, a volte sfumato delle figure accompagna una narrazione lieve e scorrevole. Narrazione, questa, che ci conduce in un appassionante viaggio nel mondo della mitologia nordeuropea, regalandoci una storia semplice quanto intensa e commovente.

la-canzone-del-mare-slider-1200x562Il mito, l’amore tra due fratelli, la figura della madre sono i temi centrali del lavoro di Moore. Temi che stanno a celare un forte bisogno di essere amati, di conoscere sé stessi e le proprie origini. Ed ecco che Ben e Saoirse crescono ed imparano ad accettarsi. Ben imparerà ad accettare la sua bizzarra sorellina e Saoirse imparerà a rapportarsi al difficile carattere del fratello maggiore. Un romanzo di formazione che abbraccia tanti mondi diversi e non ha paura di contaminarsi con la magia e le tradizioni popolari.

La-canzone-del-mare-02E che dire dell’acqua? Altra grande protagonista di La canzone del mare, l’acqua sta a simboleggiare la vita, il grembo materno, l’unico tramite tra il mondo reale e la magia. Ed il tutto viene messo in scena evitando pericolosi luoghi comuni o déjà vu, malgrado l’alta frequenza con cui si fa ricorso a questo elemento, ma creando, al contrario, un prodotto memorabile nell’ambito dell’animazione europea, e non solo.

La canzone del mare fa parte, dunque, di quei piccoli gioielli che, malgrado il loro valore, non sempre sono stati considerati come avrebbero meritato. Però, approfittando della permanenza in sala, la sua visione è un regalo che non possiamo assolutamente non farci.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

AL VIA IL XX VALSUSA FILMFEST – dal 9 aprile all’8 maggio

Ricevo e volentieri pubblico

Al via il XX Valsusa Filmfest
Festival sul recupero della memoria storica e sulla difesa dell’ambiente

Tema dell’edizione: “Margini e Periferie”
dal 9 aprile all’8 maggio 2016
ad Almese, Avigliana, Bardonecchia, Bussoleno, Caprie, Condove, Giaveno, Mattie, Torino, Venaus e progetto “Corti Dentro” nelle carceri di Fossano (CN),  Pozzuoli (NA), Sollicciano (FI) e al Ferrante Aporti di Torino
Tutti gli eventi sono gratuiti  |  www.valsusafilmfest.it
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Festival poliartistico e itinerante in 8 comuni della Valle di Susa, a Giaveno e a Torino  con concorso cinematografico, il progetto ‘Corti dentro’ con proiezioni e giurie del concorso anche in quattro carceri, film fuori concorso, incontri, spettacoli teatrali e la grande festa dei XX anni con concerto dei Lou Dalfin. Il tema principale dell’edizione è “Margini e Periferie” e viene affrontato dalle terre alte al mare attraverso la voce dei migranti, dai reclusi alle testimonianze della Terra dei Fuochi e dei quartieri dell’Ilva di Taranto, dall’esperienza del popolo Mapuche alla tradizione dei sinti, ecc.. perché  IL CENTRO È CIECO e LA VERITÀ SI VEDE DAI MARGINI.

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Dal 9 aprile all’8 maggio 2016  si svolge la XX edizione del Valsusa Filmfest, festival poliartistico sui temi del recupero della memoria storica e della difesa dell’ambiente che da 20 anni anima un territorio aperto all’incontro e al confronto culturale attraverso il concorso cinematografico e numerosi eventi tra letteratura, cinema, musica, arte e impegno civile che in questa edizione si svolgeranno in 8 comuni della Valle di Susa Almese, Avigliana, Bardonecchia, Bussoleno, Caprie, Condove, Mattie, Venaus oltre che a Giaveno e a Torino.

Il tema principale di questa edizione è “MARGINI E PERIFERIE”, scelto dall’associazione Valsusa Filmfest per dare spazio e voce, anche quest’anno, alla ricchezza del territorio e alla diversità delle prospettive ex-centriche: dalle terre alte al mare attraverso la voce dei migranti, da chi si trova recluso alle testimonianze che arrivano dalla Terra dei fuochi e dai quartieri dell’Ilva di Taranto, dall’esperienza del popolo Mapuche alla tradizione dei sinti… per mettere in evidenza che il centro è cieco e la verità si vede dai margini.

L’APERTURA DEL 9 APRILE CON NICOLÒ BONGIORNO E LE TERRE ALTE
L’apertura ufficiale della XX edizione è in programma sabato 9 aprile alle ore 21 con NICOLÒ BONGIORNO, figlio dell’indimenticato Mike, che presenterà il suo film “Cervino la montagna del mondo” al Palazzo delle Feste di Bardonecchia. Un film-documentario che presenta il Cervino con una storia che si sviluppa su più piani narrativi, alla ricerca di una nuova “via” dentro se stessi attraverso la sfida alla montagna…

I FILM SUI “MARGINI” E L’INCONTRO CON RAYEN KVYEH DEL POPOLO MAPUCHE
Il tema dei “Margini” viene affrontato con diversi film fuori concorso.
Domenica 10 aprile alle ore 21 al Teatro Magnetto di Almese viene  presentato “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi, film girato a Lampedusa sulla tragedia degli sbarchi e vincitore dell’ Orso D’Oro all’ultimo Festival di Berlino. Il 12 aprile a Giaveno è in programma “Io Rom Romantica” di Laura Halilovic e al cinema di Condove il 13 aprile “Bella e Perduta” di Pietro Marcello sulla terra dei fuochi, il 21 aprile “Un posto sicuro” di Francesco Ghiaccio sul tema dell’amianto a Casale Monferrato, il 27 aprile “Un altro mondo” Thomas Torelli, film che propone una riflessione sull’interconnessione esistente tra uomo e universo, un viaggio alla scoperta delle conoscenze di antichi uomini tribali, tra fisica quantistica e credenze per sfidare la visione moderna del mondo..
Nella stessa serata del 27 aprile,  il tema di “un altro mondo” possibile verrà affrontato anche grazie all’incontro con RAYEN KVYEH, poetessa e rappresentante del popolo Mapuche, che vedrà il film e ne discuterà insieme al pubblico raccontando il modo di vivere e le lotte del suo popolo.

IL CONCORSO CINEMATOGRAFICO, IL PROGETTO “CORTI DENTRO” e GLI INCONTRI NELLE SCUOLE
Il concorso cinematografico si articola in 4 sezioni – Cortometraggi, Le Alpi, Fare Memoria, Videoclip – per le quali sono pervenute 240 opere molte delle quali dall’estero e specificatamente da Australia, Bangladesh, Germania, Spagna e Russia.  Le proiezioni delle opere finaliste si svolgono tra il 15 e il 28 aprile a Condove. Il 24 aprile il filmato vincitore della sezione Fare Memoria viene presentato anche al Museo della Resistenza di Torino grazie a una collaborazione attiva da cinque anni.
Con il progetto “CORTI DENTRO” il 12 ed il 13 aprile le opere finaliste delle sezioni Cortometraggi e Videoclip verranno proiettate anche all’interno delle carceri di Fossano (CN),  Pozzuoli (NA), Sollicciano (FI) e al carcere minorile Ferrante Aporti di Torino. Il progetto è stato avviato nel 2013 in collaborazione con le associazioni “Sapori Reclusi”, “Rete del Caffè Sospeso” e “Cinema e Diritti”, viene sostenuto dall’8 per mille della Tavola Valdese e prevede anche la costituzione di una giuria mista per le due sezioni di concorso, composta dalla giuria del festival e da una selezione di detenuti.
Il tema della reclusione viene sottoposto ai ragazzi dei licei del territorio, il 18 aprile al Norberto Rosa di Bussoleno ed il 20 aprile al Des Ambrois di Oulx, con la proiezione del film “Recidiva Zero – Riflessioni intorno all’articolo 27 della Costituzione italiana” di Carlo Turco e Bruno Vallepiano. «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»; I ragazzi potranno ragionare su queste parole dell’art. 27 della nostra costituzione, il 18 aprile insieme agli autori ed il 20 aprile con la regista Adonella Marena

IL RICORDO DI ARMANDO CESTE, IL LIBRO SU TINO AIME E LA FESTA DEI 20 ANNI
Il 14 Aprile a Torino in Via Baltea 3 / Laboratori di Barriera si svolgerà un evento speciale intitolato “Memoria Resistente, ARMANDO CESTE e i 20 anni del Valsusa Filmfest”  con presentazione del sito web e dell’archivio dedicato alla memoria di uno dei pionieri del cinema sociale italiano che fu anche tra i fondatori del Valsusa Filmfest. A sette anni dalla sua scomparsa una serata con proiezioni di alcuni parti dei suoi film ed interventi di persone che lo hanno conosciuto e d hanno lavorato con lui.
Il 15 ed il 16 aprile, a Susa e ad Oulx, viene presentato il libro intitolato “Tino Aime. Vorrei dipingere l’aria” di Valter Giuliano ed. il Graffio, volume che tratteggia la multiforme personalità dell’artista valsusino raccontandone l’evoluzione artistica accompagnata da vicende personali che aiutano a conoscere l’Uomo.
Venerdi 29 Aprile a Condove si svolgerà la GRANDE FESTA PER I 20 ANNI DEL FILMFEST con il concerto dei LOU DALFIN al quale parteciperanno da spalla i CoroMoro. I Lou Dalfin sono il gruppo più rappresentativo della musica e della cultura delle valli occitane subalpine, nonché un nome di punta del rock indipendente nazionale; i CoroMoro è un coro formato da giovani richiedenti asilo politico nelle Valli di Lanzo che cantano canzoni tradizionali dialettali e non.

IL PRIMO MAGGIO A TARANTO
Quest’anno il Filmfest ha organizzato una importante anteprima il 20 marzo ad Avigliana con CONSEGNA DEL PREMIO BRUNO CARLI a Michele Riondino e al Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti di Taranto. Michele Riondino, “Il giovane Montalbano”, è da anni parte integrante del Comitato tarantino ed il Premio Bruno Carli viene destinato in ogni edizione ad esponenti di realtà impegnate sul territorio italiano in difesa dei diritti e dell’ambiente. Tre esponenti del Valsusa Filmfest riconsegneranno il Premio anche sul palco del concertone del 1° Maggio tarantino di cui Riondino è direttore artistico.

GLI SPETTACOLI TEATRALI
Il teatro trova ampio spazio attraverso la co-produzione del nuovo spettacolo teatrale a cura di Marco Alotto, collaboratore storico del festival, dal titolo “Dalla vigna al cuore del mondo”, tratto dall’omonimo libro di Chiara Sasso, che verrà presentato il 30 aprile a Bussoleno, il 6 maggio a Caprie eil 7 maggio a Venaus.
Lo spettacolo nasce da un laboratorio teatrale condotto dall’attore e regista con abitanti della Valle in un lavoro sulla memoria storica del territorio e sulla sperimentazione di nuovi linguaggi scenici partendo dalla vita di Alessio Maffiodo, uomo forte e schivo, ex comandante partigiano e testimone dell’incontro tra culture diverse, quella contadina e quella extracomunitaria.
Domenica 8 Maggio si concluderà la XX edizione del Festival al Teatro Fassino di Avigliana dove andrà in scena “Insanity e altre storie…”, spettacolo teatrale della compagnia Fabula Rasa con i ragazzi diversamente abile del progetto Teatro senza Confini e con i giovani profughi africani del progetto Black Fabula.

GLI EVENTI OFF FESTIVAL
Nel mese di maggio si svolgeranno altri tre eventi organizzati dall’Associazione Valsusa Filmfest.
Il 14 maggio a Bussoleno il concerto spettacolo “IN SiEME” della band Alieni di Vetro, il 18 maggio al Cinema di Condove “Giostre per Giovani e Vecchi”, concerto del cantautore lampedusano  Giacomo Sferlazzo con i musicisti Jacopo Andreini, Samuele Venturin e Piero Spitilli e il 29 maggio la “Corsa campestre sui sentieri partigiani” da Mattie a Bussoleno organizzata in collaborazione con la Podistica di Bussoleno e la sezione ANPI di Bussoleno .

LA RECENSIONE DI MARINA: FUOCOAMMARE di Gianfranco Rosi

Attualmente in programmazione nelle sale italiane ed unico film italiano in concorso per l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, “Fuocoammare” è l’ultima fatica del documentarista Gianfranco Rosi.

fuocoammareDue mondi, due diverse realtà sono protagoniste dell’opera di Rosi: la vita degli abitanti di Lampedusa, abitudinaria, tranquilla, “ottusa” e le vicende dei migranti che ormai da vent’anni sbarcano numerosi nella suddetta isola. Figura centrale: un bambino di nome Samuele, appassionato di fionde, di caccia e con problemi alla vista.

5c605240e8Questo ultimo documentario di Rosi – cineasta famoso per la sua totale immersione nei mondi che racconta – risulta piuttosto efficace nel mostrare allo spettatore aspetti di una quotidianità che ha luogo da molti, troppi anni e di cui si sa ancora molto poco. Non risparmia, il regista, la visione di immagini forti, crude (basti pensare ai cadaveri sulle barche), non risparmia la sofferenza dei migranti – alcuni coscienti, altri del tutto inconsapevoli su quella che è la loro situazione. E realizza tutto ciò con un accurato studio di regia: ogni immagine, ogni inquadratura è perfettamente calibrata, nulla è lasciato al caso. Al punto, quasi, di suscitare non poche critiche sfavorevoli circa l’autenticità del girato. Molte scene, infatti, risultano eccessivamente retoriche e manieriste (si pensi allo sfogo di uno dei migranti che si unisce al coro dei suoi compagni di viaggio).

Fuoco-ammareDetto questo, però, il risultato finale riesce appieno a raggiungere lo scopo che il regista si era prefissato: quello di mostrare una storia vera e tristemente attuale attraverso persone vere ed attraverso le loro sofferenze (particolarmente d’impatto sono i primissimi piani di alcuni migranti appena sbarcati a Lampedusa).

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Se si pensa al penultimo lavoro di Rosi – il documentario “Sacro G. R. A.”, vincitore del Leone d’Oro alla Mostra di Venezia nel 2013 – questa ultima opera è di gran lunga più “vera”, stilisticamente e visivamente di maggiore impatto, oltre a contenere un’importante metafora sulla società odierna. Proprio la figura di Samuele, infatti, con il suo “occhio pigro”, che lo costringe ad indossare una benda, sta a simboleggiare una società abituata a guardare più che a vedere, la quale volentieri distoglie lo sguardo da qualcosa di poco gradito.

“Fuocoammare”, di Gianfranco Rosi, è tutto questo: un crudo e trasparente documento su ciò che avviene intorno a noi e su ciò che noi stessi siamo.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA: IL SENTIERO DELLA FELICITA’ di Paola Di Florio e Lisa Leeman

Nelle sale italiane dal 16 febbraio, “Il sentiero della felicità” (“Awake: The Life of Yogananda”), documentario scritto e diretto da Paola Di Florio e Lisa Leeman, tratta il tema dello yoga, della meditazione e del loro diffondersi nella cultura occidentale attraverso lo swami indiano Paramahansa Yogananda.

Il documentario ripercorre la vita del celebre yogi attraverso testimonianze, fotografie, immagini di repertorio, ma anche scene girate al fine di dare continuità alla narrazione, mostrandoci, così, la nascita di questa disciplina e la sua evoluzione.

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La co-regia di due affermate documentariste – italiana, ma trapiantata negli States l’una, Americana l’altra – ci fa subito pensare ad un prodotto avvincente, che sappia sì raccontare un tema di cui si è già parlato molto, ma che sappia anche crearlo trovando una chiave di lettura quantomeno innovativa, dando, così, un taglio, uno sguardo distintivo al tutto. Eppure, il suddetto documentario, non ha saputo trovare una propria realizzazione soddisfacente. Vediamo perché.

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I primi fotogrammi del lungometraggio sono, senza ombra di dubbio, cinema puro: la superficie del mare ed i raggi del sole alternati con dissolvenze incrociate creano un effetto psichedelico, mediante una vera e propria coreografia di luci ed ombre e, allo stesso tempo, trasmettono un senso di pace e di sacralità. Peccato, però, che dopo questa sorta di “ouverture” decisamente di impatto il documentario non abbia sfruttato al massimo tutte le sue potenzialità. La narrazione, infatti, procede in modo piatto e poco coinvolgente: un collage di fotografie d’epoca, di immagini di repertorio e di brevi scene di finzione, con una voice over che recita brani tratti dagli scritti dello stesso Yogananda non sono sufficienti a coinvolgere lo spettatore. Non è presente, infatti, alcun climax, narrativo o emotivo che sia e l’effetto ottenuto è quello di un prodotto sì interessante, ma decisamente enciclopedico e manierista.

il-sentiero-della-felicita-hdimgAnalogamente, volendoci concentrare sulle scene girate appositamente per la realizzazione del documentario, il tentativo di “ricostruire” scene d’epoca mediante l’uso del digitale e con una color correction che dà un effetto irreale e poco credibile, si è rivelato uno scivolone da parte delle documentariste. La cosa che meno convince, per quanto riguarda le immagini, è che esse tendono a seguire alla lettera ciò che la voice over dice. Quest’ultima, infatti, finisce, così, per doppiare le immagini stesse, rendendo il tutto eccessivamente didascalico.

paramhansagrandeUna nota di merito, però, va fatta: interessante il modo in cui lo sguardo umano ed il suo ruolo vengono trattati. É presente, qui, infatti, una poetica metafora del cinema: il cinema come parallelismo dell’occhio umano e l’importanza della luce, senza la quale non ci sarebbe il cinema stesso, senza la quale l’uomo non avrebbe la facoltà di osservare il mondo. Tutto ciò è sottolineato anche mediante primissimi piani di sguardi, contrapposti ad immagini proiettate sul grande schermo.

Detto questo, però, il documentario della Di Florio e della Leeman risulta piuttosto debole. Un prodotto sì interessante, ma privo di uno sguardo personale, capace di mantenere viva l’attenzione dello spettatore durante tutta la sua durata.

VOTO: 5/10

Marina Pavido