LA RECENSIONE – MADE IN ITALY di Luciano Ligabue

made-in-italy-film-ligabue-trailerTITOLO: MADE IN ITALY; REGIA: Luciano Ligabue; genere: drammatico; anno: 2017; paese: Italia; cast: Stefano Accorsi, Kasia Smutniak, Fausto Maria Sciarappa; durata: 104′

Nelle sale italiane dal 25 gennaio, Made in Italy sancisce il ritorno del cantante Luciano Ligabue dietro la macchina da presa, dopo diversi anni di pausa.

Riko è sposato da circa vent’anni e lavora in una fabbrica di salumi. Il suo matrimonio sembra andare a rotoli, così come il suo lavoro. Ristabilita la serenità di coppia e trovatosi improvvisamente disoccupato, l’uomo faticherà a trovare un nuovo impiego. L’unica soluzione sembrerebbe quella di lasciare definitivamente l’Italia.

La storia qui messa in scena è la stessa raccontata da molti altri lungometraggi italiani contemporanei: la crisi, l’amore per il proprio paese e per la famiglia, la precarietà del lavoro sono tematiche che ricorrono piuttosto frequentemente, ai giorni nostri. Ma la cosa in sé non sarebbe un problema, nel caso in cui il prodotto in questione fosse un lungometraggio valido e ben realizzato. Il problema di un film come Made in Italy, però, è che, malgrado le iniziali buone intenzioni, malgrado l’evidente empatia del regista/cantante nei confronti della storia, a causa di uno script che fa acqua da tutte le parti e di interpreti che – sebbene indubbiamente validi – sembrano non sentirsi particolarmente a proprio agio nei panni dei personaggi qui impersonati, si è finito inevitabilmente per dare vita ad un lavoro quasi raffazzonato e, a tratti, anche involontariamente comico, dove imbarazzanti dialoghi fanno da cornice ad una sceneggiatura sfilacciata e pericolosamente disorganizzata.

Ed ecco che l’iniziale conflitto del protagonista – ossia la sua infelicità coniugale – viene risolto in men che non si dica dopo soli pochi minuti, per lasciare il posto ad altre questioni come la crisi lavorativa o la morte di un amico, lasciando però in sospeso elementi precedentemente tirati in ballo (vedi, ad esempio, la figura dell’amante di Riko che, una volta scaricata, minaccia di raccontare tutto alla moglie).

Anche da un punto di vista prettamente registico, Made in Italy lascia parecchio a desiderare. Una regia a tratti macchinosa e piuttosto maldestra non riesce a dare a scene studiate ad hoc il pathos necessario. È questo, ad esempio, il caso della sequenza in cui vediamo Riko ed i suoi amici correre di notte per Roma su dei monopattini elettrici per turisti – con in sottofondo, rigorosamente, la voce del cantante – o del momento in cui vediamo il protagonista organizzare insieme alla moglie una specie di finto matrimonio, atto a coronare definitivamente il loro amore.

E così, anche se i precedenti lavori del cantante – Radiofreccia e Da zero a dieci – tutto sommato non si erano rivelati dei prodotti completamente disprezzabili, questo Made in Italy proprio non è riuscito a far centro. Chissà cosa accadrà con il prossimo lungometraggio!

VOTO: 4/10

Marina Pavido

35° TORINO FILM FESTIVAL – MOST BEAUTIFUL ISLAND di Ana Asensio

most_beautiful_island_sxsw_winnerTITOLO: MOST BEAUTIFUL ISLAND; REGIA: Ana Asensio; genere: drammatico, thriller; paese: USA; anno: 2017; cast: Ana Asensio, Natasha Romanova, David Little; durata: 80′

Presentato alla 35° edizione del Torino Film Festival nella sezione After Hours, Most Beautiful Island è l’opera prima della regista ed attrice spagnola Ana Asensio.

Luciana è un’avvenente ragazza spagnola con un difficile passato alle spalle, la quale, al fine di iniziare una nuova vita, ha deciso di trasferirsi lontano dal suo paese di origine. La crisi economica e, soprattutto, il fatto di ritrovarsi da sola in un paese straniero, le impediranno di trovare una propria stabilità. La donna, costretta a dividersi tra più lavori, finirà per accettare un misterioso incarico, molto ben pagato, presso una festa privata.

Seppur ricca di spunti interessanti questa opera prima della Asensio, al termine della visione, convince davvero poco. E ciò dipende soprattutto dallo script (realizzato dalla stessa regista): una storia eccessivamente povera che, pur promettendo molto man mano che ci si avvicina al finale, finisce irrimediabilmente per sgonfiarsi come un palloncino, trasmettendo allo spettatore uno spiacevole senso di incompiutezza. Eppure, di spunti interessanti ce n’era eccome. La situazione di partenza, ad esempio, sembrava promettere molto. Stesso discorso vale per quanto riguarda la regia, incredibilmente matura nonostante la scarsa esperienza della Asensio dietro la macchina da presa: con una tecnica quasi zavattiniana, l’obiettivo non perde mai di vista la sua protagonista e, allo stesso modo, sa ben rendere la confusione ed il senso di spaesamento che si può provare all’interno di una città come New York, grazie ad immagini non sempre a fuoco (soprattutto per quanto riguarda le persone incontrate per strada) ed un costante uso di camera a spalla.

Dal genere prettamente drammatico, però, si finisce per passare quasi al thriller, nel momento in cui vediamo la protagonista raggiungere il misterioso luogo dove si svolge la festa. E la cosa andrebbe anche bene, se non fosse, appunto, per la povertà della sceneggiatura in sé che, a causa di una struttura eccessivamente scarna, non fa che rendere il tutto pericolosamente sfilacciato e privo di unità tematica.

Uno dei pochi elementi, unitamente alla regia, che in Most Beautiful Island sembra tuttavia funzionare è proprio la protagonista, la quale regge bene la scena più per la sua espressività che per la sua caratterizzazione all’interno dello script stesso. Poco o nulla si dice, ad esempio, del suo passato. L’unica cosa che si può intuire è che, molto probabilmente, la donna sia colpevole della morte prematura della sua figlioletta. Grave errore, dunque, tirare in ballo un elemento di tale portata, per poi abbandonarlo completamente.

Peccato, dunque, che un prodotto promettente come questa opera prima della Asensio sia stato sprecato così. Non vi sono dubbi, infatti, sulle potenzialità registiche della giovane interprete. Chissà, magari in futuro, con altri lavori, riuscirà anche a riscattarsi. A patto che non la si faccia scrivere, però.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – DIRECTIONS di Stephan Komandarev

directions_3_h_2017TITOLO: DIRECTIONS; REGIA: Stephan Komandarev; genere: drammatico; paese: Bulgaria, Germania, Macedonia; anno: 2017; cast: Vasil Vasilev-Zueka, Ivan Barnev, Irini Zhambonas; durata: 104′

Nelle sale italiane dal 27 novembre, Directions è un interessante lungometraggio corale diretto dal cineasta bulgaro Stephan Komandarev.

In una Sofia dei giorni nostri, un piccolo imprenditore, che per arrotondare lavora come tassista, uccide, in un momento di disperazione, un banchiere a cui deve un’ingente somma di denaro, per poi tentare a sua volta il suicidio. Nella notte, mentre la notizia viene trasmessa dalle emittenti radio locali e nazionali, cinque tassisti, ognuno con la propria storia e le proprie difficoltà, percorrono le strade della città in cerca di nuove direzioni e di nuovi modi in cui affrontare la vita.

Già dopo una prima, sommaria lettura della sinossi, immediatamente ci viene da pensare a Taxi Teheran, interessante lungometraggio di Jafar Panahi interamente girato in un taxi (poiché il governo iraniano non permette a Panahi di girare film). Analogamente all’opera di Panahi, questo lungometraggio di Komandarev si svolge quasi per intero all’interno di taxi – pur raccontandoci non una, ma tante storie, ognuna drammatica a modo proprio – dove viene attaccato in modo (non troppo) velato il governo bulgaro e dove la crisi, la disoccupazione ed il denaro si fanno temi portanti di tutto il lavoro.

Non è facile, come sappiamo, dare vita ad un film corale. Ci è più e più volte riuscito il grande Robert Altman, ma molti altri hanno miseramente fallito. Eppure, un film come Directions regge eccome. Interessanti e ben caratterizzati sono, ad esempio, i protagonisti della pellicola, così come le loro storie – fatta solo qualche piccola eccezione. Ciò che convince meno è, purtroppo, proprio il fatto che, man mano che ci si avvicina al finale, il prodotto ci appare sempre più sfilacciato, i vari collegamenti tra ogni singola storia non vengono sfruttati a dovere e si ha quasi la sensazione che fino alla fine ci sia qualcosa di irrisolto.

Poco male, però. Soprattutto perché, nonostante tutto, stiamo parlando di un prodotto mediamente buono, ulteriore conferma dell’alto valore produttivo di un paese come la Bulgaria, che, come sappiamo, sa spesso regalarci interessanti sorprese.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

VENEZIA 74 – FIRST REFORMED di Paul Schrader

first-reformed-movie-reviewTITOLO: FIRST REFORMED; REGIA: Paul Schrader; genere: drammatico; paese: USA; anno: 2017; cast: Ethan Hawke, Amanda Seyfried, Cedric Kyles; durata: 108′

Presentato in concorso alla 74° edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, First Reformed è l’ultimo lungometraggio diretto dall’acclamato regista Paul Schrader.

Padre Toller è un ex cappellano militare, nonché pastore di una piccola chiesetta di provincia, tormentato dai sensi di colpa per la morte di suo figlio, dopo averlo costretto ad arruolarsi, ma, allo stesso tempo, con il difficile compito di aiutare una coppia di giovani sposi in attesa del loro primo bambino a ritrovare la fiducia nei confronti della vita.

Alcuni dei leit motiv di tutta la filmografia del regista sembrano, qui, finalmente, trovare un proprio, giusto compimento. Primi fra tutti: i temi della religione e della scoperta di sé stessi, in un modo o nell’altro vere e proprie costanti all’interno della carriera di Schrader stesso.

Il formato in 4:3, unito ad una fotografia virata al grigio, ad inquadrature a camera fissa e ad un copioso uso del grandangolo, sta fin dai primi minuti a suggerirci un contesto apparentemente senza tempo (sappiamo dai dialoghi dei personaggi, che la storia è ambientata nel 2017, ma, di fatto, sia per quanto riguarda le scenografie che gli oggetti di scena – fatta eccezione per un computer – abbiamo l’impressione di trovarci in una sorta di luogo dove il tempo stesso sembra essersi fermato), talmente angusto ed angosciante da rispecchiarsi perfettamente nell’animo del bressoniano protagonista.

La sua iniziale compostezza e la sua apparente sicurezza, però, inizieranno ben presto a vacillare, al punto di arrivare a prendere, dopo mesi e mesi di terribili tormenti interiori, una decisione a dir poco estrema. Ed ecco che anche l’iniziale (e magistrale!) rigidità registica sembra lasciare il posto, man mano, a movimenti di macchina via via più agili che, insieme ad una musica paragonabile più che altro ad un bordone, ci accompagneranno durante tutto il difficile percorso del protagonista. Da un maestro come Paul Schrader, d’altronde, viene praticamente naturale aspettarsi una tale padronanza del mezzo cinematografico. Stesso discorso vale per Ethan Hawke, il quale rende alla perfezione i vari cambi di registro del protagonista, in un crescendo di emozioni, senza mai andare sopra le righe.

Purtroppo, però, all’interno di un prodotto che sa ben mettere in scena l’intimo dei personaggi e che, malgrado il tema trattato, evita di scadere in banali clichés, sporadiche cadute di stile – prima fra tutte: la scena, quasi onirica, in cui vediamo il protagonista sollevarsi dal suolo insieme alla giovane Mary, compiendo, insieme a lei, una sorta di “viaggio” immaginario – lasciano intuire che Schrader stesso, preso probabilmente dalla foga del voler raccontare una storia che – come egli stesso ha dichiarato – aveva in serbo da quasi cinquant’anni, si sia lasciato prendere un po’ troppo la mano.

Peccato. Soprattutto perché, nonostante la qualità complessivamente buona del lungometraggio, da un cineasta come Paul Schrader ci si sarebbe aspettato molto, ma molto di più. Ma tant’è. Ad un autore del suo calibro si perdona questo ed altro.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – LES FANTOMES D’ISMAEL di Arnaud Desplechin

les_fantomes_dismaelTITOLO: LES FANTÔMES D’ISMAËL; REGIA: Arnaud Desplechin; genere: drammatico; paese: Francia; anno: 2017; cast: Mathieu Amalric, Charlotte Gaisbourg, Marion Cotillard; durata: 110′

Il film d’apertura di Cannes 70 è stato Les fantômes d’Ismaël, ultima fatica del celebre cineasta francese Arnaud Desplechin.

Ismaël è un affermato regista. Quando era poco più che ventenne è stato abbandonato dalla giovane moglie, figlia di un suo caro amico, anch’egli stimato cineasta. Tale mancanza ha lasciato il segno, anche a distanza di molti anni. La vita dell’uomo, però, sembra prendere la piega giusta in seguito all’incontro con la bella ed intelligente Sylvia, che diventerà la sua nuova compagna. Quando tutto sembra andare per il meglio, però, ecco che la prima moglie, ormai data ufficialmente per dispersa, torna improvvisamente nella vita di Ismaël, rompendo qualsiasi equilibrio costruitosi.

Le vicende del protagonista e della sua prima moglie corrono in parallelo con un’altra storia: quella del fratello di Ismaël stesso, agente segreto che, a causa del suo lavoro, non fa che sparire e ricomparire in luoghi e situazioni impensabili. La storia, questa, dell’ultimo lungometraggio al quale il protagonista sta lavorando.

Ed ecco che le cose si fanno complesse. Non sono più due livelli – passato e presente – ad intersecarsi, ma addirittura tre, dal momento che anche la storia immaginaria del fratello-agente segreto sembra occupare uno spazio sempre più importante all’interno della narrazione stessa, dando vita, così, ad un interessante discorso sul cinema, sulla commedia umana e sulla messa in scena che si fonde con la realtà, che, però, a causa dei troppi elementi tirati in ballo, tende ogni tanto a perdersi, per poi, tuttavia, ritrovare immediatamente il filo del discorso. Particolarmente d’impatto, a tal proposito, il momento in cui Ismaël, in piena crisi creativa e personale, illustra al produttore il suo progetto, con un telo bianco sullo sfondo, surrogato dello schermo cinematografico.

Per quanto riguarda la figura della “donna che visse due volte”, prima moglie del protagonista, quale scelta migliore di un’interprete affascinante, ma anche eccezionalmente talentuosa come Marion Cotillard? Ad una donna così non può che far fronte, dall’altro canto, una altrettanto bella e dotata artista del calibro di Charlotte Gainsbourg. E così, nel momento in cui le due donne, dopo essersi incontrate, inizieranno una forzata convivenza e, durante la loro prima, vera conversazione si instaurerà un sottile gioco di sguardi unito a parole di convenienza, ci troviamo davanti alla più grande prova attoriale di tutto il lungometraggio. Momento, questo, in cui le due interpreti riescono con la loro bravura a mettere in ombra l’intero cast, sebbene sia composto da altrettanti artisti di tutto rispetto.

Un’ulteriore conferma del talento di Desplechin e della sua grande abilità nel mettere in scena le crisi personali, questo Les fantômes d’Ismaël, interessante nella struttura, talvolta rischiosa ma mai così tanto da minacciare la reale riuscita del film. Ed all’interno di un concorso che, in linea di massima, non ha convinto proprio tutti, questo ultimo lungometraggio del cineasta francese si è rivelato un’apertura più che dignitosa.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

Stefano Calvagna gira a Londra NO ONE LIKE US

No one like usRicevo e volentieri pubblico

Stefano Calvagna torna dietro alla macchina da presa unendo due grandi passioni: quella per il cinema e quella per il calcio.

Su un nuovo terreno, quello londinese, il cineasta romano racconterà in No one like us la storia attuale di un imprenditore italiano interpretato da Ilario Calvo (Rush di Ron Howard e la nota serie tv Outlander nel curriculum), che, messo in ginocchio dalla crisi economica in Italia ed a seguito del fallimento della sua azienda, parte verso la capitale britannica per aprire un ristorante ed iniziare una nuova vita.

Il susseguirsi degli eventi lo porterà a Londra ad entrare in contatto con una famosa tifoseria locale ispirata a quella del Millwall, squadra del nord della città, famosa per avere la firm “più incazzata d’Inghilterra”, formata da uomini definiti “lions” (leoni), appassionati e pronti a lottare nel nome del proprio team calcistico.

Nel cast figurano anche anche Sean Cronin (Mission: Impossible – Rogue Nation, Harry Potter e la camera dei segreti) e Adam Shaw (Salvate il soldato Ryan, Red 2, la serie tv Doctor Who).

LA RECENSIONE – IL CRIMINE NON VA IN PENSIONE di Fabio Fulco

scena_102_TITOLO: IL CRIMINE NON VA IN PENSIONE; REGIA: Fabio Fulco; genere: commedia; anno: 2017; paese: Italia; cast: Stefania Sandrelli, Ivano Marescotti, Fabio Fulco; durata: 90′

Nelle sale italiane dal 15 giugno, Il crimine non va in pensione è l’opera prima dell’attore Fabio Fulco.

Edda, anziana signora che vive in una casa di riposo, è stata costretta ad impegnare la propria fede nuziale al fine di aiutare la figlia in gravi ristrettezze economiche. In seguito a ciò, la donna viene colta da un malore ed i suoi amici, anche loro pensionanti della medesima residenza per anziani, decidono di organizzare una rapina – con l’aiuto dell’inserviente Sasà – in una sala bingo della zona, al fine di aiutare la loro amica.

Il-crimine-non-va-in-pensione-e1489310996663Indubbiamente, e già dai primi minuti, si notano ottime intenzioni da parte dell’attore/regista: il suo è uno sguardo che di certo vuol bene ai protagonisti e che denota particolare attenzione e sensibilità verso il mondo degli anziani stesso. Uno sguardo, dunque, sì onesto, ma che – vista la poca esperienza dietro la macchina da presa – risulta talvolta eccessivamente ingenuo e maldestro.

Troppo invadente, ad esempio, il commento musicale, condito da inquadrature e movimenti di macchina che tanto stanno a ricordarci un videoclip, ma che risultano, in realtà, decisamente forzate. Stesso discorso vale per i titoli di testa, quando ci vengono presentati i protagonisti alla tarantiniana maniera: una trovata tra le più abusate della storia del cinema (forse addirittura più del famoso fermo immagine a conclusione de I 400 colpi di François Truffaut).

maxresdefault (3)Il resto è, purtroppo, qualcosa di fortemente prevedibile: una sceneggiatura dove, condite di quando in quando da qualche trovata divertente, fa da protagonista una serie di battute decisamente poco naturali, insieme a pericolosi buchi all’interno dello script stesso; un malriuscito tentativo di dar luce ad una storia corale (ma, si sa, nessuno è Robert Altman) e, infine, una maldestra direzione attoriale e personaggi che non sempre risultano appropriati al contesto (la scelta di Stefania Sandrelli e di Ivano Marescotti, ad esempio, non si è rivelata troppo giusta, dal momento in cui entrambi gli interpreti sono decisamente troppo giovani per impersonare due anziani in una casa di riposo).

Opera prima sentita, ma poco riuscita, dunque. Peccato. Perché il tema di base avrebbe potuto dar vita a qualcosa di decisamente interessante. Eppure, basterebbe fare un salto di pochi anni indietro per ritrovarsi davanti un’altra opera prima, anch’essa diretta da un attore, anch’essa ambientata in una casa di riposo. Stiamo parlando del delizioso Quartet, di Dustin Hoffman. Ma questa è un’altra storia.

VOTO:4/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – THE STARTUP di Alessandro D’Alatri

the_startup_matteo_vignati_matilde_gioli_andrea_arcangeliTITOLO: THE STARTUP; REGIA: Alessandro D’Alatri; genere: drammatico; anno: 2017; paese: Italia; cast: Andrea Arcangeli, Paola Calliari, Matilde Gioli; durata: 97′

Nelle sale italiane dal 6 aprile, The Startup è l’ultimo film di Alessandro D’Alatri, prodotto da Luca Barbareschi ed ispirato ad una storia vera.

Matteo Achilli ha 18 anni ed è un brillante studente del liceo. Prossimo alla maturità e stanco di subire ingiustizie nel mondo del lavoro e dello sport a causa di chi può godere delle giuste raccomandazioni, decide di inventare una app che permetta di classificare gli iscritti in base al merito, in modo da dare maggiori possibilità di carriera a chi davvero abbia le competenze adatte. Il suo progetto ha subito successo ed il ragazzo inizia a guadagnare moltissimo ed a frequentare il mondo dell’alta società. Questo suo nuovo stile di vita, però, lo porterà ad allontanarsi dalla fidanzata e dagli amici di sempre.

the_startup_luca_di_giovanni_andrea_arcangeliIndubbiamente questo ultimo lavoro di D’Alatri ad un primo impatto può interessare. Se non altro sembra distaccarsi radicalmente dagli ultimi, non proprio riusciti, lavori dello stesso autore (vedi, ad esempio, Casomai, La febbre e Commediasexy). La storia raccontata, dal canto suo, presenta non pochi spunti da cui partire, per poi dare al lungometraggio il tono che si vuole. In questo caso, però, i non troppo velati (o quantomeno sperati) rimandi fincheriani restano, purtroppo, solo delle iniziali intenzioni. The Startup, di fatto, non riesce a “spiccare il volo”, non riesce a staccarsi dalla massa di lungometraggi sopra citati, ognuno dei quali vuole raccontarci la crisi e/o la precarietà del lavoro e/o i giovani a modo proprio.

the-startup-trailer-ufficiale-del-nuovo-film-alessandro-d-alatri-v4-287198Fatta eccezione, dunque, per rari momenti riguardanti la costruzione del progetto in sé, la sua partenza ufficiale e le sue conseguenze sulla carriera di Matteo, ci troviamo di fronte ad uno dei tanti prodotti buonisti, pieni di sé e talmente tante volte rifatti da essere ormai pericolosamente prevedibili, ognuno la brutta copia dell’altro. Ciò viene qui ulteriormente sottolineato, ad esempio, dalle eccessivamente “invasive” canzoni inserite all’interno del film e soprattutto dalla prima parte di esso, la quale si limita a regalarci un ormai noioso déjà vu. Dispiace, in questo caso, soprattutto per i giovani protagonisti (Andrea Arcangeli nel ruolo di Matteo, Paola Calliari nel ruolo della sua ragazza Emma e la lanciatissima Matilde Gioli, nel ruolo della bella e “pericolosa” Cecilia). Malgrado il loro impegno, a quanto pare sono stati fortemente penalizzati da una direzione attoriale che li ha voluti eccessivamente stereotipati. Evidentemente il mondo del lavoro è stato spietato anche con loro.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – PIIGS di Adriano Cutraro, Federico Greco, Mirko Melchiorre

piigs1TITOLO: PIIGS; REGIA: Adriano Cutraro, Federico Greco, Mirko Melchiorre; genere: documentario; anno: 2017; paese: Italia; cast: Claudio Santamaria (voce); durata: 76′

Da aprile nelle sale italiane, PIIGS è un tagliente documentario d’attualità firmato a sei mani da Adriano Cutraro, Federico Greco e Mirko Melchiorre.

Da otto anni, ormai, siamo ufficialmente entrati in piena crisi economica. L’acronimo “PIIGS” (che significa letteralmente “maiali”) è stato per l’occasione coniato per indicare quei paesi europei che, negli ultimi anni, hanno adottato riforme economiche e costituzionali tali da aggravare maggiormente la crisi in atto, nonché da rendere praticamente impossibili le condizioni di vita da parte di un numero sempre più elevato di cittadini, i quali a stento possono permettersi una casa o cure sanitarie. Tali paesi sono Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna. In seguito ad una lunga indagine durata cinque anni, i tre cineasti si sono interrogati circa le possibili strategie da adottare al fine di uscire dalla crisi, consultando ed intervistando anche personalità del calibro di Noam Chomsky, Warren Mosler, Stephanie Kelton, Federico Rampini, Paolo Barnard ed Erri De Luca.

Il regime dell’austerity può davvero aiutarci in questo periodo di crisi? Partendo da tale considerazione, gli autori hanno man mano scandagliato tutti i dogmi adottati dai paesi europei che ci hanno portato inevitabilmente alla condizione attuale. Ed ecco che, con un andamento accattivante, si potrebbe dire addirittura pop, ma con un linguaggio elementare (con la voce narrante di Claudio Santamaria che si intervalla ad interviste, filmati di repertorio e piccole animazioni), PIIGS ci esorta tutti a riflettere su ciò che maggiormente ci riguarda, passando da un contesto più ampio, fino a concentrarsi sul singolo, prendendo in esame, nello specifico, la situazione della Cooperativa “Il Pungiglione”, che si occupa di assistenza a persone disabili e con problemi psichici e che, proprio a causa della crisi, rischia oggi il fallimento.

Per la sua efficacia comunicativa, per il suo stile dinamico e a volte ironico, con un vivace commento musicale in sottofondo e, tuttavia, per la sua linearità narrativa PIIGS risulta oggi, come potrebbe risultare in qualsiasi altro momento storico, un prodotto decisamente necessario. Vera e propria perla nel panorama del documentario italiano da non lasciare assolutamente passare inosservata.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – CAFFE’ di Cristiano Bortone

24856-29316-caff-1-2_jpg_620x250_crop_upscale_q85TITOLO: CAFFÈ; REGIA: Cristiano Bortone; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Italia, Cina, Belgio; cast: Hichem Yacoubi, Dario Aita, Fangsheng Lu; durata: 112′

Nelle sale italiane dal 13 ottobre, Caffè è l’ultimo lungometraggio diretto da Cristiano Bortone: una co-produzione italo-cinese-belga presentata in anteprima alla 73° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, nella sezione Giornate degli Autori.

Belgio. Hamed è fuggito dall’Iraq ed ha aperto un’attività insieme alla sua famiglia. Egli è un padre premuroso ed affettuoso. Un giorno, però, qualcuno rapina il suo negozio e l’uomo riesce a rintracciare il ladro – un giovane ragazzo padre disoccupato –al fine di farsi ridare almeno una preziosa macchina del caffè a cui è molto legato. Le cose, però, avranno un esito inaspettato.

Italia. Renzo è un giovane sommelier del caffè appena trasferitosi a Trieste con la sua ragazza, la quale aspetta un bambino. Il ragazzo, però, non riuscendo a trovare lavoro, verrà coinvolto da un gruppo di conoscenti nell’organizzazione di una rapina.

caffeCina. Fei è il giovane manager di un’industria chimica, il quale è in procinto di sposare la figlia del suo capo. Un giorno viene mandato nello Yunnan – la sua terra d’origine – al fine di occuparsi di un grave incidente in alcuni stabilimenti del posto. Qui, grazie anche ad una giovane pittrice solita dipingere i suoi quadri con del caffè, il ragazzo riscoprirà i veri valori della vita.

Senza dubbio, dal punto di vista della scrittura, l’operazione effettuata da Bortone è parecchio interessante. Soprattutto se si pensa ad una società come quella odierna, sempre più xenofoba ed individualista, all’interno della quale ognuno sembra pensare solo a sé stesso e a ciò che lo riguarda in prima persona. E, in questo caso, il caffè – al giorno d’oggi uno dei prodotti più diffusi del mondo – fa da perfetto McGuffin, nonché da indovinato collante all’interno delle tre storie. Storie, queste, che, nonostante tutto, non si incrociano mai. Ma che hanno, appunto, molto più in comune di quanto si possa pensare.

caff_hishem_yacoubi_jpg_351x0_crop_q85Detto questo, il fattore che meno convince è proprio la regia. Dopo una suggestiva scena iniziale in cui vediamo inquadrata una tazzina di caffè con la voce fuoricampo del figlioletto di Hamed intento a leggerne i fondi, tutto il resto del film non riesce a reggere la stessa poesia e la stessa potenza visiva. Saranno il troppo spazio dedicato ai dialoghi a scapito quasi delle immagini, sarà l’universale difficoltà nello scrivere film corali (il buon Robert Altman è stato, in questo settore, una vera e propria mosca bianca), sarà, appunto il troppo “detto” ed il troppo poco “non detto”, ma Caffè ha, purtroppo, tutto l’aspetto di una fiction televisiva. Interessanti le scene in cui viene operato un montaggio alternato (forse eccessivamente usato, però), ad esempio, ma la musica in sottofondo non sempre si rivela appropriata. Al contrario, soprattutto per quanto riguarda la scena del pestaggio di Hamed a casa del ladro, riesce quasi a disturbare lo spettatore.

Peccato. Soprattutto perché – malgrado il tema dell’universalità sia già stato sfruttato – l’idea di unire varie storie e varie culture grazie al caffè è senza dubbio originale, accattivante ed indovinata. Se non altro perché ci regala anche quel tocco di speranza e di ottimismo di cui tutti, in fondo, abbiamo bisogno. Almeno quanto abbiamo bisogno di caffè!

VOTO: 6/10

Marina Pavido