LA RECENSIONE DI MARINA – MAESTRO di Alexandre Valenti

crop2_visuel-du-film-pour-que-vive-la-musique-des-camps-le-maestro-d-alexandre-valenti_imgTITOLO: MAESTRO; REGIA: Alexandre Valenti; genere: documentario; anno: 2016; paese: Italia, Francia; cast: Francesco Lotoro; durata: 75′

Nelle sale italiane dal 23 gennaio, Maestro è l’ultimo documentario di Alexandre Valenti.

Il regista ci mostra l’appassionante viaggio attraverso l’Europa di Francesco Lotoro, musicista e studioso alla ricerca di testimonianze e documenti che gli permettano di rintracciare ed archiviare tutta la musica composta dagli internati dei campi di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale.

unnamed-6-1024x575Josef Kropinski, Viktor Ullman, Gideon Klein, Rudolf Karel sono solo alcuni nomi che ci hanno lasciato in dono intense melodie direttamente dai campi di concentramento. Musiche che sono, di fatto, l’anima di questo ultimo lavoro di Valenti. Maestro, a sua volta, è pensato principalmente con una struttura narrativa lineare, schematica, con un’importante voce narrante presente in quasi tutto il lungometraggio e che, a tratti, risulta un po’ troppo didascalica. A fare da contorno, ci sono, oltre ai filmati di repertorio, le interviste: talvolta sono i compositori stessi rimasti ancora in vita a raccontarci le origini della loro musica, altre volte sono i loro eredi. E poi, finalmente, è l’ora di ascoltare i brani.

lotoro-696x463Scelta azzeccata, quella di avere optato per una regia semplice e priva di qualsiasi orpello. Dato il tema trattato, però, e data, soprattutto, la poesia di ciò che si è messo in scena, si sarebbe potuto scegliere un andamento narrativo più vicino al flusso di coscienza stesso. Mirate didascalie, ad esempio, avrebbero potuto venire in aiuto. Ma queste, ovviamente, sono solo ipotesi azzardate.

Fatto sta che  tra tutti i film in uscita in sala in occasione della Giornata della Memoria, Maestro si è rivelato, quest’anno, uno dei prodotti maggiormente interessanti e caratterizzato da una ben marcata identità. Una piccola opera, in pratica, a cui vale decisamente la pena dedicare poco meno di un’ora e mezza del nostro tempo.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – CAFFE’ di Cristiano Bortone

24856-29316-caff-1-2_jpg_620x250_crop_upscale_q85TITOLO: CAFFÈ; REGIA: Cristiano Bortone; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Italia, Cina, Belgio; cast: Hichem Yacoubi, Dario Aita, Fangsheng Lu; durata: 112′

Nelle sale italiane dal 13 ottobre, Caffè è l’ultimo lungometraggio diretto da Cristiano Bortone: una co-produzione italo-cinese-belga presentata in anteprima alla 73° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, nella sezione Giornate degli Autori.

Belgio. Hamed è fuggito dall’Iraq ed ha aperto un’attività insieme alla sua famiglia. Egli è un padre premuroso ed affettuoso. Un giorno, però, qualcuno rapina il suo negozio e l’uomo riesce a rintracciare il ladro – un giovane ragazzo padre disoccupato –al fine di farsi ridare almeno una preziosa macchina del caffè a cui è molto legato. Le cose, però, avranno un esito inaspettato.

Italia. Renzo è un giovane sommelier del caffè appena trasferitosi a Trieste con la sua ragazza, la quale aspetta un bambino. Il ragazzo, però, non riuscendo a trovare lavoro, verrà coinvolto da un gruppo di conoscenti nell’organizzazione di una rapina.

caffeCina. Fei è il giovane manager di un’industria chimica, il quale è in procinto di sposare la figlia del suo capo. Un giorno viene mandato nello Yunnan – la sua terra d’origine – al fine di occuparsi di un grave incidente in alcuni stabilimenti del posto. Qui, grazie anche ad una giovane pittrice solita dipingere i suoi quadri con del caffè, il ragazzo riscoprirà i veri valori della vita.

Senza dubbio, dal punto di vista della scrittura, l’operazione effettuata da Bortone è parecchio interessante. Soprattutto se si pensa ad una società come quella odierna, sempre più xenofoba ed individualista, all’interno della quale ognuno sembra pensare solo a sé stesso e a ciò che lo riguarda in prima persona. E, in questo caso, il caffè – al giorno d’oggi uno dei prodotti più diffusi del mondo – fa da perfetto McGuffin, nonché da indovinato collante all’interno delle tre storie. Storie, queste, che, nonostante tutto, non si incrociano mai. Ma che hanno, appunto, molto più in comune di quanto si possa pensare.

caff_hishem_yacoubi_jpg_351x0_crop_q85Detto questo, il fattore che meno convince è proprio la regia. Dopo una suggestiva scena iniziale in cui vediamo inquadrata una tazzina di caffè con la voce fuoricampo del figlioletto di Hamed intento a leggerne i fondi, tutto il resto del film non riesce a reggere la stessa poesia e la stessa potenza visiva. Saranno il troppo spazio dedicato ai dialoghi a scapito quasi delle immagini, sarà l’universale difficoltà nello scrivere film corali (il buon Robert Altman è stato, in questo settore, una vera e propria mosca bianca), sarà, appunto il troppo “detto” ed il troppo poco “non detto”, ma Caffè ha, purtroppo, tutto l’aspetto di una fiction televisiva. Interessanti le scene in cui viene operato un montaggio alternato (forse eccessivamente usato, però), ad esempio, ma la musica in sottofondo non sempre si rivela appropriata. Al contrario, soprattutto per quanto riguarda la scena del pestaggio di Hamed a casa del ladro, riesce quasi a disturbare lo spettatore.

Peccato. Soprattutto perché – malgrado il tema dell’universalità sia già stato sfruttato – l’idea di unire varie storie e varie culture grazie al caffè è senza dubbio originale, accattivante ed indovinata. Se non altro perché ci regala anche quel tocco di speranza e di ottimismo di cui tutti, in fondo, abbiamo bisogno. Almeno quanto abbiamo bisogno di caffè!

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA: NERUDA di Pablo Larrain

neruda-luis-gneccoTITOLO: NERUDA; REGIA: Pablo Larrain; genere: drammatico, biografico; anno: 2016; paese: Cile; cast: Luis Gnecco, Gael Garcìa Bernal, Mercedes Moran, Alfredo Castro; durata: 107′

Nelle sale italiane dal 13 ottobre, Neruda è il penultimo lungometraggio del grande cineasta cileno Pablo Larrain, presentato all’ultima edizione del Festival di Cannes, nella sezione Quinzaine des Réalisateurs.

Cile, 1948. La Guerra Fredda è arrivata anche qui. Dopo aver accusato il governo di tradire il Partito Comunista, il senatore e poeta Pablo Neruda viene messo sotto accusa dal Presidente Gonzalez Videla, il quale, a sua volta, incaricherà l’ispettore di polizia Oscar Pelluchonneau di arrestarlo. Neruda sarà, così, costretto a fuggire da suo paese insieme alla moglie. Durante la fuga, inoltre, scriverà la sua raccolta di poesie “Canto general” e si divertirà a lasciare indizi circa i suoi spostamenti a Pelluchonneau.

0-e1437860435563Che dire? Senza dubbio possiamo affermare a gran voce che Pablo Larrain è, al momento, uno degli autori più complessi, prolifici ed interessanti del panorama cinematografico mondiale. Uno dei pochi autori a mettere d’accordo tutti, pubblico e critica. E questo suo penultimo lavoro non è solo una conferma del suo talento, bensì quasi una summa di tutto quello che fino ad oggi è stata la sua poetica. Si tratta, infatti, di un’opera maestosa, talmente complessa e stratificata da distinguersi per grandezza dalla maggior parte dei prodotti attualmente in sala.

Ma, in sostanza, cos’è Neruda? Definirlo biopic potrebbe forse essere eccessivo, dal momento che lo stesso Larrain ha affermato di essersi voluto concentrare solo su un particolare aspetto della vita del poeta cileno, creando per l’occasione anche episodi e personaggi di fantasia. Egli ha definito il suo film, pertanto, un falso biopic. Definizione, questa, che cela un lavoro molto più minuzioso e complesso di quanto si possa immaginare.

maxresdefaultEppure non è il personaggio di Neruda la vera peculiarità del film. La vera chicca è, in realtà, la figura di Oscar Pelluchonneau. A lui spetta il compito – non facile – di tentare di comprendere la sfaccettata personalità del poeta. Lui è quella persona che lo odia e – allo stesso tempo – lo ammira profondamente. É con lui che Neruda si diverte a giocare, facendogli trovare indizi lungo il percorso e mandandolo, di conseguenza, su tutte le furie. É lui che – vittima di un forte desiderio di rivalsa dopo un’infanzia travagliata – cerca in tutti i modi di dimostrare – soprattutto a sé stesso – di essere un bravo poliziotto. É sua, infine, la voce narrante, costante dall’inizio alla fine, la quale – a sua volta – raggiunge il suo climax proprio nelle ultime scene. Voce narrante che mai come in questo caso risulta appropriata e che non fa altro che arricchire ulteriormente tutto il prodotto.

Un crescendo di emozioni. Un concentrato di ironia, dramma e poesia. Il tutto condito da una sapiente regia, da una fotografia dai colori tenui e retrò (tipica del cinema di Larrain), oltre che da un’appropriata e ben riuscita colonna sonora, realizzata da Federico Jusid. Neruda è, senza dubbio, quanto di meglio possiamo vedere al momento. Una vera perla che sembra a tutti gli effetti destinata ad entrare di diritto nella storia del cinema.

VOTO: 9/10

Marina Pavido

SPECIALE CANNES A ROMA: DOG EAT DOG di Paul Schrader

dog-eat-dog-paul-schrader-nicolas-cage-willem-dafoe-6TITOLO: DOG EAT DOG; REGIA: Paul Schrader; genere: drammatico, azione, thriller, commedia; anno: 2016; paese: USA; cast: Willem Dafoe, Nicholas Cage; durata: 95′

Presentato in anteprima in occasione della rassegna Cannes a Roma, Dog eat dog è l’ultima fatica di Paul Schrader – colonna portante della New Hollywood. Il lungometraggio è stato selezionato nella sezione Quinzaine des Réalisateurs all’ultima edizione del Festival di Cannes.

Troy, Diesel e Mad Dog sono tre ex detenuti. Varie circostanze hanno fatto in modo che i tre diventassero amici per la pelle, una vera e propria famiglia. Una volta usciti di galera, devono trovare il modo di poter ricominciare daccapo, pur non avendo un soldo in tasca. Dopo vari, maldestri tentativi di mettere qualcosa da parte, i tre progetteranno un’estorsione. La realizzazione del loro piano, però, sarà molto più problematica del previsto.

Arclight_Dog%20Eat%20Dog_screen%20grabs.pdfSalvo per quanto riguarda poche eccezioni, Paul Schrader è quasi sempre una garanzia. Ed anche in questo suo ultimo lavoro – tratto dall’omonimo racconto di Edward Bunker – l’autore si è rivelato all’altezza delle aspettative. Ben scritto, ben interpretato (persino Nicholas Cage è stato perfettamente all’altezza del suo ruolo, incredibile!), dai ritmi giusti e con una sceneggiatura sì semplice, ma efficace per quanto riguarda ciò che si vuole comunicare, Dog eat dog vede i suoi massimi punti di forza in una regia impeccabile ed in un montaggio dinamico che fa largo uso – in modo appropriato e mai gratuito o autocompiacente – di ralenty, di fast motion e, di quando in quando, di un suggestivo e malinconico bianco e nero. Il risultato finale è una serie di scene memorabili, destinate, addirittura, a diventare quasi dei cult. Tutto ciò a partire dai primi minuti, in cui vediamo uno spaesato Willem Dafoe, che, appena uscito dal carcere, deve vedersela con una ex compagna rompiscatole ed “ingombrante” e con la figlia adolescente di lei, il cui unico problema sembra non essere altro che la mancata possibilità di cucinare dei cupcakes insieme ad un’amica. Ora, in una situazione del genere, a chiunque capiterebbe di perdere la pazienza. Cosa che capita, ovviamente, anche al nostro protagonista, il quale – in una sequenza pulp che più pulp non si può – si libera in modo decisamente poco convenzionale dei suoi “ostacoli”. E che dire della scena riguardante l’inseguimento con la polizia? Anche qui, con un montaggio libero da ogni convenzione, Schrader riesce a tenere lo spettatore incollato allo schermo minuto per minuto. Senza mai abbandonare, però, quella crudele ironia che ha sempre caratterizzato molte delle sue opere.

Dog-Eat-Dog-e1452220915586-620x349Ovviamente, però, tutti gli sbagli commessi dai nostri protagonisti hanno un proprio prezzo. Ed il prezzo stesso può essere caro come non mai. Così, il tema della colpa e della redenzione torna anche in questo ultimo lungometraggio, senza mai essere banale o ridondante. Emblematica, a questo proposito, la frase finale pronunciata in voice over dallo stesso Troy/Nicholas Cage: “Non si può dire che io volessi a tutti i costi giustizia. Volevo ciò che volevo. Come tutti, del resto”. Ognuno di noi, a seconda delle situazioni, è vittima o carnefice. Non vi sono buoni, non vi sono cattivi, ma siamo tutti pronti ad azzannarci a vicenda, nel momento in cui vogliamo ottenere qualcosa. Cani che mangiano altri cani.

Arclight_Dog%20Eat%20Dog_screen%20grabs.pdfCiò che viene raccontato è importante, ma come lo si racconta è – la maggior parte delle volte – determinante. E questo è anche il caso di Dog eat dog, la cui semplice trama viene dignitosamente messa in scena da una mano matura e sapiente. Una visione che – finalmente! – fa sì che al suo termine ci si senta pienamente soddisfatti ed appagati.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA: NESSUNO MI TROVERA’ di Egidio Eronico

1449232598823TITOLO: NESSUNO MI TROVERÀ; REGIA: Egidio Eronico; genere: documentario; anno: 2015; paese: Italia; durata: 75′

Nelle sale italiane dal 15 aprile, Nessuno mi troverà – per la regia di Egidio Eronico – affronta il tema della misteriosa scomparsa del fisico teorico Ettore Majorana.

Siamo nel 1938. Majorana ha solo 31 anni, ma è già considerato una delle più importanti menti del nostro secolo. Personaggio solitario e taciturno, si è sempre distinto per la sua riservatezza. Per quanto riguarda le sue scoperte, pare che fin da subito sia venuto a conoscenza degli enormi rischi legati al nucleare. Il 26 marzo 1938, la sua improvvisa e misteriosa scomparsa – dopo essersi imbarcato da Palermo alla volta di Napoli. Da allora le ricerche e le indagini circa la sua sparizione non sono mai cessate.

NESSUNOMITROVERAChe si tratti di suicidio? Che sia migrato in Germania per collaborare con il partito nazionalsocialista? Che si sia ritirato in convento? Che sia stato ucciso tramite un complotto, in seguito alle recenti scoperte sul nucleare? Numerose sono le tesi che, fino ad oggi, sono nate riguardo la scomparsa del celebre fisico teorico. Per il momento, però, non vi è nessuna certezza. E questo documentario di Egidio Eronico non ha la pretesa di dare una risposta a tutti questi quesiti, non ha la pretesa di avanzare un’ulteriore tesi. Semplicemente approfondisce l’argomento Majorana, in modo da farci conoscere meglio il genio e l’uomo, attraverso scritti autografi e testimonianze.

NMT_animazione_01-700x430Tutto ciò viene messo in scena con una tecnica che prevede l’animazione, come anche interviste, inserti fotografici e filmati di repertorio. Interessante operazione, questa, che fa in modo che il montaggio assuma un ruolo principale all’interno del prodotto stesso. Ed è proprio il montaggio a creare le prime problematiche: con ritmi a volte fin troppo serrati, fa sì che lo spettatore faccia fatica a focalizzare con attenzione ciò che viene mostrato. Problema, questo, dovuto anche alla voce narrante, con la quale si trova, inevitabilmente, a dover stare al passo: presenza necessaria, ma usata – in questo caso – in maniera eccessiva, al punto da risultare quasi “ingombrante” e da doppiare addirittura le immagini, rendendo il tutto pericolosamente didascalico, oltre che di stampo più televisivo che cinematografico.

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Detto questo, però, è interessante l’idea – sebbene già diverse volte sperimentata – da cui parte Nessuno mi troverà: creare un mix di tecniche affinché il documentario stesso possa suscitare nello spettatore le medesime emozioni provocate, in genere, da un normale lungometraggio. Una particolare nota di merito va alle scene di finzione: i disegni, rigorosamente in bianco e nero, sono quasi degli schizzi, senza contorni netti che stiano a delineare le figure, ma allo stesso tempo rendono molto bene l’idea di ciò che si sta rappresentando, regalando al tutto una certa aura di mistero perfettamente in linea con il tema trattato. Tutto ciò ha contribuito a rendere questo ultimo lavoro di Eronico – nonostante qualche imperfezione – un buon prodotto, sentito ed intellettualmente onesto.

Nessuno mi troverà, dunque, merita di essere visto sia per la realizzazione, sia per conoscere meglio una porzione di storia del nostro paese. La storia di un grande teorico che, forse, proprio in seguito alle sue scoperte, non ha più avuto il diritto di essere Ettore Majorana.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA: L’INFINITA FABBRICA DEL DUOMO di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti

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TITOLO: L’INFINITA FABBRICA DEL DUOMO; REGIA: Massimo D’Anolfi, Martina Parenti; genere: documentario; anno: 2016; paese: Italia; durata: 74′

Nelle sale italiane dal 31 marzo, distribuito da Lab 80 Film, L’infinita fabbrica del Duomo è un suggestivo documentario diretto da Massimo D’Anolfi e Martina Parenti.

Siamo nel 1386. L’Arcivescovo Antonio da Saluzzo progetta la costruzione di una nuova cattedrale – dedicata a Santa Maria Nascente – che dovrà sorgere al posto di Santa Maria Maggiore. Ha così inizio la costruzione del Duomo di Milano, la quale si è protratta per secoli e che, ancora oggi, vede l’impiego di numerosi lavoratori impegnati nella sua continua manutenzione e nella sua ristrutturazione.

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L’infinita fabbrica del Duomo – primo capitolo della quadrilogia Spira Mirabilis, la quale affronta il concetto di immortalità attraverso i quattro elementi (il Duomo, appunto, rappresenta, qui, la terra) – mostra allo spettatore i lunghi lavori dedicati alla celebre cattedrale milanese: dall’estrazione della pietra dalla cava, al trasporto delle statue, dalla manutenzione dell’archivio, alla riproduzione delle statue stesse. Il tutto viene narrato tramite le sole immagini, senza voice over, ma con didascalie – tratte da testi di Guido Lopez, Silvestro Severgnini e Carlo Ferrari da Passano – che, di tanto in tanto, ci raccontano i diversi momenti che grande importanza hanno avuto nella storia del Duomo stesso. Figura centrale è qui, inoltre, la colonna sonora, semplicemente costituita da rumori di fabbrica o dal fruscio del vento tra le foglie degli alberi, a seconda di dove le scene sono ambientate.

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Il risultato è un prodotto semplice, ma estremamente raffinato, che riesce appieno nel suo intento di mettere in scena l’infinito, la calma, la lentezza e la ripetitività, da sempre grandi protagonisti della vita della cattedrale. Da sempre fautori della sua immortalità. Numerose sono state le persone che, nel corso dei secoli, hanno contribuito alla nascita del Duomo. Il nome di ognuna di loro è tutt’ora registrato negli archivi, a testimonianza di come il singolo, nel suo piccolo, possa fare tanto per la comunità. E, infatti, la storia del Duomo è, si può dire, la storia di tutti, la storia di un popolo.

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L’infinita fabbrica del Duomo ci mostra tutto questo: un documento poetico e contemplativo del nostro passato, del nostro presente ed anche del nostro futuro. Una vera e propria perla nel campo del documentario. A questo punto, non ci resta che lasciarci trasportare dal racconto ed aspettare gli altri capitoli della serie. Questo è solo l’inizio.

VOTO: 9/10

Marina Pavido