LA RECENSIONE – SONG TO SONG di Terrence Malick

DSC_2102.NEFTITOLO: SONG TO SONG; REGIA: Terrence Malick; genere: drammatico; anno: 2017; paese: USA; cast: Ryan Gosling, Rooney Mara, Natalie Portman, Michael Fassbender, Cate Blanchett; durata: 129′

Nelle sale italiane dal 10 maggio, Song to song è l’ultimo lavoro del cineasta statunitense Terrence Malick.

BV è un musicista in cerca di successo. Un giorno, durante una festa a casa del suo produttore Cook, incontra e si innamora di Faye, la quale ha, però, già una relazione con Cook. Tra i tre si stabilirà un legame particolare, apparentemente forte, ma dagli equilibri in realtà molto più fragili di quanto si possa pensare.

song_to_song_portman_fassbender_1Dopo aver presentato in concorso alla 73° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia il documentario Voyage of Time, ecco che Terrence Malick torna ad essere stilisticamente parlando il Malick che noi tutti conosciamo (ed amiamo) con i suoi temi di sempre: il senso di spaesamento, la ricerca di sé stessi, l’effetto che ognuno di noi ha sugli altri e via dicendo. È stato così, ad esempio, per i suoi ultimi lungometraggi di finzione – To the wonder e Knight of Cups – ed è così anche per questo suo ultimo lavoro, dove le origini, la famiglia, l’amore e, soprattutto, la musica, si fanno colonne portanti di tutta la narrazione. Tale senso di spaesamento viene ben sottolineato dai grandangoli – che tanto piacciono a Malick – così come da scenografie che prevedono appartamenti iper moderni con pareti di vetro che sembrano quasi inesistenti e che rendono il tutto altamente agorafobico.

Ottima scelta si rivela, inoltre, il cast, dove vediamo praticamente il meglio di quanto il panorama hollywoodiano possa attualmente offrirci: da Ryan Gosling a Rooney Mara, senza dimenticare Michael Fassbender, Natalie Portman e la grandissima Cate Blanchett. Attori che, in ogni caso, sono già stati “testati” da Malick nei suoi precedenti lavori, talmente belli e perfetti da sembrare quasi irreali pur con tutte le loro debolezze qui messe in scena.

Song_to_Song (1)Al via, dunque, il flusso di coscienza tipicamente malickiano – con le sue voci fuoricampo e le sue numerose e fluide carrellate (con tanto di fotografia firmata Emmanuel Lubezki) – che sembra quasi voler metterci davanti alle nostre stesse debolezze e che, diciamolo pure, pur essendo uno stile talmente estremo da essere spesso odiato, risulta in Malick ormai vincente. D’altronde Terrence Malick è come è. E ci piace proprio per questo.

Diventato negli ultimi anni particolarmente prolifico, ha già pronto, tra l’altro, un nuovo lavoro: Radegund. E, siamo certi, sicuramente non ne resteremo delusi.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – STRANE STRANIERE di Elisa Amoruso

strane-straniere-0TITOLO: STRANE STRANIERE; REGIA: Elisa Amoruso; genere: documentario; anno: 2017; paese: Italia; cast: Radoslava Petrova, Sihem Zrelli, Ana Laznibat, Ljuba Jovicevic, Fenxia “Sonia” Zhou; durata: 72′

Nelle sale italiane dall’8 marzo, in occasione della Festa della Donna, Strane straniere è l’ultimo documentario della giovane regista romana Elisa Amoruso, conosciuta dal grande pubblico grazie a Fuoristrada, sua opera prima presentata alla Festa del Cinema di Roma 2013.

Sono queste le storie di Radoslava – che ha scoperto una grandissima passione per la pesca – di Sihem – direttrice di un centro accoglienza anziani – di Ana e Ljuba – titolari di una galleria d’arte nel cuore di Roma – e, infine, di Sonia – proprietaria di uno dei più rinomati ristoranti cinesi della Capitale. Tante storie, dunque, per tante diverse – e bellissime! – personalità. Conoscere meglio ognuna di queste coraggiose donne al fine di superare eventuali inutili pregiudizi è la principale finalità di questo lavoro della Amoruso, il quale, a sua volta, prende vita da un progetto a carattere prettamente antropologico portato avanti da Maria Antonietta Mariani.

22510_origSe un documentario come Fuoristrada, dunque, ha saputo colpire nei punti giusti, lo stesso ci si aspetta da Strane straniere, il quale mostra, a sua volta, in che modo lo stile di una cineasta come la Amoruso stia, in un modo o nell’altro, assumendo una propria, certa identità. Da un punto di vista prettamente cinematografico, infatti, è evidente come ci sia stata qui una più approfondita ricerca estetica: è questo il momento, quindi, in cui simmetrici plongés ed intensi primi piani, che seguono l’immagine – in apertura del film – di una cantante lirica intenta ad intonare l’aria Un bel di’ vedremo dalla Madama Butterfly di Puccini, si uniscono ad immagini poetiche ed evocative in cui variopinte lanterne cinesi si stagliano nel cielo di notte. Per il resto del documentario, scene di vita quotidiana, con le sole voci fuori campo delle dirette interessate a raccontarci il loro passato. Indubbiamente, si tratta di una messa in scena raffinata e meticolosamente studiata.

1476799554506La questione, qui, però è un’altra: pur tenendo in conto l’efficacia sia contenutistica che narrativa di entrambi i lavori, bisogna forse riconoscere che, malgrado una messa in scena maggiormente “rudimentale” (o forse proprio grazie ad essa), Fuoristrada gode indubbiamente di una maggiore genuinità, di una certa – e necessaria – spontaneità che sembra, al contrario, forse un po’ troppo debole in Strane straniere. Tutto farebbe pensare ad un’eccessiva preoccupazione riguardante l’estetica del prodotto, all’interno del quale, però, sarebbero stati indubbiamente interessanti ulteriori approfondimenti circa le vite delle protagoniste stesse, dalle quali, in fin dei conti, ci sentiamo affascinati e delle quali vorremmo sapere, se possibile, sempre di più. Una messa in scena, dunque, che si discosta non poco dal precedente lavoro. Segno, probabilmente, che lo stile di Elisa Amoruso sta sì maturando, ma che, per spiccare un ulteriore (e, forse, definitivo) salto in alto, ha ancora bisogno di affinarsi ulteriormente, senza prediligere un aspetto, piuttosto che un altro. Alla luce di quanto visto finora, comunque, le buone premesse sembrano esserci tutte.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – MAESTRO di Alexandre Valenti

crop2_visuel-du-film-pour-que-vive-la-musique-des-camps-le-maestro-d-alexandre-valenti_imgTITOLO: MAESTRO; REGIA: Alexandre Valenti; genere: documentario; anno: 2016; paese: Italia, Francia; cast: Francesco Lotoro; durata: 75′

Nelle sale italiane dal 23 gennaio, Maestro è l’ultimo documentario di Alexandre Valenti.

Il regista ci mostra l’appassionante viaggio attraverso l’Europa di Francesco Lotoro, musicista e studioso alla ricerca di testimonianze e documenti che gli permettano di rintracciare ed archiviare tutta la musica composta dagli internati dei campi di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale.

unnamed-6-1024x575Josef Kropinski, Viktor Ullman, Gideon Klein, Rudolf Karel sono solo alcuni nomi che ci hanno lasciato in dono intense melodie direttamente dai campi di concentramento. Musiche che sono, di fatto, l’anima di questo ultimo lavoro di Valenti. Maestro, a sua volta, è pensato principalmente con una struttura narrativa lineare, schematica, con un’importante voce narrante presente in quasi tutto il lungometraggio e che, a tratti, risulta un po’ troppo didascalica. A fare da contorno, ci sono, oltre ai filmati di repertorio, le interviste: talvolta sono i compositori stessi rimasti ancora in vita a raccontarci le origini della loro musica, altre volte sono i loro eredi. E poi, finalmente, è l’ora di ascoltare i brani.

lotoro-696x463Scelta azzeccata, quella di avere optato per una regia semplice e priva di qualsiasi orpello. Dato il tema trattato, però, e data, soprattutto, la poesia di ciò che si è messo in scena, si sarebbe potuto scegliere un andamento narrativo più vicino al flusso di coscienza stesso. Mirate didascalie, ad esempio, avrebbero potuto venire in aiuto. Ma queste, ovviamente, sono solo ipotesi azzardate.

Fatto sta che  tra tutti i film in uscita in sala in occasione della Giornata della Memoria, Maestro si è rivelato, quest’anno, uno dei prodotti maggiormente interessanti e caratterizzato da una ben marcata identità. Una piccola opera, in pratica, a cui vale decisamente la pena dedicare poco meno di un’ora e mezza del nostro tempo.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

34° TORINO FILM FESTIVAL – WE ARE THE TIDE di Sebastian Hilger

wsdf_vorschau_bild_1TITOLO: WE ARE THE TIDE; REGIA: Sebastian Hilger; genere: thriller, fantascienza; anno: 2016; paese: Germania; cast: Max Mauff, Lana Cooper, Roland Koch; durata: 84′

Presentato in concorso alla 34° edizione del Torino Film Festival, We are the tide è l’ultimo lavoro del regista tedesco Sebastian Hilger.

In principio vediamo Micha, diligente studente universitario che da anni cerca di portare avanti il suo progetto riguardante gli strani fenomeni naturali verificatisi nella cittadina di Windholm. Il principale problema, però, è l’arretratezza del sistema universitario in sé, che poca fiducia gli ha dato fin dall’inizio. Ed ecco che entra in scena Jana, la sua ex ragazza tornata a Berlino dopo un lungo periodo di silenzio. In Seguito all’ennesima delusione in ambito accademico, i due decidono di partire alla volta di Windholm, per analizzare da vicino le cause che hanno portato alla sparizione dell’oceano e di tutti i bambini del posto, i cui corpi non sono mai stati ritrovati.

Fin qui tutto bene. Il problema è che, da questo punto in avanti, il discorso sul sistema accademico in sé viene completamente abbandonato ed il mistero scientifico si trasforma in un vero e proprio giallo, senza riuscire, però, nell’intento di creare le giuste dinamiche e la giusta “elettricità” richieste. Colpa, forse, di ritmi mal realizzati – con scene di tensione enfatizzate eccessivamente dalla musica, ma che, alla fin fine, si rivelano ben poco decisive in qualità di snodi narrativi – e, diciamolo pure, anche di una certa inesperienza alla base di tutto. Come se non bastasse, oltre alla critica al sistema universitario, anche molti altri elementi tirati in ballo – come, ad esempio, i rimandi all’infanzia del protagonista – vengono lasciati in sospeso senza essere successivamente sviluppati, o, addirittura, portati a conclusione in modo del tutto sommario, già visto ed anche leggermente stereotipato. Peccato. Soprattutto perché, all’interno dello stesso script, vi sono in realtà non pochi fattori di potenziale interesse. Basti pensare anche solo all’elemento dell’acqua: l’acqua che dà la vita e che, in questo caso, sta a simboleggiare una vera e propria rinascita, sia per quanto riguarda i bambini scomparsi che il protagonista stesso.

Malgrado tutto, però, al giovane Hilger un merito va riconosciuto: tutto sommato il ragazzo ha dimostrato buone capacità registiche, con una buona gestione degli spazi e movimenti di macchina dinamici e sempre appropriati. E questo non è cosa da poco. Con tali premesse, i prossimi step da affrontare sono innanzitutto trovare una propria strada, senza voler a tutti i costi diventare il nuovo Steven Spielberg – di Steven Spielberg ne abbiamo già uno, fino a prova contraria – ed evitare la scelta di abbracciare così tante tematiche e così tanti generi in una sola volta. In poche parole, less is more!

VOTO: 5/10

Marina Pavido

11° FESTA DEL CINEMA DI ROMA – SOLE CUORE AMORE di Daniele Vicari

dsc_9385TITOLO: SOLE CUORE AMORE; REGIA: Daniele Vicari; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Italia; cast: Isabella Ragonese, Francesco Montanari, Eva Grieco; durata: 113′

Presentato in anteprima – in Selezione Ufficiale – all’11° Festa del Cinema di Roma, Sole cuore amore è l’ultimo lungometraggio diretto dal regista e documentarista Daniele Vicari.

Eli e Vale sono amiche per la pelle. La prima è sposata e madre di quattro figli. Ogni giorno è costretta ad alzarsi prestissimo per andare a lavorare in un bar, dal momento che suo marito è disoccupato e solo lei è in grado di mantenere la famiglia. La seconda, single, ha deciso di intraprendere la non facile carriera di ballerina, lavora spesso di notte e – durante il giorno – aiuta l’amica facendo da babysitter ai bambini. Il mondo del lavoro e la società, però, non sembrano essere generose con nessuna delle due giovani donne.

Il tema della precarietà del lavoro, si sa, è stato – negli ultimi anni – uno dei temi più gettonati. E non solo per quanto riguarda il cinema italiano. La differenza sta, appunto, nel modo in cui il tutto viene messo in scena. E con questo suo ultimo lungometraggio Daniele Vicari è riuscito, in qualche modo, a creare qualcosa di personale, sia dal punto di vista della regia che per quanto riguarda il taglio che ha deciso di dare all’intera storia.

Interessante, a questo proposito, la scelta di utilizzare – sia in apertura, per presentare le due protagoniste, sia in chiusura, per mostrare quello che sembra essere il destino di entrambe – il montaggio parallelo. Ritmi serrati che quasi non ci fanno prendere fiato, colori e luci contrastanti – a seconda della scena rappresentata. Il tutto scorre velocemente, inesorabilmente. Anche questa volta Vicari è riuscito a mettere sullo schermo immagini di grande potenza visiva ed emotiva. Seppur leggermente autocompiacenti.

Quello che, però, all’interno del lungometraggio funziona decisamente poco, è proprio il finale. Nulla volendo togliere al riuscito impatto emotivo degli ultimi minuti, senza dubbio ci troviamo davanti ad un epilogo decisamente telefonato, che, proprio per questo motivo, non riesce ad avere la potenza originariamente auspicata. Stesso discorso per alcuni dialoghi. Soprattutto quelli tra Eli e suo marito. Le battute, di fatto, appaiono, a volte, eccessivamente costruite e poco spontanee, al punto quasi di far perdere credibilità al tutto.

Tutto sommato, però, Vicari – e questo bisogna riconoscerlo – ha evitato l’errore di mettere in scena un film retorico e buonista, visto il rischio che si corre nel momento in cui si decide di raccontare storie del genere. E lo ha fatto creando un prodotto perfettamente in linea con il suo stile e la sua cinematografia. Un prodotto che non decolla come dovrebbe e che, spesso e volentieri, fa storcere il naso, ma che, tutto sommato, si classifica come un lavoro intellettualmente onesto. E questo, di certo, non è poco.

Al termine della visione, però, sorge spontanea una considerazione: se ripensiamo a tutta la filmografia del regista, notiamo come i suoi risultati migliori siano venuti fuori attraverso i documentari. Che sia questa la strada di Daniele Vicari? Questo, ovviamente, solo il tempo saprà dircelo.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – I BABYSITTER di Giovanni Bognetti

i-babysitter-2016-movie-still-12TITOLO: I BABYSITTER; REGIA: Giovanni Bognetti; genere: commedia; anno: 2016; paese: Italia; cast: Diego Abatantuono, Francesco Mandelli, Paolo Ruffini, Francesco Facchinetti, Alberto Farina; durata: 84′

Nelle sale italiane dal 19 ottobre, I babysitter è l’opera prima del regista e sceneggiatore Giovanni Bognetti, prodotta dalla Colorado Film e tratta dal lungometraggio Babysitting, diretto da Philippe Lacheau e Nicolas Bernamou.

Il timido ed insicuro Andrea – con una grande passione per lo sport – lavora presso il celebre procuratore sportivo Gianni Porini. Sperando di riuscire a fare finalmente un salto nella sua carriera, il giovane presenta un interessante progetto al capo, ma quest’ultimo si limita ad ingaggiarlo come babysitter per suo figlio, il capriccioso e scontroso Remo. L’indomani mattina Gianni e sua moglie vengono svegliati dalla polizia: suo figlio ed il babysitter sono scomparsi. L’ispettore di polizia, inoltre, trova una videocamera con varie registrazioni risalenti alla sera precedente, in cui è stata filmata la festa di compleanno di Andrea, che gli amici hanno voluto organizzare a tutti i costi a casa di Gianni.

i-babysitter-2016-movie-still-2Una commedia che racconta i sogni dei giovani di oggi. Una commedia che ci mostra l’importanza di essere genitori e di dedicare del tempo ai propri figli. Una commedia ricca di gag e di equivoci. Una commedia che, però, abbiamo già visto molte, moltissime volte. Soprattutto negli ultimi anni. Ed è proprio questo il problema di I babysitter: l’essere uguale a centinaia di altri prodotti, sia per stile che per tematiche. I personaggi – tutti fortemente stereotipati – sono anche i protagonisti di molti altri film. Così come le battute – spesso volgari, eccessivamente macchinose da sembrare decisamente poco spontanee ed incollate sulla sceneggiatura col solo intento di creare a tutti i costi un effetto pseudo comico, ma risultanti quasi staccate dal resto della narrazione. Ma è davvero questo che fa ridere gli italiani oggi? A quanto pare, visti i risultati al botteghino, pare proprio che certi éscamotages funzionino con una buona porzione di pubblico.

Forse l’unico elemento innovativo di quest’opera prima di Bognetti sta nell’utilizzare un doppio livello visivo e narrativo, mediante l’introduzione, appunto, di filmati “amatoriali” che, a loro volta, rendono quell’effetto metacinematografico che rende il tutto decisamente più interessante. Un po’ come viene fatto in The Blair Witch Project, ma qui riproposto nello stile tematico di Una notte da leoni. Ecco, fatta eccezione per questa scelta – oltre che per le buone prove attoriali di Diego Abatantuono (nel ruolo di Gianni Porini), di Francesco Mandelli, così come di Alberto Farina – purtroppo in I babysitter c’è ben poco da salvare.

i-babysitter-paolo-ruffini-francesco-mandelli-franco-facchinetti-andrea-pisani-luca-peracino-e1471540843395Ed ecco che torniamo a porci sempre la stessa, triste domanda: che fine ha fatto la commedia all’italiana? A quanto pare, oggi sono la banalità e la volgarità ad avere la meglio. E, a quanto pare, il Cinema, la Settima Arte, viene sempre più spesso considerata un’arte minore, dal momento che – contrariamente, ad esempio, a quanto accade visitando una mostra o un museo – al pubblico viene erroneamente fatto credere di poter “spegnere” il cervello durante la visione di un film. D’accordo, va benissimo il relax, d’altronde ci sono state ottime commedie che, a loro modo, sono entrate di diritto nella storia del cinema e che sono dotate anche di uno spessore non indifferente. Ma questo di certo non è il caso della maggior parte di prodotti di grande distribuzione presenti nelle sale ai giorni nostri. E su questo fenomeno una riflessione va sicuramente fatta.

VOTO: 4/10

Marina Pavido

VENEZIA 73 – BITTER MONEY di Wang Bing

ku-qianTITOLO: BITTER MONEY; REGIA: Wang Bing; genere: documentario; anno: 2016; paese: Cina; durata: 150′

Presentato in concorso nella sezione Orizzonti alla 73° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, Bitter Money è l’ultimo lavoro del premiato documentarista cinese Wang Bing.

Tre storie, tre giovani che hanno lasciato la periferia per trasferirsi in una grande città metropolitana della Cina orientale, al fine di trovare lavoro. Malgrado il settore industriale sia in continua crescita, però, poca attenzione si presta alle condizioni di vita dei numerosi lavoratori delle fabbriche. I giovani protagonisti sono alcuni esempi di operai sfruttati e sottopagati che, a quanto pare, hanno perso qualsiasi concezione della realtà.

Wang Bing da sempre si è dimostrato attento alle numerose problematiche politiche e sociali del presente, così come del passato. Il tema del lavoro, ad esempio, già era stato trattato nel documentario Coal Money (2008), in cui venivano denunciate le disumane condizioni di vita di alcuni minatori cinesi, ed in I dannati di Jiabiangou (2010), ambientato nei primi anni Sessanta della Cina maoista. In Bitter Money viene raccontato, invece, un mondo al quale si è costantemente in contatto: basta, infatti, recarsi anche solo in un negozio qualsiasi della metropoli per essere testimoni delle drammatiche condizioni di indigenza di chi ci lavora.

Caratteristica dello stile di Wang Bing è la grande capacità di far entrare lo spettatore nel vivo delle vicende mostrate, grazie ad una raffinata tecnica di pedinamento zavattiniana ed a un realismo quassi estremo – ottenuto grazie anche all’uso di particolari focali a seconda di ciò che si vuol mettere in evidenza – che – con una buona dose di crudezza – non ha paura di mostrarci anche gli aspetti più reconditi della vita dei personaggi da lui raccontati. Anche in questo suo ultimo lavoro, questo modo di raccontare si è rivelato una scelta più che giusta: i tre giovani vengono seguiti passo passo nella loro quotidianità, dal viaggio in treno per trasferirsi in città al lavoro in fabbrica, fino al termine della giornata lavorativa. Fa male – durante la visione – il cinismo che si è impossessato dei protagonisti: i rapporti con i colleghi, gli affetti, ma, soprattutto, la considerazione di sé stessi e degli altri sembrano aver lasciato il posto ad un primordiale istinto di sopravvivenza, quasi come se non si fosse più degli esseri umani, ma si vivesse alla stregua di vere e proprie macchine. È questo, dunque, il prezzo da pagare per mandare avanti l’economia del paese? Wang Bing, ovviamente, non è il primo a denunciare determinate realtà, ma solo lui, però, riesce a farlo colpendo nei punti giusti ed offrendoci un punto di vista particolarmente attento ed indagatore, ma mai presuntuoso o eccessivamente giudicante.

L’unica pecca di un grande lavoro come Bitter Money può essere, forse, quella di avere al proprio interno qualche punto morto di troppo (sebbene la sua durata sia di gran lunga inferiore ad alcuni dei precedenti lavori), in quanto il regista tende a reiterare eccessivamente determinati momenti. Detto questo, però, ci troviamo comunque davanti ad un ritratto coinvolgente ed addirittura magnetico di una porzione della società odierna, ulteriore dimostrazione del grande talento del maestro cinese, il quale, a sua volta, si è confermato uno dei più abili narratori del reale presenti ai giorni nostri, facendo sì che le storie da lui mostrate diventino, in qualche modo, anche le nostre storie.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

VENEZIA 73 – AUSTERLITZ di Sergei Lonitsa

austerlitz-sergei-loznitsaTITOLO: AUSTERLITZ; REGIA: Sergei Lonitsa; genere: documentario; anno: 2016; paese: Ucraina, Russia; durata: 94′

Presentato fuori concorso alla 73° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, Austerlitz è l’ultimo documentario diretto dal pluripremiato cineasta ucraino Sergei Lonitsa, già a Venezia lo scorso anno con l’ottimo The Event, dove ci viene raccontato – attraverso un accurato lavoro di montaggio di filmati d’epoca – il colpo di stato che, nel 1991, ha tentato il rovesciamento del governo Gorbaciov.

Come reagisce, oggi, la società nel rapportarsi in prima persona ad una delle più grandi tragedie della storia? In che modo determinati avvenimenti hanno o hanno avuto influenza su di noi?

Trentatré piani sequenza a camera fissa ci mostrano gruppi di turisti all’interno di un campo di concentramento. Le immagini parlano da sé, non vi è bisogno di alcuna voce narrante, così come non vi è bisogno di musica. E non vi è bisogno di colori. Orde di persone sorridenti e chiassose affollano le inquadrature. Gli smartphones fanno da grandi protagonisti. Una coppia di turisti – marito e moglie, probabilmente – guarda incuriosita in macchina, notando la presenza dell’operatore. Una bambina corre, sbirciando qua e là, attraverso i corridoi dei dormitori. Una comitiva di visitatori chiede, impaziente, quando ci sarà la pausa pranzo. Un uomo si fa fotografare dalla moglie a mo’ di impiccato vicino ad uno dei pali dove molti internati sono stati a loro tempo appesi. E poi selfies, selfies e ancora selfies. Lungi da voler fare un discorso sulla morale, possiamo affermare, senza dubbio, che con Austerlitz abbiamo avuto modo di imbatterci in uno dei più interessanti lavori presentati fino ad ora al Lido. Ma procediamo per gradi.

Il tempo e la memoria sono sempre stati una costante nella prolifica carriera di Lonitsa. Sia per quanto riguarda i film di finzione, che per quanto riguarda i documentari. Cineasta particolarmente realista ed intellettualmente onesto, ci mostra la realtà così com’è – senza abbellimento alcuno. A nulla servono i filtri, sta allo spettatore prendere atto di quanto appare sullo schermo. Ed ecco che il cinema torna alle proprie origini, come quando – nel lontano 1895 – i fratelli Lumière filmarono per la prima volta i loro operai mentre uscivano dalla fabbrica.

Il tempo, appunto, ci mostra come determinati avvenimenti possano non avere influenza alcuna su chi viene “dopo”. E – proprio a questo proposito – la memoria fa da grande assente. Assenza che potrebbe far sì che molti errori commessi in passato possano essere pericolosamente reiterati da una società immemore che ha fatto dell’esibizionismo e del voyeurismo il suo pane quotidiano. Una società spesso studiata da Lonitsa – in rapporto ai grandi avvenimenti storici – nel corso della sua carriera e che – al giorno d’oggi – sembra aver perso quella consapevolezza, quella coscienza e quel senso di appartenenza mostratici dallo stesso cineasta in The Event.

Non si tratta semplicemente di uno dei tanti documentari sui campi di concentramento, quello no. Austerlitz è molto di più. È un documento di forte impatto su ciò che oggi siamo diventati. Un prodotto estremamente stratificato nella sua semplicità. Un lungometraggio che – con un’estetica priva di fronzoli e con scelte registiche altamente minimaliste (in piena linea con tutta la cinematografia di Lonitsa, d’altronde) – colpisce dove deve colpire, esprimendo sì un preciso messaggio, ma evitando – allo stesso tempo – che quest’ultimo venga manifestato in modo invadente. Neanche quando, man mano che ci si avvicina alla conclusione, vediamo una famiglia sorridente intenta a farsi un selfie sotto la scritta “Arbeit macht frei”, all’ingresso del campo. Ma Austerlitz non è solo questo. Dal punto di vista prettamente cinematografico, questo piccolo, potente documentario è una vera e propria perla. Pregiato, raffinato, curatissimo (grazie anche alla fotografia di Vladimir Golovnitzkiy), è un’ulteriore conferma del grande talento di Sergei Lonitsa. Autore che, purtroppo, fatta eccezione per determinati festival cinematografici, nel nostro paese non ha ancora avuto l’attenzione che merita.

VOTO: 9/10

Marina Pavido

VENEZIA 73 – VOYAGE OF TIME: LIFE’S JOURNEY di Terrence Malick

f9d2848476cb28f4ce0cacc5df925881-e1457977034630TITOLO: VOYAGE OF TIME: LIFE’S JOURNEY; REGIA: Terrence Malick; genere: documentario; anno: 2016; paese: USA; cast: Cate Blanchett; durata: 90′

Presentato in concorso alla 73 Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, Voyage of Time: Life’s Journey è l’ultimo lungometraggio diretto dal celebre regista Terrence Malick, già in concorso a Venezia nel 2012 con il controverso To the Wonder.

Le origini dell’universo. La natura in tutte le sue declinazioni. Le prime forme di vita sulla Terra. L’alba dell’uomo. Lo sviluppo della civiltà, fino ad arrivare ai giorni nostri. Le origini di tutto, le nostre origini.

Malick, si sa, per la sua particolare poetica e per la sua personalissima tecnica narrativa viene spesso considerato un autore non facile, a volte addirittura eccessivamente autoreferenziale. Eppure, si tratta del suo modo di fare cinema: un approccio del tutto personale ai grandi quesiti esistenziali con storie di singoli personaggi narrate attraverso il flusso di coscienza. Uno stile, questo, che – se ripercorriamo le tappe principali della filmografia del regista statunitense – è diventato, nel corso del tempo, sempre più marcato ed estremo. Basti pensare, infatti, ai suoi primi lungometraggi – La rabbia giovane (1973) e I giorni del cielo (1978) – i quali presentano struttura e ritmi narrativi più classicheggianti. Lo stesso non si può dire per i suoi ultimi lavori, To the Wonder, appunto e Knight of Cups, presentato in concorso, nel 2015, al Festival di Berlino.

E proprio in questa sua ultima opera vediamo la sua estetica estremizzarsi ancora di più. Vengono abbandonate, qui, le storie personali e ci si concentra esclusivamente sull’universale. La vita – qui invocata più volte come “madre” dall’intensa voce di Cate Blanchett – fa da grande protagonista. Da lei ha origine il tutto. Ed ecco che, dopo pochi secondi di nero, appaiono sul grande schermo immagini di costellazioni, di pianeti, del sistema solare, per poi arrivare sulla Terra, dove oceani, montagne, pianure e suggestive scogliere hanno un’influenza magnetica su chi li osserva. Immagini di grande impatto e di grande potenza visiva, che, di quando in quando, vengono intervallate da filmati girati in super8 che ci mostrano l’umanità ai giorni nostri: uomini e donne che chiedono l’elemosina in strade affollate, danze folkloristiche, corride e bambini che giocano su un prato. Filmati, questi, fortemente in contrasto con le scene che ci raccontano la nascita dell’Universo e della vita sulla Terra. Queste ultime, infatti, si distinguono per un raffinato quanto meticoloso lavoro di computer grafica, il quale, a sua volta, risulta una scelta vincente per quanto riguarda la rappresentazione di costellazioni, di paesaggi naturali e di animali, ma decisamente eccessivo e macchinoso nelle scene in cui vengono mostrati i primi dinosauri a comparire sul nostro pianeta o l’alba dell’uomo stessa (per quanto riguarda quest’ultimo elemento, già Kubrick – a suo tempo – aveva creato qualcosa di simile, ma – diciamocelo – lo aveva fatto decisamente meglio).

Interessante operazione che – proprio per il massiccio utilizzo della computer grafica, appunto – anche visivamente si discosta dal resto della filmografia. Ed anche se i alcuni suoi estimatori dovessero rimpiangere la meravigliosa fotografia del maestro Nestor Almendros ne I giorni del Cielo, sarebbero comunque costretti a riconoscere la grande qualità delle immagini qui presenti e la loro pertinenza rispetto a ciò che si vuole raccontare.

In poche parole, per il tema trattato e per la sua rappresentazione, Voyage of Time sembrerebbe quasi il culmine della carriera di Malick. La conclusione di un coraggioso percorso iniziato, ormai, più di quarant’anni fa. Ma sappiamo bene che, in realtà, non si tratta affatto di una conclusione. Per il 2017, infatti, è atteso il suo nuovo lavoro, Weightless. Staremo a vedere che strada si prenderà. Ma – in ogni caso – per il suo talento e per una carriera di tutto rispetto, a Malick ormai tutto è concesso. O quasi.

VOTO: 7

Marina Pavido

VENEZIA 73 – MONTE di Amir Naderi

1459871146048TITOLO: MONTE; REGIA: Amir Naderi; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Italia, Iran; cast: Andrea Sartoretti, Claudia Potenza, Zaccaria Zanghellini; durata: 105′

Presentato fuori concorso alla 73° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Monte è l’ultimo lungometraggio del pluripremiato regista iraniano Amir Naderi.

Siamo in epoca medievale. Agostino e sua moglie Nina vivono – insieme al figlio Giovanni – in un piccolo villaggio pedemontano, dove – proprio a causa del monte su cui è situato – non arriva mai la luce del sole. Chiunque abbia vissuto lì ha avuto vita breve oppure è stato costretto a fuggire. Nina ed Agostino, però, hanno appena seppellito la figlioletta Sara e la donna non vuole allontanarsi dalla tomba della bambina. Essi sono gli unici abitanti rimasti.

Forte è l’impatto visivo fin dalla prima inquadratura, in cui viene mostrata l’abitazione dei protagonisti con il monte che si staglia sullo sfondo ed una fotografia con colori freddi e fortemente contrastati. Così forte da farci capire immediatamente che ci troviamo di fronte a puro cinema: a poco servono i dialoghi – a cui Naderi fa ricorso soltanto in caso di estrema necessità. Tutto viene comunicato quasi esclusivamente per immagini. Alle numerose panoramiche, ai campi lunghi, ma anche a primi piani di mani sporche di terra e volti rigati di lacrime il compito di raccontare il tutto. Ed ecco che, fin dai primi minuti, entriamo a far parte delle vite dei protagonisti e quel senso di angoscia, di claustrofobia che fin da subito ci viene trasmesso resta dentro di noi per tutta la durata del film, in un crescendo emotivo che diviene quasi insostenibile, fino all’agognata liberazione finale.

E la sfida, tema costante nelle opere del regista, anche in quest’ultima opera è di centrale importanza: riuscirà l’uomo ad avere la meglio sulla natura quando la natura stessa sembra non dargli scampo? Fino a che punto può spingersi l’essere umano? La risposta sta negli ultimi minuti del film, quando Agostino e suo figlio Giovanni si accaniscono per anni – fino ad invecchiare – contro quel monte che ha tolto loro la vita stessa. Immagini forti che raggiungono il climax quando vediamo la montagna finalmente sgretolarsi, con le inquadrature che si fanno più strette sui protagonisti, insieme ad un azzeccato slow motion.

Naderi, anche questa volta, ha dato prova di grande talento con un’opera che può essere definita monumentale, le cui immagini fanno quasi male per la loro bellezza e la loro potenza. Immagini che, però, non ci mostrano soltanto la natura, ma anche diversi spaccati di una cittadina medievale, con i suoi abitanti, le sue superstizioni e, infine, il suo forte credo religioso. Memorabile – a questo proposito – la scena in cui Agostino, sentendo di essere stato completamente abbandonato, non riesce a guardare – una volta entrato in chiesa – in direzione dell’immagine della Madonna, per poi spegnere con rabbia uno dei ceri accesi sotto al crocifisso.

Un piccolo miracolo al Lido. Una storia semplice, ma attuale in qualsiasi contesto la si voglia collocare. Proprio come accade in alcuni dei grandi capolavori della storia del cinema. E se la definizione di capolavoro – di cui, spesso e volentieri, si fa un uso spropositato – non è del tutto adatta a questo ultimo lungometraggio di Naderi, difficilmente potrà essere associata – nell’ambito della produzione contemporanea – a qualche altra pellicola. Soprattutto in un’epoca come la nostra, in cui, ormai, in ambito cinematografico, è stato creato quasi di tutto. Quasi, però.

VOTO: 9/10

Marina Pavido