LA RECENSIONE – TUTTI IN PIEDI di Franck Dubosc

Tutti-in-piedi-3TITOLO: TUTTI IN PIEDI; REGIA: Franck Dubosc; genere: commedia; paese: Francia; anno: 2018; cast: Franck Dubosc, Alexandra Lamy, Gérard Darmon; durata: 107′

Nelle sale italiane dal 27 settembre, Tutti in piedi è l’ultima commedia diretta dall’attore e sceneggiatore francese Franck Dubosc, qui alla sua opera prima da regista.

Jocelyn è un seduttore impenitente alla soglia dei cinquant’anni. Appena rimasto orfano della madre – con la quale era da tempo ai ferri corti – l’uomo è incapace di avere relazioni durature con le donne. Tutto sembra cambiare, però, in seguito all’incontro con la bella violinista Florence, la quale è paraplegica. Per una serie di equivoci, però, la donna si convincerà che anche Jocelyn è paraplegico. Non sarà facile, dunque, mettere in piedi una farsa, al fine di non ferire i sentimenti di Florence.

Una commedia molto classica nella sua impostazione, che dalla sua ha soprattutto il fatto di ridere con garbo e delicatezza della disabilità, ritraendo personaggi forti e determinati, i quali, a loro volta, ben sanno rendere l’idea di ciò che i disabili vivono ogni giorno.

Cosa non facile, dunque, soprattutto a causa del rischio di scadere nella retorica. Questo,però, è stato fortunatamente evitato dal regista – qui nei panni dello stesso protagonista – il quale, pur avendo dimostrato di saper gestire al meglio determinati elementi, non ha evitato scivoloni e scelte poco azzeccate tipiche di chi per la prima volta si rapporta al lavoro dietro la macchina da presa.

Ed ecco che espedienti comici spesso forzati (vedi il collega musicista di Florence che è solito accompagnarsi ai transessuali o anche gli imbarazzanti controlli della prostata a cui il protagonista deve sottoporsi) si alternano spesso a un personaggio principale gestito non al meglio, in quanto, come, purtroppo, sovente accade, nel momento in cui il ruolo di regista e quello di attore protagonista vengono ricoperti dalla stessa persona, il rischio che una pericolosa megalomania e un fastidioso egocentrismo abbiano la meglio sulla qualità complessiva del lavoro è più che mai elevato.

E questo è, purtroppo, ciò che è accaduto in Tutti in piedi, che, tutto sommato, avrebbe potuto essere complessivamente un lavoro pulito e gradevole. Che ciò dipenda (solo) all’inesperienza di Dubosc come regista? Questo, ovviamente, soltanto il tempo potrà dircelo.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – LIBERE DISOBBEDIENTI INNAMORATE di Maysaloun Hamoud

libere_disobbedienti_innamorateTITOLO: LIBERE DISOBBEDIENTI INNAMORATE; REGIA: Maysaloun Hamoud; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Israele, Francia; cast: Mouna Hawa, Sana Jammelieh, Shaden Kanboura; durata: 103′

Nelle sale italiane dal 6 aprile, Libere disobbedienti innamorate è l’opera prima della giovane regista israeliana Maysaloun Hamoud, presentata in concorso al Toronto International Film Festival.

Siamo a Tel Aviv. Laila è un’affascinante avvocato, sicura di sé e molto ammirata. Salma, dal canto suo, ha una personalità molto più docile, lavora come barista e saltuariamente come deejay. Nour, infine, è la più fragile di tutte. Estremamente religiosa (soprattutto in seguito all’educazione ricevuta), è fidanzata e prossima alle nozze con un uomo considerato dalla propria famiglia “un buon partito”. Solo nel momento in cui andrà a vivere con Laila e Salma capirà cosa vuol dire davvero essere felici e, soprattutto, essere sé stesse.

in_between_still_1_h_2016Se si pensa al titolo originale del lungometraggio – In Between – si riesce ad inquadrare maggiormente la condizione in cui le tre ragazze si trovano. Sono donne, loro, che hanno già spiccato quel salto verso la libertà e l’affermazione di sé (cosa naturale all’interno della cultura occidentale), ma che, tuttavia, non riescono, loro malgrado, a superare del tutto la loro stessa cultura, ancora estremamente tradizionale. Il coesistere di questi due mondi, l’essere in bilico tra essi viene reso particolarmente bene dalla giovane regista, la quale, dal canto suo, pur dando al lungometraggio un andamento decisamente classico e lineare, parte inizialmente subito in quarta – grazie anche ad un particolare uso della musica (ad alto volume) e del montaggio (con tagli netti, quasi improvvisi) – facendo sì che il suo lavoro sia un lungometraggio arrabbiato, “urlato”, che sa il fatto suo e che, analogamente alle sue protagoniste, reclama a gran voce il diritto di “fare la differenza”, di distinguersi all’interno della cinematografia del proprio paese, sia per il tema trattato, sia per il fatto di essere stato girato da una donna (se si pensa a Ronit Elkabetz, a Rama Burstein e a poche altre, non sono molte, di fatto, le registe donne in Israele). E, di fatto, malgrado un (a volte fin troppo) forte attaccamento alla cinematografia occidentale, dovuto, probabilmente, in parte ai gusti personali, in parte alla scarsa esperienza dietro la macchina da presa, questo lavoro della Hamoud in qualche modo la differenza la fa. Se non altro per la genuinità della regista stessa e, soprattutto, per le brave interpreti che, malgrado una caratterizzazione forse un po’ troppo stereotipata e non del tutto naturale dei loro personaggi, riescono a rendere, di fatto, le loro Laila, Salma e Nour fortemente empatiche e fin da subito in sintonia con lo spettatore.

10_lLa creta ce l’abbiamo, ora pensiamo a modellare la scultura. E, chissà, magari prima di quanto si pensi, il cinema di Maysaloun Hamoud raggiungerà finalmente una propria, necessaria maturità, in modo da spiccare il volo una volta per tutte.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – PER UN FIGLIO di Suranga D. Katugampala

arton2538TITOLO: PER UN FIGLIO; REGIA: Suranga D. Katugampala; genere: drammatico; anno: 2017; paese: Italia; cast: Kaushalya Fernando, Julian Wijesekara, Nella Pozzerle; durata: 75′

Nelle sale italiane dal 30 marzo, Per un figlio è l’opera prima del giovane regista originario dello Sri Lanka Suranga D. Katugampala, prodotta da Antonio Augugliaro, già noto per aver diretto il documentario Io sto con la sposa.

Sunita è una donna srilankese di mezza età che lavora come badante presso un’anziana signora in una cittadina di provincia del nord Italia. La donna ha un figlio adolescente da poco giunto in Italia, con il quale, però, c’è un rapporto tutt’altro che facile, sia per il fatto di non averlo seguito durante i suoi primi anni di vita, sia per il tentativo di quest’ultimo di integrarsi in un contesto culturale che la stessa Sunita fa fatica ad accettare.

Per-un-figlio-2Per un figlio racconta, dunque, la storia di tante donne che, al fine di garantire ai propri figli una vita dignitosa, sono costrette ad abbandonarli fin da piccoli per andare a vivere e lavorare all’estero. Da qui la decisione da parte del giovane regista di focalizzare l’attenzione esclusivamente sulla donna, secondo una messa in scena che rispecchia in tutto e per tutto le teorie del pedinamento zavattiniano. Ed ecco che ci troviamo di fronte ad un lungometraggio estremamente asciutto e realista, dove non v’è spazio per ogni qualsivoglia abbellimento, ma che ci mostra la cruda realtà così com’è. Ciò che vediamo è la quotidianità di una donna divisa tra un lavoro non facile e la gestione di un figlio adolescente che nutre nei suoi confronti non pochi rancori. Una donna che non sa come dividersi e che ogni giorno corre da una parte all’altra della cittadina con il proprio scooter, senza avere un attimo di tregua per sé stessa. La macchina da presa, dal canto suo, sembra allontanarsi dalla protagonista solo per mostrarci brevi stralci della vita del ragazzo fuori casa, insieme agli amici, nel tentativo di trovare un proprio posto nella società.

Per-un-figlio-1La storia di una singola persona che, però, è la storia di tanta gente costretta a fare scelte non sempre facili. Non a caso, dunque, la protagonista, Sunita, è l’unico personaggio ad essere identificato con un nome proprio. Tutti gli altri sono attori di una pièce che sembra ripetersi quasi quotidianamente, indipendentemente dal luogo o dal contesto in cui ci si trova. Una pièce che, in questo caso, è stata messa in scena grazie ad uno sguardo sì giovane, ma anche estremamente maturo e consapevole, per quanto riguarda il linguaggio cinematografico. Di conseguenza, Per un figlio rappresenta un ottimo esordio sulla scena di Katugampala, da sempre attento alle problematiche del suo paese di origine e che di sicuro ha in serbo non poche sorprese per il futuro.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – ELLE di Paul Verhoeven

Brody-ThePhonySexualTransgressionsofPaulVerhoevensElle-1200TITOLO: ELLE; REGIA: Paul Verhoeven; genere: drammatico, thriller; anno: 2016; paese: Francia; cast: Isabelle Huppert, Laurent Lafitte, Anne Consigny; durata: 130′

Nelle sale italiane dal 23 marzo, Elle è l’ultimo lungometraggio diretto da Paul Verhoeven, in concorso ufficiale al Festival di Cannes 2016 e per il quale Isabelle Huppert è stata candidata all’Oscar come Miglior Attrice Protagonista.

La vita di Michèle, donna dal pugno di ferro a capo di un’importante azienda che produce videogiochi, cambia radicalmente il giorno in cui un uomo la aggredisce in casa propria. Una volta riuscita a rintracciarlo, però, senza ricorrere all’aiuto della polizia, tra i due si instaurerà un gioco strano ed alla lunga pericoloso.

elle-nuova-clip-dal-film-paul-verhoeven-v5-275620-1280x720Che dire? Già il nome stesso di Isabelle Huppert è di per sé una garanzia. Se poi il prodotto in questione è frutto di un lungo e pensato riadattamento (l’opera di Verhoeven è tratta dal romanzo Oh… di Philippe Djian) da parte di un maestro del cinema mondiale che, anche questa volta, non ha dimenticato di curare a lungo sia i vari snodi narrativi sia l’introspettività dei protagonisti stessi, ecco come risultato un lungometraggio estremamente raffinato, complesso e stratificato, all’interno del quale sono racchiuse più di una tematica.

35106_43_ELLE_stills03_c_SBS_productions_WAHL01-600x403In primo luogo, vi è il tema della propria identità personale e, nello specifico, dell’identità della stessa Michèle, la quale per molti anni ha indossato una sorta di maschera, una corazza al fine di apparire invulnerabile. In secondo luogo, il difficile rapporto con i genitori (in questo caso sarebbe meglio parlare di una vera e propria tragedia che ha per sempre segnato la vita della protagonista). Infine, ma non ultimo per ordine di importanza, vi è il tema della vendetta.Vendetta che ha luogo dopo molti anni e che non riguarda esattamente la persona direttamente interessata, ma che, ad ogni modo, viene perseguita in modo talmente sottile e talmente arguto – anche dal punto di vista dello script, questo ultimo lavoro di Verhoeven ha dimostrato di avere un ottimo livello – da far sì che la stessa Michèle possa entrare a far parte di diritto del gruppo delle “dark ladies” più intriganti della storia del cinema.

Per questi motivi, ma anche per il crescendo di tensione e per i toni dal thriller che il regista olandese ha saputo trasporre sullo schermo, Elle si è rivelato un prodotto assolutamente da non perdere, al termine della cui visione ci si sentirà pienamente appagati.

VOTO. 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE – STRANE STRANIERE di Elisa Amoruso

strane-straniere-0TITOLO: STRANE STRANIERE; REGIA: Elisa Amoruso; genere: documentario; anno: 2017; paese: Italia; cast: Radoslava Petrova, Sihem Zrelli, Ana Laznibat, Ljuba Jovicevic, Fenxia “Sonia” Zhou; durata: 72′

Nelle sale italiane dall’8 marzo, in occasione della Festa della Donna, Strane straniere è l’ultimo documentario della giovane regista romana Elisa Amoruso, conosciuta dal grande pubblico grazie a Fuoristrada, sua opera prima presentata alla Festa del Cinema di Roma 2013.

Sono queste le storie di Radoslava – che ha scoperto una grandissima passione per la pesca – di Sihem – direttrice di un centro accoglienza anziani – di Ana e Ljuba – titolari di una galleria d’arte nel cuore di Roma – e, infine, di Sonia – proprietaria di uno dei più rinomati ristoranti cinesi della Capitale. Tante storie, dunque, per tante diverse – e bellissime! – personalità. Conoscere meglio ognuna di queste coraggiose donne al fine di superare eventuali inutili pregiudizi è la principale finalità di questo lavoro della Amoruso, il quale, a sua volta, prende vita da un progetto a carattere prettamente antropologico portato avanti da Maria Antonietta Mariani.

22510_origSe un documentario come Fuoristrada, dunque, ha saputo colpire nei punti giusti, lo stesso ci si aspetta da Strane straniere, il quale mostra, a sua volta, in che modo lo stile di una cineasta come la Amoruso stia, in un modo o nell’altro, assumendo una propria, certa identità. Da un punto di vista prettamente cinematografico, infatti, è evidente come ci sia stata qui una più approfondita ricerca estetica: è questo il momento, quindi, in cui simmetrici plongés ed intensi primi piani, che seguono l’immagine – in apertura del film – di una cantante lirica intenta ad intonare l’aria Un bel di’ vedremo dalla Madama Butterfly di Puccini, si uniscono ad immagini poetiche ed evocative in cui variopinte lanterne cinesi si stagliano nel cielo di notte. Per il resto del documentario, scene di vita quotidiana, con le sole voci fuori campo delle dirette interessate a raccontarci il loro passato. Indubbiamente, si tratta di una messa in scena raffinata e meticolosamente studiata.

1476799554506La questione, qui, però è un’altra: pur tenendo in conto l’efficacia sia contenutistica che narrativa di entrambi i lavori, bisogna forse riconoscere che, malgrado una messa in scena maggiormente “rudimentale” (o forse proprio grazie ad essa), Fuoristrada gode indubbiamente di una maggiore genuinità, di una certa – e necessaria – spontaneità che sembra, al contrario, forse un po’ troppo debole in Strane straniere. Tutto farebbe pensare ad un’eccessiva preoccupazione riguardante l’estetica del prodotto, all’interno del quale, però, sarebbero stati indubbiamente interessanti ulteriori approfondimenti circa le vite delle protagoniste stesse, dalle quali, in fin dei conti, ci sentiamo affascinati e delle quali vorremmo sapere, se possibile, sempre di più. Una messa in scena, dunque, che si discosta non poco dal precedente lavoro. Segno, probabilmente, che lo stile di Elisa Amoruso sta sì maturando, ma che, per spiccare un ulteriore (e, forse, definitivo) salto in alto, ha ancora bisogno di affinarsi ulteriormente, senza prediligere un aspetto, piuttosto che un altro. Alla luce di quanto visto finora, comunque, le buone premesse sembrano esserci tutte.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

67° FESTIVAL DI BERLINO – UNA MUJER FANTASTICA di Sebastian Lelio

una-mujer-fantasticaTITOLO: UNA MUJER FANTÁSTICA; REGIA: Sebastián Lelio; genere: drammatico; anno: 2017; paese: Cile; cast: Daniela Vega, Francisco Reyes; durata: 100′

Presentato in concorso alla 67° Berlinale, Una mujer fantástica è l’ultimo lungometraggio del giovane regista cileno Sebastián Lelio, che già grande successo aveva avuto, sempre a Berlino, nel 2013 con Gloria, per cui la protagonista, Paulina Garcìa, era stata premiata con l’Orso d’Oro. Due protagoniste donne, dunque, per due percorsi non proprio facili. Ma andiamo per gradi.

Marina – giovane transessuale – ha da qualche anno una relazione con Orlando, molto più vecchio di lei. Le cose sembrano andare per il meglio, finché una notte l’uomo non viene colpito da aneurisma e cade dalle scale, per poi morire poco dopo in ospedale. A questo punto la famiglia di lui – che non ha mai visto di buon occhio la loro storia – si farà avanti, accusando Marina di aver causato, in qualche modo, la morte di Orlando, e riappropriandosi della casa e del cane, appartenuti in passato alla coppia. Alla donna non sarà consentito neanche di prendere parte ai funerali del proprio compagno.

Anche Marina, dunque, come Gloria, si trova in un momento cruciale della propria esistenza, quando la propria identità, il proprio valore in quanto essere umano non sembra riconosciuto dal resto del mondo. Si tratta, in entrambi i casi, di donne forti, con un difficile passato alle spalle, ma che non si danno mai per vinte. Nel caso di Gloria, l’obiettivo principale è quello di ricostruire la propria vita dopo un divorzio, anche se non più giovanissima. Nel caso di Marina, lo scopo è quello di poter conservare, almeno in parte, i ricordi e le cose che ha condiviso con l’uomo che amava, prima della morte di lui. Se per quanto riguarda Gloria, però, ci siamo trovati di fronte ad una sceneggiatura decisamente classica e priva di ogni qualsivoglia virtuosismo registico, ecco che con Una mujer fantástica Lelio – particolarmente lanciato – inserisce all’interno della messa in scena anche parecchi elementi rimandanti l’onirico, che contribuiscono a rendere il tutto anche a tratti decisamente surreale. Non ci ricorda qualcosa, o meglio, qualcuno? Ci arriveremo man mano, non preoccupatevi.

La macchina da presa ha come obiettivo (quasi) esclusivo quello di rappresentare la protagonista e la sua interiorità. Tutto il resto – la famiglia del compagno, le indagini della polizia, il suo lavoro – si limita a fare da cornice assumendo contorni volutamente sfocati, a tratti irreali, quasi grotteschi, con non pochi elementi lasciati consapevolmente in sospeso. Non male come idea iniziale, non v’è alcun dubbio. Eppure, una volta realizzata, non convince del tutto, in quanto tutto ciò che circonda la protagonista stessa risulta eccessivamente piatto. Talmente piatto da far calare di qualità tutto il film, il quale, a sua volta, fatica non poco a tenersi in piedi contando esclusivamente su di un solo personaggio, anche se molto ben costruito (e ben interpretato da una Daniela Vega intensa come non mai).

Ad ogni modo, volendo riprendere il discorso lasciato precedentemente in sospeso ed osservando più in generale la produzione di Lelio – tenendo anche in conto la piega tendente al surreale che i suoi lavori sembrano aver preso – non si può non pensare, ovviamente, ad un cineasta come Pedro Almodóvar, con le sue meravigliose protagoniste. E probabilmente è proprio a lui che il giovane regista cileno tende – inconsapevolmente o meno – a rifarsi. Peccato, però, che, in questo caso, forse i successi passati non hanno aiutato le produzioni venute dopo, in quanto non è raro che il rischio di mettere nel proprio lavoro anche una buona dose di megalomania sia sempre molto alto. E, per quanto riguarda Una mujer fantástica, di fatto, è stato quasi fatale.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

 

RIFF 2016 – WOMEN AGAINST ISIS di Pascale Bourgaux

_Viyan_2-®Cineteve2015TITOLO: WOMEN AGAINST ISIS; REGIA: Pascale Bourgaux; genere: documentario; anno: 2016; paese: Francia; durata: 53′

Presentato in anteprima alla XV edizione del Rome Independent Film Festival, Women against Isis è l’ultimo lavoro della documentarista e giornalista francese Pascale Bourgaux, che, qui, ci racconta come alcune donne abbiano deciso di arruolarsi nell’esercito curdo per difendere il proprio paese dai jihadisti.

Tante donne, tante storie, tanti volti con i segni di chi – ormai – nella vita ha visto davvero di tutto: è questo che ci mostra l’ultimo lavoro della Bourgaux. Le donne qui raccontate, ognuna con un passato differente alle spalle, si allenano duramente e combattono ogni giorno per contrastare una delle più grandi minacce dei giorni nostri. Quello che ci viene mostrato è la loro quotidianità fatta di momenti di calma – quando si attende l’arrivo del nemico semplicemente scrutando l’orizzonte – di momenti di duro addestramento e, infine, di momenti di vero e proprio combattimento, dove il rischio di perdere la vita si fa ben alto per le nostre protagoniste. E poi, ognuna di loro non manca di raccontarsi davanti alla macchina da presa: c’è chi è dovuta scappare di casa ed arruolarsi di nascosto dalla propria famiglia, come anche chi, al contrario, ha sempre avuto dalla sua il supporto dei suoi famigliari. Tutte quante, però, hanno in comune un destino simile: l’impossibilità – vista la scelta effettuata – di sposarsi, di avere dei bambini o relazioni di qualsiasi genere, per una vita dedicata esclusivamente all’esercito. Ma, malgrado le mille difficoltà, ciò che in ognuna di loro colpisce è proprio la serenità con cui viene affrontata la vita, atteggiamento tipico di chi non ha rimpianti e sa di aver fatto la scelta giusta.

Ovviamente, nonostante la dura vita dell’esercito, non mancano momenti di gioia e di condivisione, come ad esempio, quando le ragazze ricevono la visita di alcuni bambini, quando – prima di andare a dormire – possono condividere momenti di scherzi e confidenze con le proprie amiche o quando, sempre durante gli allenamenti, si dedicano a particolari danze e canti – finalizzati a far allontanare il nemico, il quale è costretto a scappare all’idea di venire ucciso da una donna.

Davanti a storie come queste, è molto facile che la macchina da presa si limiti ad interpretare il ruolo del testimone silente. A poco servirebbero particolari virtuosismi registici: il forte impatto con il pubblico avviene già da sé. E poco male se, alla qualità artistica, sia stata preferita la storia raccontata: considerando che Pascale Bourgaux lavora principalmente come giornalista, le scelte registiche adottate – di taglio prettamente televisivo – erano in ogni caso fortemente prevedibili.

Resta il fatto che Women against Isis è un importante documento che ci mostra una realtà insolita ed estremamente interessante, ma sconosciuta ai più. E che solo per questo motivo meriterebbe grande attenzione da parte degli illuminati distributori. Staremo a vedere quale sarà il suo destino.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – AQUARIUS di Kleber Mendonça Filho

thumb_1867_media_image_926x584TITOLO: AQUARIUS; REGIA: Kleber Mendonça Filho; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Brasile; cast: Sonia Braga, Maeve Jinkings, Irandhir Santos; durata: 140′

Nelle sale italiane dal 15 dicembre, Aquarius è l’ultimo lungometraggio del regista brasiliano Kleber Mendonça Filho, presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes.

Clara è un critico musicale che, rimasta vedova, vive da sola in un piccolo palazzo sul lungomare di Recife chiamato Aquarius. Una compagnia immobiliare, però, ha già acquistato tutti gli appartamenti dello stabile, con l’intento di costruire un grattacielo di lusso al posto del vecchio edificio.La donna, dal canto suo, non ha alcuna intenzione di vendere l’appartamento in cui ha vissuto per anni. Avrà così inizio una lunga battaglia psicologica e legale tra le due parti e Clara avrà modo di affermare sé stessa e la propria libertà.

aquarius_sonia_braga_irandhir_santos_julia_bernatOsannato dalla critica di tutto il mondo, prodotto con molti problemi in Brasile, questo ultimo lungometraggio di Mendonça Filho è un vero e proprio manifesto della libertà femminile, all’interno di una società che sembra appartenere ancora esclusivamente al genere maschile.

Clara è una donna che ha sofferto molto, ma che dalle sofferenze ha saputo trarre un’inaspettata forza. La malattia che l’ha colpita da giovane resta un ricordo lontano e, allo stesso tempo, più vicino di quanto si possa immaginare. Interessante l’analogia tra la protagonista ed il palazzo in quale ella abita: ci troviamo di fronte ad una vera e propria trasfigurazione, i due diventano una cosa sola e salvare la casa dove ha vissuto ha la valenza, per Clara, di salvare sé stessa. Pertinente, a questo proposito, la scelta di suddividere il lungometraggio in tre capitoli: I capelli di Clara, L’amore di Clara e Il cancro di Clara. Quel che viene raccontato è il lungo percorso compiuto per salvare Aquarius. Poco, molto poco viene accennato circa il passato della protagonista. Quello che sappiamo è che viene da una famiglia numerosa, che ha sconfitto in giovane età il cancro e che ha avuto come esempio di libertà una vecchia zia. Il tutto diviene una base di partenza, l’input per dare il via alla vita di una “seconda Clara”.

56588_pplScript di ferro, regia essenziale e priva di inutili fronzoli, con una fotografia dai colori pastello. Questo lungometraggio di Mendonça Filho è, senza dubbio, un prodotto ben confezionato e ben riuscito. La vera peculiarità del film, però, è la grande Sonia Braga nel ruolo della protagonista. A lei il merito di aver dato vita ad un personaggio vero, intenso e complesso, senza mai andare sopra le righe e reggendo bene ogni singola sfumatura.

L’unico rimprovero che si può muovere a Aquarius è, forse, il fatto di avere al suo interno qualche elemento sviluppato in modo eccessivamente sommario (la figura del marito di Clara, ad esempio, così come il rapporto della stessa con la musica). E, vista la durata del film, si sarebbe potuto approfondire meglio tutto tagliando, forse,alcune scene superflue e ripetitive.

Detto questo, ci troviamo senza dubbio di fronte ad un prodotto vero ed intenso. Un urlo arrabbiato ed appassionato allo stesso tempo che ben rende il desiderio di affermazione e di libertà della protagonista. L’impatto sul pubblico è forte. E gli spettatori, a loro volta, usciranno dalla sala carichi e soddisfatti.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA – LA RAGAZZA DEL TRENO di Tate Taylor

schermata-2016-04-20-alle-13-07-02TITOLO: LA RAGAZZA DEL TRENO; REGIA: Tate Taylor; genere: thriller; anno: 2016; paese: USA; cast: Emily Blunt, Haley Bennett, Rebecca Ferguson; durata: 111′

Nelle sale italiane dal 3 novembre, La ragazza del treno – tratto dall’omonimo romanzo di Paula Hawkins – è l’ultimo lungometraggio diretto da Tate Taylor, che già si è rivelato apprezzato regista nel recente The Help.

Rachel è una giovane donna che, ogni mattina, si reca in treno a New York per lavoro. Devastata dal recente divorzio, è solita osservare dal finestrino una coppia apparentemente felice. Tutto cambia quando, una mattina, vede qualcosa che la sconvolge. Da lì in poi verrà coinvolta in un caso misterioso che, ben presto, si rivelerà molto più grande di lei.

the-girl-on-the-train-2016-movie-still-2Un film sul vedere, questo di Tate Taylor. Un film in cui osservare e venire osservati porta ad importanti conseguenze. Dagli sguardi, infatti, di dipana la vicenda che vede implicate tre giovani donne, le quali ci vengono presentate inizialmente quasi come delle estranee, ognuna con la propria vita, ma che, in realtà, hanno molte più cose che le accomunano di quanto si possa pensare. Nulla è come sembra in apparenza, in La ragazza del treno i ruoli si ribaltano continuamente.

Tema centrale: la donna. La donna forte e fragile allo stesso tempo. La moglie, l’amante, la madre. E le violenze contro di lei. Lo script parte inizialmente da un’idea brillante ed accattivante, ma, purtroppo, peccando forse un po’ troppo di presunzione e di prevedibilità, non riesce a mantenere la tensione ed i ritmi giusti fino alla fine. Peccato. Soprattutto perché il lungometraggio di Taylor ha fin dall’inizio la capacità di catalizzare l’attenzione dello spettatore rendendo quest’ultimo a sua volta partecipe osservatore, analogamente a quanto accade alla protagonista.

Girl on a Train, TheVere peculiarità del lungometraggio sono le ambientazioni – una periferia americana in cui ci si sente terribilmente soli che si contrappone a brevi scorci della vita frenetica nella vicina metropoli – e, soprattutto, la grande prova attoriale regalataci da Emily Blunt, nel ruolo, appunto, della protagonista. Pur dando vita ad una donna alcolizzata, sofferente e con importanti vuoti di memoria, la Blunt è riuscita a mantenere la tensione fino alla fine, evitando il pericoloso errore di andare sopra le righe.

Malgrado le pecche della sceneggiatura e le potenzialità non sfruttate a dovere, non possiamo negare di trovarci davanti ad un thriller tutto sommato godibile e con una buona regia. Un prodotto che, malgrado le intenzioni iniziali, forse resterà in mente soprattutto per le tre donne protagoniste e per la loro buona caratterizzazione. Cosa, questa, non da poco.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

11° FESTA DEL CINEMA DI ROMA – SOLE CUORE AMORE di Daniele Vicari

dsc_9385TITOLO: SOLE CUORE AMORE; REGIA: Daniele Vicari; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Italia; cast: Isabella Ragonese, Francesco Montanari, Eva Grieco; durata: 113′

Presentato in anteprima – in Selezione Ufficiale – all’11° Festa del Cinema di Roma, Sole cuore amore è l’ultimo lungometraggio diretto dal regista e documentarista Daniele Vicari.

Eli e Vale sono amiche per la pelle. La prima è sposata e madre di quattro figli. Ogni giorno è costretta ad alzarsi prestissimo per andare a lavorare in un bar, dal momento che suo marito è disoccupato e solo lei è in grado di mantenere la famiglia. La seconda, single, ha deciso di intraprendere la non facile carriera di ballerina, lavora spesso di notte e – durante il giorno – aiuta l’amica facendo da babysitter ai bambini. Il mondo del lavoro e la società, però, non sembrano essere generose con nessuna delle due giovani donne.

Il tema della precarietà del lavoro, si sa, è stato – negli ultimi anni – uno dei temi più gettonati. E non solo per quanto riguarda il cinema italiano. La differenza sta, appunto, nel modo in cui il tutto viene messo in scena. E con questo suo ultimo lungometraggio Daniele Vicari è riuscito, in qualche modo, a creare qualcosa di personale, sia dal punto di vista della regia che per quanto riguarda il taglio che ha deciso di dare all’intera storia.

Interessante, a questo proposito, la scelta di utilizzare – sia in apertura, per presentare le due protagoniste, sia in chiusura, per mostrare quello che sembra essere il destino di entrambe – il montaggio parallelo. Ritmi serrati che quasi non ci fanno prendere fiato, colori e luci contrastanti – a seconda della scena rappresentata. Il tutto scorre velocemente, inesorabilmente. Anche questa volta Vicari è riuscito a mettere sullo schermo immagini di grande potenza visiva ed emotiva. Seppur leggermente autocompiacenti.

Quello che, però, all’interno del lungometraggio funziona decisamente poco, è proprio il finale. Nulla volendo togliere al riuscito impatto emotivo degli ultimi minuti, senza dubbio ci troviamo davanti ad un epilogo decisamente telefonato, che, proprio per questo motivo, non riesce ad avere la potenza originariamente auspicata. Stesso discorso per alcuni dialoghi. Soprattutto quelli tra Eli e suo marito. Le battute, di fatto, appaiono, a volte, eccessivamente costruite e poco spontanee, al punto quasi di far perdere credibilità al tutto.

Tutto sommato, però, Vicari – e questo bisogna riconoscerlo – ha evitato l’errore di mettere in scena un film retorico e buonista, visto il rischio che si corre nel momento in cui si decide di raccontare storie del genere. E lo ha fatto creando un prodotto perfettamente in linea con il suo stile e la sua cinematografia. Un prodotto che non decolla come dovrebbe e che, spesso e volentieri, fa storcere il naso, ma che, tutto sommato, si classifica come un lavoro intellettualmente onesto. E questo, di certo, non è poco.

Al termine della visione, però, sorge spontanea una considerazione: se ripensiamo a tutta la filmografia del regista, notiamo come i suoi risultati migliori siano venuti fuori attraverso i documentari. Che sia questa la strada di Daniele Vicari? Questo, ovviamente, solo il tempo saprà dircelo.

VOTO: 6/10

Marina Pavido