VENEZIA 72: SCRITTORI A VENEZIA – MICHAEL ROWE

Dal sito ufficiale della Mostra

SCRITTORI A VENEZIA
Writers Guild Italia (WGI) incontra gli sceneggiatori presenti con le loro opere alla 72°
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2-12 settembre 2015)
MICHAEL ROWE
Ha scritto… EARLY WINTER
Michael Rowe australiano è sceneggiatore e regista di Early Winter. Il film è stato presentato alle Giornate degli autori.

E’ il suo terzo lungometraggio, dopo aver vinto la Camera d’or a Cannes nel
2010 con Ano Bisesto e presentato Manto Aquifero al festival di Roma nel 2013.

Ciao Michael, ti faccio questa intervista per la Writers Guild Italia e vorrei parlare soprattutto del tuo lavoro come scrittore. Non so come sia la situazione in Australia o in Messico dove hai lavorato, ma in Italia gli sceneggiatori non sono molto considerati.
E’ lo stesso in ogni paese. E’ il motivo per cui sono diventato regista. Ho fatto lo sceneggiatore per dieci anni, ma nessuno voleva dirigere i miei script e allora mi sono deciso a farlo da solo.
Come prima cosa ti chiedo di parlarci di Early Winter, ci puoi fare un pitch del film?
Oh odio i pitch, sono terribili da fare, non li faccio mai, sono una delle cose più faticose. Comunque il film parla di una crisi matrimoniale, che sembrerebbe arrivare a una risoluzione alla fine del film, ma in effetti non ci arriva.
Hai dichiarato che è anche un film sulla solitudine, che è un tema che hai già esplorato nei tuoi film precedenti. Perché sei così interessato alla solitudine?
Credo che faccia sempre parte della condizione umana, ma in particolare il mondo moderno ci ha portati a una condizione di solitudine che non è realmente necessaria. Ciò che ci impedisce di essere soli nella realtà sono la famiglia e gli amici, le connessioni umane sono la risposta. Quando non abbiamo rapporti umani ci chiudiamo in noi stessi e diventiamo soli e in qualche modo anche disturbati. E questo diventa un paradosso con le tecnologie moderne, che danno accesso istantaneo a chiunque in qualunque parte del mondo, in qualsiasi paese, ma allo steso tempo ti lasciano più
isolato che mai, perché non si hanno reali contatti umani con le persone che ci circondano. E il contatto reale penso che sia l’unica forma di connessione che nutre a livello emotivo.
Il protagonista del film è un uomo profondamente solo, anche se in apparenza ha una bella famiglia: due figli, una moglie…
Credo che molte coppie nel mondo abbiano provato la solitudine, nonostante il matrimonio. Penso che sia facile lasciarsi andare alla solitudine. Il protagonista, David, si sforza di mantenere un legame con la sua famiglia, con sua moglie, anche se i suoi turni di lavoro (lavorando come infermiere in una casa di cura) rendono tutto molto difficile. Soprattutto per il poco tempo che riesce a passare con i figli, anche la relazione con sua moglie è difficile, perchè lei finisce per coltivare del risentimento nei suoi confronti, che la rende aggressiva. Inoltre anche la moglie ha dei problemi di solitudine, viene dalla Russia e vive in Canada da una quindicina di anni e questo l’ha segnata in un certo modo.
Come hai lavorato dalla scrittura della sceneggiatura alle riprese? Avevi già tutto scritto con precisione o hai fatto cambiamenti sul set?
Ho lavorato molto sullo script, ma una volta fatta la seconda stesura è cambiato poco nelle riprese e il risultato finale è molto vicino alla sceneggiatura. Ho lavorato molto con gli attori sui dettagli, riguardo alle motivazioni. Da sceneggiatore trovo che le persone fanno le stesse cose per motivi diversi e questo mi porta a riscrivere i dialoghi. Quindi ho lavorato anche con Paul e Suzanne su questo, abbiamo lavorato insieme sui personaggi per scoprire cose che avrebbero o non avrebbero potuto fare. In questo film più che negli altri miei film precedenti c’è improvvisazione, una cosa che di solito non mi piace e non la consento. Ma nel film ci sono un paio di scene dove Suzanne improvvisa. Prima ho girato sempre in poco tempo, anche solo 17 giorni, mentre questa volta ho avuto più tempo e degli attori molto bravi, c’era tempo di mettersi alla prova per scoprire cose nuove. Comunque non faccio mai prove prima di girare, perchè mi piace sfruttare l’energia viva della performance attoriale.
Ho notato che nel film non c’è tanto dialogo, anzi credo che nei momenti chiave i silenzi siano più significativi delle parole.
Credo sia nella natura della sceneggiatura veicolare le informazione attraverso le immagini. Il dialogo è necessario, perché naturalmente nella vita le persone parlano e sarebbe strano se non lo facessero, ma cerco sempre di dare la maggior parte delle informazioni attraverso le immagini. E’ difficile per me fare lo sceneggiatore perché non sono proprio nato per le immagini, vengo dalla poesia e dal teatro, che sono più orientati sull’uso del linguaggio verbale, ma ce la metto tutta perché il vero linguaggio del cinema sono le immagini.
Quindi come sei arrivato a fare lo sceneggiatore?
Ero un bambino strano, un po’ ossessivo e sognavo di cambiare il volto della poesia inglese, volevo proprio cambiare il modo in cui si fa poesia in lingua inglese. Ho iniziato a scrivere poesie a 6 anni e a 16 anni ho deciso che avrei fatto questo cambiamento e fino ai 22 anni scrivevo dalle 7 alle 30 poesie al giorno. E poi ho studiato la storia della poesia inglese dal medioevo al ventesimo secolo. E di tutti gli autori che leggevo pensavo “potrei scriverlo anche io”. E così sono arrivato al 1923 e a TS Eliot e improvvisamente ho pensato “questo non posso farlo”, così ho abbandonato la poesia. Ho smesso di scrivere poesie ed ero… non so insomma mi ero sempre immaginato come una sorta di poeta tragico e all’improvviso non sapevo che fare della mia vita. Dovevo guadagnarmi da vivere, per pagare le bollette e tutte quelle cose orribili. Quindi, avendo un certo talento per la scrittura, ho pensato di fare qualcos’altro, come il teatro e guadagnare con quello, un po’ come una sorta di prostituzione intellettuale. Ho partecipato a un concorso con due pièce teatrali e delle persone che avevano una compagnia di teatro mi hanno chiamato dicendo: abbiamo visto le tue pièce e vogliamo
lavorare con te. Ma poi è venuto fuori che il progetto era per la televisione e per me già il teatro era una forma di prostituzione, quindi la televisione era fuori questione. Ma le persone che mi avevano chiamato erano molto preparate e gentili e non sapevo come dire di no. Quindi ho speso tutti i miei risparmi per comprarmi un biglietto per il posto più lontano che potessi permettermi ed era il Messico. Così ho detto loro: mi spiace non posso lavorare con voi perché parto per il Messico. E sono partito e lì ho smesso di scrivere per tre anni, perché non credo nello scrivere in una lingua che non
sia quella del posto dove sei, penso sia disonesto. Quindi non ho scritto per tre anni, il che mi ha quasi ucciso. E quando sono tornato a scrivere, alla fine in spagnolo, poiché la mia grammatica non era tanto buona ho seguito un corso di sceneggiatura, perché la sceneggiatura è scritta al presente e quindi non dovevo coniugare i verbi e per il dialogo penso di aver un buon orecchio, quindi ho pensato che sarei stato capace di farlo. Poi dopo dieci anni passati a scrivere sceneggiature non trovavo nessuno che volesse dirigerle, quindi ho lasciato il lavoro e speso tutti i risparmi per comprarmi una telecamera, ho letto dei libri sulla regia cinematografica e ho scritto una sceneggiatura con due personaggi in una stanza e ho girato il mio primo cortometraggio. Il fatto è che
non ho trovato nessuno che dirigesse le mie sceneggiature, quindi ho dovuto farlo io. Non volevo fare il regista, anzi l’odiavo, credevo fosse un noioso lavoro tecnico, dove bisognava urlare alla gente cosa fare e sapere molte cose sulle ottiche e sulle macchine da presa e anche se pensavo fosse terribile dovevo imparare. Ma dopo un po’, quando ho iniziato davvero a lavorare, ho scoperto che non era necessario avere molte nozioni tecniche. La cosa importante è che quello che volevo nello script fosse poi tradotto nel film, quindi non è tanto difficile, anzi mi piace la regia, è molto meglio
della scrittura. Scrivere è un lavoro solitario, ti trovi da solo faccia a faccia con i tuoi peggiori demoni ed è terribile, nessuno può aiutarti. Invece sul set tutti sono lì per aiutare il regista! Gli attori e il direttore della fotografia con la loro esperienza vogliono aiutarti. E’ molto più difficile fare lo scrittore, sul set ti portano il caffè quando vuoi, mentre quando scrivi a casa tua devi farti il caffè da solo.
Quando scrivi hai in mente un pubblico di riferimento?
No mai. Credo che l’unico impegno e la sola responsabilità che abbiamo come scrittori sia nei confronti dei personaggi. E non bisogna mai dare ascolto alle parti cattive di noi stessi, ai dubbi. Nel mio secondo film avevo una scena con una ragazzina che aveva a che fare con lucertole e scarafaggi e a un certo punto ho pensato “Come farò a dirigere questa scena?” e mi sono detto “Stai zitto!” ci penserai quando ci arrivi. Non so per gli altri, ma la mia voce come scrittore è molto debole e fragile e se lascio entrare altri pensieri e preoccupazioni finirà per esserne danneggiata. Quindi devo fare molta attenzione a non pensare a niente eccetto, non me stesso, ma i personaggi. A volte scrivi qualcosa e poi ti chiedi: “Cosa penseranno quando vedranno questa scena?” e non si può pensare così, è il tuo personaggio, è lui che vuole così, tu come scrittore non hai responsabilità.
E come scegli i tuoi personaggi?
Sono loro che scelgono me. Penso che quando scrivo come si deve in realtà sto canalizzando, non scrivendo. Mi si scalda la testa, sudo molto e di solito scrivo in mutande. Mi ricordo che mentre stavo scrivendo Ano Bisesto, il mio primo film, una volta alle tre di notte all’improvviso ho esclamato: “OH!”. Come prima cosa ho avuto paura di svegliare mia moglie e ho realizzato che l’avevo detto a voce alta, ma perché l’avevo fatto? E l’ho fatto perché nel dialogo qualcuno aveva detto qualcosa che
non mi aspettavo. E mi sono chiesto: ma come fai a dire questa cosa? Un momento, ma chi è che sta scrivendo? Perché non ero io! E ho capito che quando stai veramente scrivendo come si deve non sei per niente in controllo. I personaggi fanno quello che vogliono e tu stai solo leggendo.
Tu sei originario dell’Australia, poi ti sei trasferito in Messico e Early Winter è ambientato e girato in Canada. Come mai hai questa esperienza di viaggio continuo?
Quello che cerco di raggiungere è il fatto che le persone sono universali, non importa da dove vengano. Puoi essere russo e vivere in Canada, o venire dall’Australia e stare in Messico, o trasferirti da una grande città come Città del Messico in un piccolo villaggio. I miei film sono molto legati ai luoghi e stranamente i personaggi vengono spesso da altri posti, sono in qualche modo stranieri, intrappolati in un posto a cui non appartengono. Questo è un po’ inquietante, ma c’è sempre un profondo senso di spaesamento.
Il direttore del festival Barbera ha dichiarato che ci sono troppi film low budget che diventano film di cattiva qualità. Tu cosa ne pensi?
Non sono d’accordo. Ho girato il mio primo film con nulla, qualcosa tipo 15.000 dollari. Penso che bisogna essere intelligenti e scrivere per il budget che si ha a disposizione. Se sai che non puoi avere molti soldi devi scrivere una sceneggiatura con due persone in una stanza e devi essere abbastanza bravo per rendere la sceneggiatura profonda e interessante e piena di tensione. E si può fare, ma è necessario scrivere, devi sapere quello che stai facendo e prenderlo sul serio. Per me è un limite interessante, un limite che ti può liberare a volte. Se sai che non puoi andare da nessuna parte, sei chiuso dentro una stanza, devi davvero saper scrivere per arrivare a delle rivelazioni dei personaggi, a dei segreti nascosti, elementi che ti portano più in profondità nei personaggi. Per avere movimento drammatico se non ti puoi spostare fisicamente, devi comunque andare da qualche parte e devi andare a fondo, all’interno, per svelare strati di verità. Bisogna essere consci del budget, non puoi scrivere Star Wars per una produzione da 100.000 dollari. Penso sia questo che porta a una cattiva
qualità, quando il concept del film non è pensato per il low budget.
Credi sia utile lavorare perché si dia più riconoscimento al ruolo dello sceneggiatore? Di solito è il regista ad essere considerato autore del film, mentre lo sceneggiatore non ottiene molto credito, sia economico che artistico.
Sì, questa tendenza viene da Hollywood, negli anni venti i registi avevano molto potere, perché su un film erano loro a fare tutto quanto. Poi man mano che l’industria cresceva i produttori hanno cominciato a chieder più film e un regista non poteva fare un film ogni 4 anni, ma doveva farne un paio l’anno. Così i registi hanno detto: “Bene lo possiamo fare, ma abbiamo bisogno di uno script. Portami uno di quegli idioti scribacchini e potrai avere il tuo Romeo e Giulietta nel mondo dei gangster”. Quindi prendevano la sceneggiatura e la filmavano come volevano, cambiando quello che volevano, perché era il regista ad avere il potere e la firma del film. Era sempre un film di (il regista) e
poi scritto da (lo sceneggiatore). Io credo che per i credits dovrebbe essere il contrario, perché il lavoro più difficile a livello creativo è quello della sceneggiatura. Per me dovrebbe essere un film di (lo sceneggiatore) diretto da (il regista). E questo è qualcosa che farò nel mio prossimo film, di mettere il mio nome come sceneggiatore prima. A film by Michael Rowe, directed by Michael Rowe.
Puoi dirmi qualcosa sul tuo prossimo progetto?
Un sacco di sesso!
E’ un buon modo per mostrare senza linguaggio, il sesso è comunicazione senza parole…
Sì, esattamente. Quindi un sacco di sesso!

Intervista a cura di Fosca Gallesio
Traduzione in italiano di Fosca Gallesio

VENEZIA 72: SCRITTORI A VENEZIA – DAVID KAJGANICH

Dal sito ufficiale della Mostra

SCRITTORI A VENEZIA
Writers Guild Italia (WGI) incontra gli sceneggiatori presenti con le loro opere alla 72.
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2-12 settembre 2015)

A BIGGER SPLASH
Scritto da… David Kajganich
David Kajganich ha scritto A bigger splash. Il film diretto da Luca Guadagnino è stato
presentato in concorso nella sezione principale Venezia 72 ed ha sollevato molto clamore.

Ciao David, sono molto contenta di intervistarti perché è abbastanza raro trovarsi davanti a una collaborazione tra uno sceneggiatore americano e un regista europeo.
Sì, è vero e vorrei aggiungere che anche io sono molto ontento di fare questa intervista con la Writers Guild Italia, perchè credo molto nel lavoro delle guild.
Puoi farci un pitch del film?
E’ un remake molto libero del film del 1969 di Jacques Deray, La Piscine. Abbiamo fatto un remake perché per una produzione era un’opportunità economica, ma oltre a questo c’era un interesse artistico nel progetto, che consisteva nel tenere la struttura di fondo della storia de La Piscine e fare una scelta coraggiosa. La storia originale è un thriller e una prima scelta poteva essere andare in questa direzione, legando il thriller alle vite dei quattro personaggi. Ma questo non ci bastava, volevamo qualcosa di più complesso di un film di genere, cioè mettere in scena un dramma che utilizza i grandi archetipi del thriller tra Hitchcock e Chabrol, ma in maniera spiazzante. Alla fine il film non è propriamente un thriller, ma c’è una tensione che confonde lo spettatore così come la suspance dei prodotti del genere. E’ interessante adesso vedere come verrà promosso il film, spero che nessuno lo annunci come un thriller, perché credo che il pubblico possa restarne deluso. Magari, invece, se uno di aspetta un dramma, visto che c’è una certa tensione, sarà sorpreso dal gioco tra i generi: ci sono momenti di grande ansia, ma anche momenti di umorismo. E’ un miscuglio particolare di elementi e abbiamo deciso di farlo così, di andare in una direzione insolita per cogliere l’opportunità artistica di fare qualcosa di un po’ folle e sconvolgente. Anche gli attori non te li immagini in questi ruoli, e penso sia stato l’aspetto interessante del progetto: avevamo tutti voglia di fare qualcosa di strano.
Come sei stato coinvolto nel progetto?
Studio Canal aveva contatto Luca diverse volte per proporgli il remake e all’inizio lui non era interessato. Nello stesso periodo aveva in lettura delle mie sceneggiature per un progetto americano e nella mia scrittura ha trovato qualcosa che gli ha fatto pensare che potesse essere interessante lavorare insieme sul remake de La Piscine. E io ne ho approfittato e ho accettato subito, perché ho cominciato a lavorare per Hollywood già da dieci anni circa, ho scritto sceneggiature molto accurate e ambiziose, senza vederle realizzate o vedendole realizzate, ma riscritte dai registi o da altre persone. Così quando il film finalmente arrivava in sala non mi ci riconoscevo più, mi vergognavo a farlo vedere ai miei amici. Ero stufo di film con il mio nome sopra da cui mi sentivo lontano, che non riflettevano per nulla il lavoro che avevo voluto fare. Così ho colto al volo l’occasione di lavorare con una produzione europea, sperando in una collaborazione che fosse meno usa e getta. Ed è stato proprio così: ho avuto una stretta collaborazione con Luca e poi anche con gli attori, Tilda, Ralph, Matthias e Dakota. C’è stato molto lavoro comune sul racconto, c’era la voglia di far emergere dalla sceneggiatura gli aspetti che ognuno amava di più; c’è stato un costante lavoro di aggiustamento della sceneggiatura sul set, per mettere a frutto le interessanti discussioni che avevamo avuto sul clima ansiogeno del film, sulle relazioni personali, fino alle più piccole sottigliezze dei personaggi, che abbiamo sviscerato perché gli attori
volevano spingersi proprio a fondo. Quando hai delle persone molto dotate e loro ti dicono che vogliono prendersi più rischi, cercare dei toni meno standard, avere una struttura più libera… insomma do atto agli attori di aver cercato direzioni non banali. E’ stata una delle collaborazioni più belle che ho avuto, una cosa che a Hollywood non sarebbe mai potuta accadere.
Quindi tu hai passato molto tempo sul set?
Sì e per me è stata una cosa nuova e divertente. Ero già stato sui set, ma mai accanto al regista o a discutere delle scene con gli attori. Un tipo di collaborazione così stretta durante le riprese è impossibile in America. Noi scrittori, nonostante la forza delle nostre Guild, siamo messi in secondo piano dopo che il nostro lavoro è finito: è la prassi del processo produttivo, lo sceneggiatore fa il suo lavoro per primo ed è il primo ad essere allontanato dalle discussioni. Hanno l’impressione che ormai il tuo lavoro è fatto e che tu non hai più altro da dire se non ostacolare eventuali cambiamenti. E’ un pregiudizio che sopravvive, anche se la maggior parte degli sceneggiatori che conosco non sono così, non sono egoisti, non hanno l’obbiettivo di irrigidire il testo, anzi ci interessa poter sederci al tavolo e far parte del processo creativo dall’inizio alla fine. Luca mi ha dato la possibilità di capire com’è fare questo lavoro e non credo che mi riuscirà facile tornare a lavorare con gli studios in America, alle loro condizioni. Non capisco perché dovrei assoggettare la mia libertà in questo modo, quando posso lavorare con collaboratori attenti al mio lavoro e formare una specie di famiglia durante la realizzazione di un film: questo in America è impossibile.
Lo scrittore, effettivamente, è l’unica persona presente fin dall’inizio sul progetto del film: come mai non viene coinvolto nel processo produttivo?
Non saprei. Tra l’altro c’è una necessità tecnica nell’avere lo scrittore sul set per risolvere i problemi di sceneggiatura: per esempio quando si cambia una location o quando una scena non funziona… Ci sono moltissimi problemi che possono capitare sul posto e perché non avere la persona che conosce meglio la storia del film presente sul set per aiutare a trovare una soluzione? Ogni produzione è piena di inciampi, piccole difficoltà anche solo per il tipo di riprese in locations difficili e remote: non sempre si possono fare le cose come previsto. Per me è stato molto bello individuare cinque alternative ad una scena che sembrava si potesse girare in un solo modo.
Riguardo al tuo lavoro con gli attori, ho letto che l’idea che la protagonista non possa
parlare è un’idea di Tilda Swinton. Si ed è venuta da un processo molto interessante: avere un attore così impegnato nella preparazione di un film è raro. Gli attori sono stati tutti fantastici nel loro lavoro, hanno fatto molte ricerche e preparato molto a fondo i loro ruoli in rapporto alle emozioni più di pancia dei personaggi. In origine, in sceneggiatura, Marianne Lane era un’attrice inglese che doveva imparare l’accento americano: quindi le avevamo già dato un problema con la voce, problema però che per Tilda era innaturale. C’erano molti momenti in cui lei avrebbe dovuto esprimersi con i due diversi accenti e non riusciva a passare dall’uno all’altro: così qualcuno aveva messo in dubbio la sua capacità di interpretare il ruolo, perché non era in grado di parlare correttamente. La decisione di Tilda è stata una bella sfida per noi: ci ha detto che voleva provare a rimuovere questo elemento dal film e vedere se il film reggeva anche senza che lei parlasse. Ed è stata un’idea interessante, anche perché il suo personaggio, Marianne, era quello che aveva il maggior numero di battute nella sceneggiatura! Mi ricordo di aver ricevuto una telefonata di Luca che mi ha detto: Sei seduto? E ha detto che aveva parlato con Tilda e lei aveva avuto l’idea che Marianne non parlasse nel film. Io ho pensato che non avevo idea di come farlo, ma che ci avrei provato. Poi Tilda ha invitato me e Luca in Scozia a casa sua, dove abbiamo passato una settimana a rivedere la sceneggiatura, discutendo tutte le battute che diceva, cercando di capire quali era irrinunciabili. Sarebbe stato anche bello non farla parlare per tutto il film, ma purtroppo così non sarebbero arrivate fondamentali informazioni emotive relative al suo personaggio, alcune delle quali erano molto specifiche. Quindi abbiamo avuto una specie di contrattazione sulle battute di dialogo da pronunciare fino a che siamo arrivati a quello che il film è adesso: credo che il risultato sia meraviglioso. Nella prima versione della sceneggiatura il personaggio di Marianne era una sorta di punto di riferimento per il resto del cast, lei cercava di mantenere gli altri con i piedi per terra, di evitare tensioni… Le abbiamo impedito di farlo, l’abbiamo messa in una condizione in cui se
parla, potrebbe rovinare la sua voce per sempre. Così volta che apre bocca, sai che è un rischio e quindi stai molto più attento a tutto quel che dice, perché sai che è una scelta che può avere conseguenze pericolose. Mi piace molto questo effetto.
E anche l’idea che il personaggio di Ralph Fiennes fosse un produttore musicale è venuta dopo?
No, sapevamo che lui sarebbe stato un produttore musicale e i Rolling Stones sono stati un po’ la musa del film. Credo che questo abbia portato a un’altra scelta di Tilda, quella di essere una rockstar, che mette il suo personaggio e quello di Ralph nello stesso mondo, mentre Paul ne resta fuori. Ha funzionato tutto molto bene e questo è merito di collaboratori che vengono da diverse discipline, io dalla scrittura, Luca dalla regia e Tilda dalla recitazione; confrontarsi sul materiale è stato ottimo e ha dato vita a quel senso di confusione armonica che mi piace molto nel film.
Si avverte questa atmosfera nel film, che c’è un linguaggio molto libero, c’è un aspetto drammatico, ma anche umoristico; anzi spesso l’ironia è usata nei dialoghi per mascherare i veri sentimenti dei personaggi. Quando devono dirsi cose difficili che possono essere poco piacevoli, allora le nascondono sotto l’umorismo.
Sì, quando hai quattro persone insieme in una casa devi far sì che la maggior parte delle comunicazioni non passi attraverso ciò che viene detto, i personaggi non acquistano spazio se rivelano le loro intenzioni a voce. E un bel modo per affrontare una situazione che può essere piatta e ridondante, utilizzando un approccio più naturalistico. Certo il film non è naturalistico, la regia è molto aggressiva e rock ’n roll. Ma credo che dal modo in cui le persone parlano nel film si capisce che sono quattro persone che si conoscono da molto tempo. Ogni personaggio parla in un modo solo suo. Mi ricordo una delle prime letture con il cast completo: è stata una bella dimostrazione di come una sceneggiatura possa aiutare gli attori, anche nel ritmo delle battute. Non succede mai a Los Angeles che qualcuno prenda una sceneggiatura e si preoccupi del ritmo del linguaggio! In America non siamo abituati a parlare di queste cose, perché la gente non va a teatro nello stesso modo con cui ci va in Europa. Il personale dell’industria cinematografica adora vedere i film in televisione… non
voglio generalizzare, ma non posso parlare dei più grandi drammaturghi della storia con
l’executive di uno studio. Ma in questo film per me è stato quasi commovente vedere che chiunque voleva cambiare anche solo l’ordine delle parole veniva a chiedermi il permesso! Te lo immagini? E naturalmente io rispondevo sempre: ma certo, come credi che sia meglio. Ci fidavamo davvero gli uni degli altri e sapevo che la sceneggiatura era davvero importante per tutti e questo non accade spesso in America.
Nemmeno in Italia: di solito dipende dal regista quanto si è più o meno rispettosi della sceneggiatura.
Ecco questa è una delle cose più importanti che può fare una Guild. Mantenere una
discussione viva, anche aggressiva se serve, sia con la comunità cinematografica che con il pubblico, per ricordare che queste cose non nascono spontaneamente sul set. C’è stata una campagna pubblicitaria a Los Angeles con le più famose battute del cinema e diceva: Qualcuno lo ha scritto. Una Guild è cruciale nell’educare la persone sull’importanza del nostro lavoro. Quando alla premiere di un film c’è il regista e non lo sceneggiatore è molto ingiusto. Essere stato invitato qui a Venezia, far parte del gruppo è un bellissimo privilegio, ma dovrebbe essere ovvio, troppo spesso lo sceneggiatore sta in secondo piano ed è un peccato. Gli sceneggiatori sono abituati a essere trattati così, io credo sia terribile e una Guild può davvero fare qualcosa a riguardo.
Si questa è una delle ragioni per cui abbiamo fondato la WGI e per cui facciamo queste interviste!
Sai lo sceneggiatore è come qualcuno che costruisce le fondamenta della casa, in alcune produzioni è proprio quello che costruisce la casa e venire trattato come quello che arriva alla fine solo per dipingere le pareti è una cosa orribile. Incoraggio la vostra Guild ad avere un tono aggressivo con i registi e i produttori e dire: non dimenticatevi che tutto parte da noi!
Ti è capitato di non riconoscere il tuo lavoro in un film?
Sì, specialmente una volta in cui avevo lavorato a un film per tre anni. Era una storia vera e ho impiegato molto tempo per la documentazione. Si trattava di un caso di cronaca in Oregon, dove un uomo aveva ucciso la moglie e i figli, molte delle persone coinvolte erano ancora vive e ho passato molto tempo ad intervistarle, garantendo loro che non si trattava di un film sensazionalistico, che volevo fare un dramma serio che sarebbe stato rispettoso, questo perché all’inizio nessuno voleva parlare con me. E’ difficile convincere le persone ad aprirsi se non si fidano di te, ma ci sono riuscito. E poi, due anni dopo, il regista ha preso in mano il film e la scrittura senza mai chiamarmi o scrivermi. Io gli ho offerto tutte le mie ricerche, ho proposto di raccontargli tutto quello che avevano bisogno di sapere, ma non abbiamo mai parlato. E quando ho visto il film ero sconvolto, perché sapevo che le persone a cui avevo promesso rispetto si sarebbero sentite tradite vedendo il film e avrebbero pensato che non avevo mantenuto la promessa. Il mio nome era nei titoli e nessun poteva dedurne quello che avevo o non avevo veramente fatto. E questo accade a tutti gli scrittori.
E’ terribile anche perché la scrittura è un lavoro molto personale, bisogna lasciarsi coinvolgere dalla storia che si racconta.
Sì, inoltre di solito lavori sulle più brutte esperienza che le persone possono avere, come la fine di un matrimonio e il rapporto con i figli, a me capita spesso di piangere al computer. Si entra nella testa dei personaggi e si provano le stesse emozioni che loro provano per essere in grado di trasferirle sulla pagina… Tutto questo non si vede. Voglio dire per un attore questo processo viene esplicitato sullo schermo, ma anche lo scrittore lo attraversa. E spesso si dimentica che anche lo scrittore come gli attori, certo non allo stesso livello tecnico, viene coinvolto con la sua empatia, devi essere un po’ attore per scrivere. Forse è proprio questo il motivo per cui non ci sono tanti scrittori sui set, perché hanno una visione così forte del film che bisogna avere molto controllo per non volerla imporre. Ma ripeto è per questo che è bello avere una Guild, ci sono molti benefici che si ottengono facendo parte di una Guild in America, non riesco a immaginare come sia possibile farne a meno. Dalla possibilità di firmare contratti collettive e scioperare se necessario, fino all’assicurazione sanitaria.
Una questione su cui si discute molto in Italia è il diritto d’autore, specialmente legato alle nuove piattaforme di distribuzione di contenuti.
E’ molto importante questa battaglia adesso, perché nessuno è pronto a darti una fetta della torta. In America stiamo discutendo lo stesso tema, se ci sarà un altro sciopero a breve sarà su questa questione. Perché gli studios non si muovono di un millimetro, non concedono nulla, perché sanno che gli introiti da queste piattaforme on line e dallo streaming cresceranno esponenzialmente nei prossimi anni.
Cosa ne pensi di Netflix? Qui a Venezia presentano il primo film che verrà distribuito contemporaneamente on-line e in sala.
E’ molto difficile che certi progetti vengano realizzati. Beasts of no nation era un progetto che difficilmente uno studio avrebbe accettato, forse solo con una grande star o con degli elementi di genere thriller che ne permettessero la vendita in tutto il mondo. E forse questi timori possono essere minori quando si passa su piattaforme come Netflix o Amazon. Penso che si sia un mutamento in America del sistema tradizionale degli studios. Credo che le grosse compagnie siano preoccupate, perché la strategia che hanno adottato negli ultimi anni, per portare la gente al cinema invece che a casa a guardare la tv – che peraltro sta diventando sempre migliore – è stata quella di fare film sempre più grossi, con super eroi e il 3D, sperando di poter salvare l’industria del cinema; insomma, credo invece che stiano capendo che anche questo tipo di storie devono esser ben costruite e ben recitate. E credo sia molto difficile, quando si gestisce un budget di centinaia di milioni di dollari, potersi prendere quei rischi creativi che danno vita a un buon prodotto. Sul fatto che Netflix abbia dato a Cary Fukunaga una piattaforma per un film su questo argomento (i bambini soldato in Africa, ndr) e gli abbiano detto di realizzarlo come voleva, non credo che ci siano aspetti negativi.
Non hai paura che il grande schermo finisca per scomparire?
Sì, ma allo stesso tempo non voglio farne un feticcio, non vorrei che lo schermo precludesse l’accesso. Forse nel caso di Beasts of no nation è un film che potrebbe essere mortificato dal piccolo schermo. Ma ho la sensazione che in futuro ci sarà più interazione tra la fruizione al cinema e quella in televisione, forse ci sarà una sovrapposizione. Non sarei sorpreso se in futuro Netflix aprisse una catena di sale nel paese, Sundance ne ha già una.
L’elemento positivo è che con il moltiplicarsi dei canali di fruizione aumenta la domanda di contenuti.
Sì, certo, poi se vedi alcuni film di Stanley Kubrick hanno un formato particolare, quadrato e perché credi che abbia fatto questa scelta? L’ha fatto perché immaginava che i suoi film sarebbero stati visti in televisione e il fatto che non fosse un problema per lui mi dà speranza, ovviamente non vedeva il grande schermo come un feticcio. Ed è interessante che adesso alcuni grandi registi di cinema stanno lavorando in televisione e adattano il loro linguaggio di messa in scena per questo tipo di fruizione.
Tornando a A bigger Splash, come vedi l’Italia? Mi sembra che nel film ci siano riferimenti a una vecchia visione che appartiene a Rossellini e al suo Viaggio in Italia e Stromboli, sei d’accordo?
Sì, certo, adoro l’Italia e ci ho passato molto tempo ed ero entusiasta di poter lavorare a un progetto qui, anche se non ero mai stato a Pantelleria. Per motivi economici è stato
impossibile vedere Pantelleria prima della scrittura del film ed è anche un posto su cui è
difficile fare ricerca on-line. Per fortuna ho trovato dei blog in inglese di persone che ci
hanno vissuto e ho studiato la storia dell’isola e sono stato sollevato quando alla fine per le riprese siamo arrivati a Pantelleria e mi appariva proprio come l’avevo immaginata in sceneggiatura. Ma devo dire un’altra cosa di Pantelleria: non appena Luca ha deciso di ambientarvi il film, abbiamo pensato che dovevamo confrontarci con il tema dei clandestini. Abbiamo discusso molto su come affrontarlo e so che c’è già stata un po’ di polemica sul fatto che nel film si faccia un uso opportunistico dell’argomento in rapporto alla storia principale. Vorrei dire che prima di tutto qualsiasi tipo di discussione su questo tema penso che sia un bene, il fatto che la gente ne parli è solo positivo. Poi dal nostro punto di vista la storia riguarda tre personaggi, escludendo Penelope, che guardano indietro al loro passato e stanno decidendo che cosa tenere del passato e come andare avanti in maniera serena: alcuni se la cavano meglio di altri e uno non ce la fa proprio. Volevamo mettere a confronto questo conflitto con qualcosa di molto più grande, con l’epica tragedia di persone che vengono dall’Africa e cercano di raggiungere l’Europa solo per mettere in salvo se stessi e le proprie famiglie. Per me era interessante accostare queste due emergenze e lasciare poi che fosse il pubblico a decidere come giudicarle.
E’ interessante perché ci sono questi personaggi ricchi e benestanti che vivono in una bolla e dall’altra parte la realtà dirompente dell’immigrazione che fa un grande contrasto.
Il film riguarda le conseguenze involontarie dell’amore, quando si dà a un altro l’accesso al proprio cuore in maniera viscerale e poi la relazione non funziona, ci si sente sempre legati all’altro e si farebbe qualsiasi cosa per proteggerlo. Nel film, i personaggi cercano di proteggersi l’un l’altro e questo porta a delle conseguenze; volevamo che il pubblico sentisse un’ambiguità morale, tanto che uno degli effetti è che i clandestini vengono indicati come una possibile causa di ciò che succede alla fine del film. Naturalmente nel film nessuno prende molto sul serio questa ipotesi, ma il fatto che questa scelta sia invece fatta da uno dei personaggi non è una cosa da poco, volevamo che fosse una decisione provocatoria, pensata per stimolare una discussione nel pubblico su quanto il personaggio si sia spinto lontano e sul fatto che questa decisione possa essere condivisa o meno. Non era una cosa semplice quindi non sono stato sorpreso di sentire dei fischi alla fine della proiezione, perché se si crede che il film sia stato superficiale sull’argomento, allora si protesta per qualcosa di cui ci
si preoccupa. Sono solo dispiaciuto che il film possa non essere stato compreso.

L’intervista in inglese e la traduzione in italiano sono a cura di Fosca Gallesio
Il testo originale si trova sul sito http://www.writersguilditalia.it

VENEZIA 72: SCRITTORI A VENEZIA – CARLO SALSA

Dal sito ufficiale della Mostra

SCRITTORI A VENEZIA
CarloSalsa-555x216Writers Guild Italia (WGI) incontra gli sceneggiatori presenti con le loro opere alla 72. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2-12 settembre 2015)

Carlo Salsa ha scritto con Chiara Barzini e il regista Carlo Lavagna la sceneggiatura di Arianna. Il film è in concorso nella sezione Giornate degli Autori.

Carlo, innanzitutto ti chiedo una presentazione del film, ce ne racconti la storia?

Il film parla di una ragazza di 19 anni che sente che delle cose nella sua vita non funzionano. E sono delle cose legate alla sua sessualità. Innanzitutto non ha ancora avuto il ciclo e le è sempre stato raccontato dai suoi genitori che ha una disfunzione ormonale per cui lei continua a prendere ormoni; questa è la motivazione che le hanno dato di questa sua amenorrea. Non ha quindi uno sviluppo normale ed è un po’ ossessionata dalla sua immagine femminile, vorrebbe un seno più grande, mentre questi seni acerbi che le nascono sono il risultato degli ormoni che prende. Quindi sente che ci sono delle cose che non tornano, ma soprattutto, quello che sarà poi l’elemento scatenante, non riesce a fare l’amore, le fa molto male affrontare la penetrazione. Arianna decide di passare l’estate da sola nella casa di vacanza di famiglia sul lago di Bolsena, dove è ambientata la maggior parte del film.
E questo è un caso in cui i limiti produttivi sono diventati un’opportunità per essere più a fuoco sulla narrazione. Questa casa sul lago è il luogo dove Arianna ha passato la sua infanzia fino ai 3 anni e il tornare in questa casa accresce l’urgenza delle sue domande. Come se sentisse che in questa casa lei era qualcosa di diverso rispetto a quello che è adesso. In questa casa attraverso l’incontro con una cugina più piccola di qualche anno, che in passato ha sempre visto Arianna come un modello, la protagonista si confronta con la sua nemesi, poichè la cuginetta di 16 anni adesso,a differenza di lei, è una donna: ha un seno procace, fa sesso, è maliziosa. Quindi la convergenza di questi elementi portano Arianna ad affrontare l’avventura che non ha mai avuto il coraggio di tentare, cioè fare l’amore con un ragazzo. E quando questo accade l’esperienza è assolutamente fallimentare e questo la porta a fare una ricerca su di sé, una ricerca che è sia clinica, che intima, in cui Arianna scoprirà una verità che fino ad ora le è stata tenuta nascosta. Te lo posso anche rivelare da adesso, tanto non si tratta di un film di suspance ed è anzi un elemento che è alla base del film e di cui si è già parlato altrove, dicendo apertamente che il film parla di intersessualità. La protagonista del film ha una sindrome che si chiama cinque alfa riduttasi, che si manifesta nei maschi e inibisce l’elaborazione del testosterone. Queste persone nascono con un apparato sessuale maschile, che però non si svilupperà mai. Quindi se per la natura dovrebbero restare in questa via di mezzo, per la società invece questa ambiguità è intollerabile e, come spesso è avvenuto nella realtà soprattutto in passato, Arianna viene operata in giovanissima età, sostanzialmente è evirata, trasformata, almeno superficialmente, in una femmina: per tutta la vita prende un trattamento di ormoni femminili ed è cresciuta a tutti gli effetti come una bambina. Quindi noi ci siamo immaginati l’esperienza di queste persone che possono trascorrere i primi 15 anni di vita sereni, con una presunzione e un’illusione di normalità che si spezzerà traumaticamente con la fase dello sviluppo sessuale. Anche perché questo apparato sessuale chirurgico non funziona con normalità e appunto affrontare il sesso per queste persone è spesso molto doloroso proprio a livello fisico e soprattutto, poiché il pene è stato rimosso, non hanno alcuna possibilità di provare piacere sessuale, non potendo mai fare l’esperienza di un orgasmo. Nella realtà il fallimento di questo tipo di approccio clinico è dimostrato dal fatto che una buona parte delle persone con questa sindrome si suicida in età adulta. Chiaro che è una situazione in cui non esiste una scelta facile o una scelta giusta, però diciamo che nella nostra storia, come in molti casi reali, la scelta viene imposta quando la persona non è in grado nemmeno di comprendere le proprie condizioni: e questo naturalmente ha dei ricaschi.

Cosa volevi raccontare attraverso questa storia?

La log line del film è “Sono nato due volte, anzi tre” ed è proprio questa sensazione; il film non è un film clinico, ma è un percorso di interrogazione sull’identità e su quanto spesso l’autentica identità dell’individuo non corrisponde all’identità che viene richiesta dalla società e su come questo sfalsamento, questo cortocircuito crei poi delle grosse problematiche. Quindi quando Arianna nasce la terza volta, cioè quando prende consapevolezza della sua condizione, lei si potrà finalmente avvicinare alla comprensione di se stessa e anche avvicinarsi a qualcosa che può essere definito felicità, mentre finché si vive nella menzogna questo è impossibile. Il film in fondo è un coming of age in cui penso che tutti possano riconoscersi nella presa di consapevolezza di sé. Diciamo che il percorso che facciamo tutti noi, di scoprire chi siamo veramente, qui è fisicizzato ed esasperato, ma il percorso interiore è simile a quello di qualsiasi individuo. Ma il film non è un film settario, anzi per noi l’empatia e l’immedesimazione col personaggio è fondamentale: la paura di fare l’amore penso sia una sensazione comune a tutti, in cui i ragazzi di quell’età possono ritrovarsi. Arianna ha solo un problema maggiore degli altri, ma non diverso. penso che la tematica sia abbastanza universale.

Come è nata l’idea del film? Come siete arrivati a scegliere questa storia?

L’idea viene da Carlo Lavagna, il regista, lui dice che ha fatto un sogno da bambino in cui si era sognato femmina e questo l’ha portato a interrogarsi su cosa sarebbe successo se fosse stato femmina. Poi ha iniziato a lavorare a un documentario proprio sugli intersessuali, molti anni fa, 8 anni fa ormai. E poi si è interrotto perché ha voluto farne un film. Noi ci siamo incontrati nel 2009 e abbiamo cominciato a immaginare questo film insieme e il film è stato riscritto milioni di volte, ma non sono delle stesure, ma milioni di storie diverse. In una la storia aveva un arco di vent’anni, adesso invece dura un mese, prima si svolgeva in tanti luoghi… insomma è cambiato e ogni volta era un film diverso e c’è stato un progressivo avvicinamento a quello che è il film adesso. Di fatto non ci sono 10 stesure, ma 10 prime stesure.

E quando avete saputo di aver trovato la versione giusta?

Non l’abbiamo mai saputo. Nel senso che il film ha preso il finanziamento del MIBAC con una stesura, con quei 250.000 euro pensavamo di fare un quarto del budget e invece poi è diventato la maggior parte del budget. Quindi abbiamo abbassato il budget, soprattutto per avere la libertà di fare il film che volevamo, nei modi che volevamo. Quindi ci siamo trovati alla fine a dover scrivere il film in fretta, per non perdere il finanziamento. E’ entrata anche un’altra sceneggiatrice, Chiara Barzini e con lei abbiamo scritto la versione definitiva, quasi partendo da capo. Il film quindi è stato scritto 2 mesi prima delle riprese… ma non è finita neanche lì. Perchè il processo di scrittura, soprattutto in termini di scene, è continuato durante tutta la fase di riprese. Io sono stato sul set tutto il tempo e continuavamo a riscrivere le scene un giorno per l’altro. Quindi la vera sceneggiatura definitiva dopo sei anni di lavoro, io l’ho avuta alla fine delle riprese, riattaccando tutti i pezzi. Anche il finale del film è stato immaginato sul set. Dei personaggi, come quello di Corrado Sassi che ha il ruolo di Arduino, all’inizio aveva due battute, mentre adesso è uno dei personaggi chiave del film.

Quindi avete potuto avere molta libertà anche con la produzione?

Si certo… non so se mi ricapiterà mai, spero che ricapiti: il lavoro con Tommaso Bertani e la Ring Film è stato davvero speciale. Il film è stato costruito senza avere divisioni tra regia, scrittura e produzione. Tommaso, il produttore, era accanto a me mentre riscrivevo le scene, era insieme a me e al regista quando ne discutevamo la sera e il giorno dopo era lì a lavorare sul set per il film come tutti noi.

Quanto tempo avete girato?

Abbiamo girato sei settimane, con metà di queste a sei giorni. Il vantaggio è stato quello di avere principalmente un’unica location. In questa casa dove giravamo, dormiva anche la troupe, quindi c’erano anche le condizioni per avere molta flessibilità e cambiare le cose giorno per giorno, facendo naturalmente impazzire l’aiuto regista. Il film ovviamente è stato anche girato il più possibile in sequenza e quindi anche l’attrice protagonista Ondina Quadri, non è mai uscita da quella casa per un mese ed è cresciuta con il suo personaggio Arianna.

La collaborazione di scrittura fra voi tre autori ha funzionato proprio come una coralità?

Si noi il film lo abbiamo portato avanti per molto tempo e Chiara è entrata nella fase finale, collaborando alla stesura definitiva e alla stesura di preparazione prima di girare. Chiara, con cui già avevo lavorato, ha avuto il merito di portare uno sguardo femminile sul film. Che in una storia del genere, anzi sul “genere”, era fondamentale; poi io sono stato sul set a riscrivere.

E anche al montaggio eri presente?

No, ma Carlo è una persona che tiene molto alla condivisione, quindi il film è stato visto varie volte nelle sue diverse fasi di post-produzione. Quindi ognuno di noi ha dato il suo contributo su dove si dovesse intervenire. Mentre è stato molto lungo il lavoro di scrittura, il montaggio è stato abbastanza rapido. Evidentemente Carlo aveva le idee chiare su quello che voleva.

Quindi alla fine anche il linguaggio del film è stato influenzato da questa modalità produttiva?

Certo, molte scene sono state approcciate nello stesso modo. Per due settimane prima di girare abbiamo fatto delle prove, soprattutto per le scene tra le due cugine. Scrivevamo la scena e poi la davamo loro in lettura. Poi cominciavano a recitare, improvvisando su quel canovaccio. Tutta questa prova veniva ripresa e io poi adattavo il dialogo, perchè quelle parole scritte da me trentenne, diventassero effettivamente delle parole dette da una quindicenne e da una diciottenne. E alla fine di queste improvvisazioni riscrivevo la scena, prendendo il meglio di quello che arrivava dalle attrici. La scena finale che poi giravamo era abbastanza fedele a quella scritta, ma per fare questo si è fatto in qualche modo scrivere una parte della scena a loro. C’è quindi un processo di uscita e rientro nella pagina. Anche perchè l’intento era quello di fare un film che non parlasse direttamente del tema, ma che ci arrivasse per osmosi, che lo sfiorasse continuamente, senza fare un discorso troppo esplicito. Quindi era importante scegliere le cose giuste: se si esplicitavano troppo le cose risultava didascalico, se non si esplicitavano per niente sembrava un film criptico che non ci interessava fare. Quindi utilizzare tutti i mezzi possibili di espressione e lavorare sulla spontaneità e il realismo del dialogo è stata una strategia che ha funzionato. Anche Carlo ha sempre cercato di evitare tutto quello che risultava scritto e finto, per adagiare la narrazione sul mezzo recitativo, con un effetto di grande naturalezza.

Di solito anche quando c’è un lavoro di questo tipo è raro che lo sceneggiatore sia coinvolto e presente sul set.

Si io non credo che sia una regola generale, ma in questo caso per l’iter produttivo e anche creativo che ha avuto il film è stata una buona metodologia. Anche grazie alla complicità che c’è tra me, Carlo e Tommaso, che ha permesso di arrivare a questo risultato. Io temo che un’esperienza di questo tipo non mi ricapiterà, non troverò un santo come Carlo che mi sopporta sul set. L’importante alla fine è rispettare i ruoli… io ero lì per dare il mio contributo.

Avete pensato a un pubblico di riferimento o ideale per il film?

Non tanto, certo c’è un desiderio che il film possa piacere agli adolescenti. C’è anche una struttura classica, in cui dopo il primo atto in cui ci sono i genitori, Arianna rimane sola in questa casa e la casa si riempie di ragazzini. E’ la prima estate in cui si fanno le vacanze da soli e si fanno delle scoperte e su questo credo ci possa essere un’identificazione. Poi anche lo stile visivo del film ha dato una patina di favola al racconto, dove è tutto un po’ sospeso, come un piccolo sogno e anche il finale allude a un non realismo della storia. Il mio augurio è che il film possa piacere a dei ragazzi dell’età di Arianna, anche se non era quello il pensiero iniziale. Il lavoro di Carlo ha lasciato prendere piede ai ragazzi: è come se in questo processo di continua messa in discussione di quello che doveva succedere, i ragazzi alla fine hanno avuto la meglio.

Cosa ne pensi della dichiarazione di Alberto Barbera che il low budget non aiuta la creatività?

Ma nel nostro caso non è tanto vero, anzi. Diciamo che tutte le cose che abbiamo detto prima se ci fossero stati più soldi non sarebbero state possibili, forse. Ma d’altra parte è pure vero che se ci fossero più soldi sarebbe possibile per tutti campare un po’ meglio e non doversi arrabattare tra mille lavoretti. In questo caso il low budget ha funzionato, anche se poi il low budget è tosto. Il problema principale è che poi questi film vengano visti e tornare a pensare che fare film sia un investimento a guadagnare e non a perdere. Io credo che sarebbe meglio se ci fossero più soldi, ma l’importante è avere una storia da raccontare, se uno ha una storia da raccontare poi riesce a farlo anche con meno soldi.

E a proposito della distribuzione e della circolazione delle opere cosa ne pensi delle nuove tecnologie e per esempio dell’avvento di Netflix che porta il cinema on-line?

Nel nostro caso la distribuzione sarà curata dall’Istituto Luce e in accordo con quello che faranno loro so che l’intento di Carlo Lavagna è di portare il film, di accompagnarlo in una sorta di tournée, potendo fare presentazioni e proiezioni incontrando il pubblico. Stiamo cercando di creare dei rapporti con la società civile, con le istituzioni e soprattutto con le scuole, perché questo tipo di film sarebbe un’occasione di confronto su temi importanti per i ragazzi. Insomma l’idea è di non fermarsi all’uscita in sala, ma di occuparsi del fatto che il film possa essere visto. E’ interessante questa idea che ripropone per il cinema quello che è un po’ accaduto con la musica. Si temeva che il web potesse uccidere l’industria musicale invece ha rilanciato l’esperienza del concerto e della fruizione dal vivo. Col cinema è certamente diverso, ma la sala cinematografica torna a essere un luogo di confronto collettivo. Secondo me sarebbe bello, il film è un evento collettivo, riunisce le persone in una sala. La cosa bella è vederlo insieme e confrontarsi, ancora meglio se con gli autori presenti. Riuscire a portare anche solo venti persone in una sala a vedere la stessa cosa, per me fa parte della magia del cinema, questa forma di condivisione di un’esperienza è fondamentale.

A parte l’esperienza di Arianna, che da un punto di vista di lavoro se non di guadagno è stata fortunata, come la vivi la condizione di giovane sceneggiatore?

Eh… insomma la vivo che è tosta! Perché, per esempio, c’è questo altro film che ho scritto Antonia di Ferdinando Cito Filomarino, che amo molto e che ha recentemente avuto una menzione speciale al festival di Karlovi Vari. So che ora tanti altri festival prestigiosi l’hanno invitato e la cosa mi rende molto felice, ma quello che davvero aspetto con ansia, è che possa vederlo il pubblico. Perché il vero crimine è che uno fa tutto sto lavoro e il film non esce, o o esce per sparire un secondo dopo, senza che nessuno se ne sia accorto. Quello è peccato. La capacità di tolleranza economica è secondo me direttamente proporzionale alla possibilità di far vedere le cose che fai. E anche farsi dire che fa schifo, ma almeno uno l’ha visto…

Nel tuo ruolo di sceneggiatore tu ti sei sentito tutelato o hai avuto delle brutte esperienze? Lo ritieni utile battersi per restituire importanza al ruolo dello sceneggiatore?

Mi rendo conto che non c’è una tutela adeguata del nostro lavoro, ma non mi pare di aver avuto fregature e non mi sono mai impegnato in associazioni per cambiare le cose e sono molto disinformato, quindi cerco di non lamentarmi più di tanto. Per quanto riguarda l’importanza del nostro lavoro ritengo giusto che se ne parli, che si sappia che un film è una storia e quella storia è creata dallo sceneggiatore. Poi a livello generale ritengo giusto che il film sia del regista, che è la persona responsabile un po’ di tutto. Molto spesso lo sceneggiatore è visto anche solo come dialoghista, mentre appunto ci si scorda che è la storia ad essere sua. Un film può essere anche muto, ma va comunque sceneggiato.

L’intervista è a cura di Fosca Gallesio

VENEZIA 72: SCRITTORI A VENEZIA – ALBERTO MARINI

Dal sito ufficiale della mostra

SCRITTORI A VENEZIA
Writers Guild Italia (WGI) incontra gli sceneggiatori italiani presenti con le loro opere alla 72° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2-12 settembre 2015)

Alberto-MariniAlberto Marini ha scritto El desconocido – Retribution. Il film spagnolo, diretto da Dani La Torre, ha aperto, con la prima proiezione mondiale del 2 settembre in Sala Perla, la sezione Giornate degli Autori.

Alberto, sono molto contenta di poterti intervistare come autore de El Desconocido, un thriller che sembra promettere molta tensione. Puoi raccontarmi il pitch del film?

É una storia di concetto. Carlos, direttore di banca, mentre accompagna i suoi figli a scuola, rivece la chiamata di uno sconosciuto (di un desconocido) che gli comunica che c’è un ordigno sotto i loro sedili: nessuno potrà abbandonare il veicolo se Carlos non gli procura una somma determinata di soldi. Tutto il film descrive le peripezie di Carlos per racimolare i soldi, senza poter abbandonare l’auto e con continue complicazioni.

Come è nato il soggetto del film? Da chi viene l’idea e come l’hai sviluppata nella scrittura?

L’idea è del regista. Mi disse che voleva un thriller di azione con la premessa argomentale del pitch. Quando me la raccontò, in macchina c’era solo Carlos, senza figli, ma l’idea è sostanzialmente di Dani. Durante lo sviluppo, il principale dilemma è stato se mantenere l’azione sempre dentro il veicolo, insieme al protagonista ed ai suoi figli, o uscire e vedere il dispositivo di polizia che si crea intorno alla macchina, dare spazio alla moglie del protagonista, ecc. Scrivemmo una prima versione restando rigorosamente dentro dell’auto, e poi optammo per uscire e dare spazio ad altri personaggi.

Come è stato il rapporto con il regista Dani La Torre? Ci sono stati dei cambiamenti dalla sceneggiatura alla versione definitiva del film? Sei stato coinvolto durante la fase di shooting?

Ho conosciuto Dani durante il festival di Sitges, presentatomi dai produttori, con cui avevo già lavorato. Abbiamo trovato facilmente la forma di collaborare, nonostante Dani viva a Coruña ed io a Barcelona. Ovviamente durante le riprese la sceneggiatura cambia. Capita spesso, direi sempre: peró non é una tragedia. So che alcuni sceneggiatori soffrono questa situazione, ma per me è un fatto di attitudine. Vivo la sceneggiatura come uno strumento per chi gira e credo che il regista abbia tutto il diritto di cambiare per migliorare. Come sceneggiatore vivi meglio se ti convinci fin dall’ inizio che lo script non è il tuo “bambino”: è solo e sempre uno strumento al servizio del film ed è importante essere pronti ad accettare i cambiamenti, qualunque essi siano, ed offrire nuove soluzioni in base alle necessità del film. El desconocido è un thriller con un impianto di suspance che mi ha fatto pensare a Phoneboot di Joel Schumacher.

Come mai hai scelto di raccontare questa storia?

Il riferimento a Phoneboot è ovvio e lo abbiamo tenuto in mente durante tutta la scrittura. Come ho detto, per me El Desconocido è stata una sceneggiatura su commissione (un work for hire), per cui non sono io il responsabile della scelta della storia. In ogni modo, ti posso dire che ho accettato il lavoro per la sfida di scrivere un thriller di azione in Spagna, con inseguimenti, spari, bombe, colpi di scena… un’opportunità che non capita spesso. Sembra un genere esclusivo di Hollywood, ma anche qui abbiamo tanto da raccontare. Spero che El Desconocido possa essere associato a thriller europei come Celda 211, HeadHunters, Snabba Cash, Pour Elle… tutti grandi film europei di cui Hollywood ha fatto o sta preparando remakes. Ne El Desconocido la vittima è un direttore di banca e il carnefice si vendica su di lui.

C’è un discorso politico di fondo che riguarda l’attuale situazione economica dell’Europa?

Il riferimento a ciò che è successo in Spagna con le banche è ovvio ed è una ragione per cui esiste il progetto. Il tema delle “azioni privilegiate” è stata una pagina molto buia della storia recente qui, ed ha colpito molte famiglie. É una ferita ancora aperta. Ed è un tema presente dietro la trama principale, senza assumere protagonismo. Diciamo che El Desconocido è un thriller di intrattenimento, con alcuni ponti con la realtá contemporanea.

Ti si può definire un esperto di genere? Ho visto che hai lavorato anche a film horror, tra cui REC e Sleep Tight e recentemente hai scritto e diretto un altro horror Summer Camp. Cosa ne pensi del genere nel cinema europeo? Negli ultimi anni c’è stata una rinascita di questo linguaggio che ci ha permesso di competere con le grandi produzioni hollywoodiane.Cosa credi che gli europei abbiano da aggiungere rispetto alle produzioni mainstream di Hollywood?

L’horror è la ragione per cui mi dedico al cinema ed è la ragione per cui sono venuto a vivere in Spagna, nel 1999. Sono entrato alla Filmax, che aveva un marchio specifico, la Fantastic Factory, con cui produceva tre o quattro horror all’anno per il mercato internazionale: una realtá impensabile in Italia. In ogni modo il boom dell’horror indipendente europeo ed asiatico – che ha toccato solo marginalmente l’Italia – è ormai passato qui in Spagna e, direi, nel resto del mondo. Sono mode ed adesso, forse con l’esclusione dell’America Latina, siamo in fase decrescente. La colpa è della saturazione del mercato, accompagnata dalla scomparsa del mercato Home Video. Il V.O.D. funziona in America ma non qui. Almeno per ora. Pertanto i film di genere europei hanno un processo di ammortizzazione molto complicato. Ritornando alla tua domanda, negli ultimi anni c’è stata la rinascita ma, purtroppo, anche la perdita di salute (non parliamo di morte) di questo genere. Se c’è un The Babadook che funziona, ci sono venti film horror indipendenti che non trovano nessuno spazio commerciale e duecento che non riescono a raggiungere il finanziamento necessario. Il genere, specialmente l’horror e il thriller, qui in Italia viene considerato un po’ rischioso dai produttori ritenendolo troppo ristretto da un punto di vista commerciale di audience. Invece sembra che in Spagna ci siano sempre più film di genere che incontrano anche il favore del pubblico.

Quali sono gli elementi vincenti di questo tipo di linguaggio? Tu hai scelto questo linguaggio per rispondere ad esigenze di pubblico o per altri motivi? Hai in mente un certo tipo di pubblico quando scrivi i tuoi film?

In Spagna bisogna fare un discorso molto diverso tra horror e thriller. L’horror non è piú di moda, mentre il thriller è il genere mainstream del momento, insieme alla commedia.
In quanto all’horror in Italia non è mai riuscito ad essere un genere mainstream, cosa che invece è successa in Spagna o in altri paesi come gli Stati Uniti. L’esempio del 2006 in Spagna è chiaro. In pieno boom della moda horror, i primi due film locali al botteghino nazionale sono stati precisamente due horror, El Orfanato di Bayona e REC di Balagueró & Plaza, assoluti padroni del mercato locale. Di nuovo, impensabile in Italia. Credo che in Italia la nicchia da cui l’horror non é mai riuscito ad uscire dipende dal fatto che questo genere è sempre associato a sangue, violenza e ad autori cult come Bava, Fulci e Argento. Però l’horror non è necessariamente sangue o violenza, è un genere in continua evoluzione. Horror è tutto ciò che provoca orrore e sgomento nello spettatore. Aneke è horror per esempio, anche se in Italia non lo si cataloga così. É curioso che quando Sleep Tight (Bed Time in Italia), veniva indicato dalle pagine specializzate americane (Twitch, Fangoria, Dread Central, ecc.) come uno degli horror migliori dell’anno e, soprattutto, come un horror moderno, in Italia le pagine specializzate rimarcavano che non si trattasse di un horror. In quanto al thriller, in Spagna stiamo vivendo una specie di rinascita. Il film rivelazione dello scorso anno é stato precisamente un thriller, La Isla Mínima di Alberto Rodríguez ed uno dei successi principali al botteghino è stato El Niño di Daniel Monzón, senza poi dimenticare successi anteriori come No Habrá Paz para Los Malvados, La Cara Oculta, La Piel que Habito. Al momento è un genere di moda, che le TV private e pubbliche accolgono bene. Finché dura, chiaro.

Come funziona il sistema produttivo in Spagna? I tuoi film sono di low o high budget? Hai dovuto fare dei sacrifici in termini di storia per venire incontro alle esigenze della produzione?

Il sistema produttivo è cambiato drasticamente negli ultimi cinque anni. Con la diminuzione drastica degli aiuti pubblici sia nazionali che regionali, e con un sistema di incentivi fiscali che non è competitivo con gli altri paesi. La grande differenza in Spagna, al momento, è avere o no la coproduzione di una rete TV privata (gruppo Atresmedia o gruppo Telecinco). Se guardi il botteghino annuale, con rarissime eccezioni, la prime dieci posizioni sono sempre occupate da film in collaborazione con TV private. Ed è sempre piú importante il mercato straniero. Nel caso di Summer Camp, per esempio, quasi tutto il finanziamento è venuto da prevendite al mercato internazionale, a riprova che l’horror in Spagna ormai non genera troppo interesse. Nel caso di El Desconocido (che non ho prodotto io) invece é stato determinante la coproduzione con il gruppo Atresmedia. Non so se si pú parlare di high e low budget in Spagna. I film vanno da meno de 1M a 6M come massimo, con rarissime eccezioni (Bayona, Amenabar, etc.). Ho lavorato tanto in film con budget controllato (REC, Summer Camp) come “high budget” (Extinction, Los Ultimos Días, ecc.) dove per budget controllato si intende meno di 2M e high piú di 4M. Non é una differenza abissale. La cosa sta nel sapersi adattare al denaro che si ha. Ovviamente se finanzi un film con equity o coproduzioni devi scendere a patti. Parlerei però di patti e non sacrifici.

Come lo vedi il futuro del cinema?Con l’arrivo di Netflix sembra che la sala cinematografica non sarà più il luogo principale dove vedere film.Lo ritieni un cambiamento positivo o negativo?

Penso che il cinema come l’abbiamo conosciuto è destinato a scomparire. Non sarà un processo immediato, ma fra cinquant´anni non sono molto sicuro che si faranno molti film come li intendiamo adesso. Le nuove teconologie spingono per offrire nuovi formati audiovisivi che, temo, rimpiazzeranno i film per gli spettatori del domani. E’ già un fatto che il settore dei video giochi generi oggi più fatturato ed interesse nel pubblico giovane che il cinema. Ed è una tendenza destinata a crescere. Netflix è senza dubbio positivo. É un strumento che aiuta a combattere la pirateria e favorisce la connessione tra il pubblico ed i film. Ma non credo che possa dare nuova vita al cinema. Semplicemente ritarderà una morte annunciata.

Ci puoi dare un quadro della condizione degli sceneggiatori nel sistema produttivo spagnolo? Sono considerati autori dell’opera oppure scrittori al servizio degli studios?

Non ho mai lavorato in Italia come sceneggiatore quindi non conosco le differenze. Ho lavorato in Spagna e per gli Stati Uniti. Qui in Spagna ti posso dire che molto dipende dal produttore con cui collabori. Ci sono produttori che rispettano totalmente lo sceneggiatore, ed altri che danno priorità al film. Devo dire che, quando sono produttore, appartengo al secondo gruppo. E, per coerenza, quando scrivo per altri, cerco sempre di essere cosciente che la sceneggiatura non è mia, non è un’opera in sé, ma sempre e solo uno strumento al servizio del film. Negli States è curioso, la cosa cambia radicalmente se ti muovi nel cinema o nella televisione. Il rispetto che ha un creatore di una serie TV negli States è totale, quasi assoluto. Non ho visto una situazione simile nel cinema (tanto spagnolo come americano) né nella televisione spagnola.

In Italia la Writers Guild si batte per proteggere il diritto d’autore per gli sceneggiatori. Come è la situazione legislativa e contrattuale in Spagna?

I Proprio in questi giorni il Ministro della Cultura ha abbozzato un progetto di riforma sulla legge di proprietà intellettuale che complica molto la situazione degli autori. Al momento in Spagna si riconosce il diritto di rimunerazione economica per i diritti di proprietà intellettuale allo sceneggiatore (50%), al regista (25%) ed al compositore della musica (25%). Questo diritto si esercita tanto sul botteghino lordo e sulle emissioni televisive. In quanto alla situazione contrattuale dipende molto dal produttore e dalla forza che hai come sceneggiatore. Ho visto casi in cui, per una sceneggiatura cinematografica sono stati pagati 4.000€, ed altri dove si é pagato piú di 100.000€. Però, francamente, negli States è peggio, nonostante le guilds.

Ci puoi dare qualche anticipazione sui tuoi progetti futuri? Si tratta di lavori come sceneggiatore o, visto che ormai hai fatto il salto, anche come regista?

Come sceneggiatore continuo a lavorare su un paio di progetti di Vaca Films (i produttori di El Desconocido), che non sono ancora stati annunciati e di cui quindi non posso parlare. Lavoro poi su un progetto si serie TV incaricato da Portocabo, Hierro, che dovrebbe essere una coproduzione internazionale tra Spagna, Germania e Francia. Si tratta di una specie di Broadchurch nelle isole canarie. In quanto alla regia, c’é un progetto di thriller ma é ancora in sviluppo. Pero sì, voglio continuare a dirigere.

L’intervista è a cura di Fosca Gallesio