LA RECENSIONE DI MARINA: DOBBIAMO PARLARE di Sergio Rubini

Nelle sale italiane dal 19 novembre, “Dobbiamo parlare” è l’ultimo lungometraggio dell’attore e regista pugliese Sergio Rubini.

dobbiamo parlareVanni è uno scrittore cinquantenne che vive in un attico nel cuore di Roma insieme alla sua compagna Linda, trentenne. Una sera fanno irruzione in casa loro Costanza e Alfredo, una coppia di loro amici con ideali e tenore di vita diversi dai loro. L’evento da cui partirà la nostra storia e che sconvolgerà le vite dei protagonisti, è la scoperta, da parte di Costanza, che suo marito Alfredo ha un’amante.

Tratto dalla pièce teatrale “Provando…ne dobbiamo parlare” dello stesso Rubini, il film fa parte di una serie di lungometraggi ambientati in un’unica location, con i dialoghi protagonisti assoluti della scena. Basti pensare al recente “Il nome del figlio” di Francesca Archibugi (a sua volta remake del film francese “Cena tra amici”) o a “Carnage” di Roman Polanski.

Non è semplice, come sappiamo, mettere in scena qualcosa che si svolga in un unico ambiente, soprattutto quando ciò dovrà essere rappresentato sul grande schermo, piuttosto che su di un palco teatrale. Innanzitutto, c’è bisogno di interpreti bravi e capaci di mantenere alto il livello dell’opera durante tutta la sua durata. Da questo punto di vista, bisogna dire che Rubini ha fatto un’ottima scelta per quanto riguarda il cast: Isabella Ragonese, nel ruolo di Linda, Maria Pia Calzone nel ruolo di Costanza e Fabrizio Bentivoglio nel ruolo di Alfredo si sono rivelati perfettamente all’altezza dei loro ruoli.

Registicamente parlando, interessanti alcune operazioni adottate da Rubini: la macchina da presa è sulla stessa lunghezza d’onda dei personaggi. I suoi movimenti sono più lenti quando i protagonisti stanno vivendo un momento di calma, mentre si fanno concitati quando gli animi si scaldano, con numerosi raccordi sull’asse e campi e controcampi frenetici.

Ciò che Rubini mette in scena sono i rapporti di coppia, le certezze, le insicurezze e le bugie sulle quali essi sono fondati. C’è una visione piuttosto scettica dei legami affettivi: l’amore non basta a sé stesso, ma spesso sono proprio le coppie che vanno avanti per abitudine, legate da particolari interessi economici ad andare avanti. Due coppie, due stili di vita differenti, due posizioni politiche opposte. La coppia Vanni-Linda, moderna, di sinistra, convivente e senza figli è legata da un profondo amore. La coppia Costanza-Alfredo, sposata, di destra, è ormai una coppia stanca, che va avanti più per abitudine, per convenienza ed interessi economici che per un certo legame che unisca i due.

Il tutto è pervaso da luoghi comuni con rimandi a Gaber (la scopa è di sinistra, l’aspirapolvere di destra o l’amore vero è di sinistra, il matrimonio che bada alle convenzioni di destra) poco credibili. Addirittura superficiali.

Ed è proprio questo il problema dell’opera di Rubini: la superficialità, i luoghi comuni un tantino esagerati ed un colpo di scena finale che poco convince lo spettatore, quasi come se volesse a tutti i costi stupire senza avere, però, solide ragioni per farlo.

Nonostante Rubini si sia dimostrato un regista capace ed un bravo interprete, questo suo ultimo lungometraggio fa un po’ storcere il naso allo spettatore, il quale, abituato ad altre opere come “La terra” e “Tutto l’amore che c’è”, sempre del regista pugliese, resta quasi nostalgico ed a bocca asciutta.

VOTO: 6/10

Marina Pavido