SPECIALE BERGAMO FILM MEETING: DUST CLOTH di Ahu Ozturk

Toz Bezi FilmiTITOLO: DUST CLOTH; REGIA: Ahu Öztürk; genere: drammatico; anno: 2015; paese: Turchia, Germania; cast: Asiye Dinçasoy, Nazan Kesal; durata: 98′

Terzo lungometraggio in concorso alla 34° edizione del Bergamo Film Meeting è Dust cloth, opera prima della regista di origine curda Ahu Öztürk.

Nesrin e Hatun sono due donne curde che vivono alla periferia di Istanbul e lavorano come donne delle pulizie. Nesrin, abbandonata dal marito, ha in carico una bambina di dieci anni, mentre Hatun convive con un marito ubriacone e con un figlio adolescente di scarse speranze. Entrambe sognano un futuro migliore, con un lavoro più redditizio ed una casa più comoda. La strada, però, diventerà, per entrambe, sempre più in salita.

1002692_1403835909889902_3307767351433703433_nCon una regia fatta di molta camera a mano ed una fotografia dai colori caldi e dalle tonalità pastello, il lungometraggio racconta la storia di due donne, ma anche la storia di un intero popolo, il quale, costretto ad abbandonare la propria terra di origine, ha dovuto iniziare una nuova vita inserendosi – spesso a fatica e con non poche difficoltà – in una società del tutto nuova e non sempre benevola nei confronti dei nuovi arrivati. Due popoli, due mondi del tutto diversi tra loro: da un lato la quotidianità delle due protagoniste nelle loro case spoglie, povere, dall’altro la vita agiata in lussuosi appartamenti delle persone per cui le due donne lavorano. Il tutto è descritto in modo crudo e realista, senza sconto di pena alcuno. Non vi sono falsi pietismi, non vi è autocommiserazione, bensì ci viene mostrata la realtà così com’è.

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L’andamento narrativo dell’opera, a questo proposito, rispecchia appieno ciò che la regista ha voluto comunicarci: le donne, alla costante ricerca di qualcosa che permetta loro di cambiare vita, vivono in un eterno loop. Tutto torna all’infinito: dopo qualche barlume di speranza, ecco che si precipita di nuovo nell’abisso. Emblematica, a tal proposito, l’inquadratura finale del film, in cui Nesrin, con la figlioletta in braccio, è inquadrata, di spalle, mentre cammina, di notte, lungo una strada solitaria. Una strada, questa, piena di incognite e che sembra non aver mai fine.

Storie vere di donne vere, in un’opera che appassiona, coinvolge e fa male. Anche questa volta la cinematografia dell’Europa dell’Est non ha deluso le aspettative. Dust cloth si è rivelato, infatti, fino a questo momento, il miglior lungometraggio presentato in concorso in questa 34°edizione del Bergamo Film Meeting.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA: LA CANZONE PERDUTA di Erol Mintas

Nelle sale italiane dal 24 marzo, “La canzone perduta” è l’opera prima del giovane regista curdo Erol Mintas, vincitrice del Sarajevo Film Festival nel 2014 e del Babel Film Festival nel 2015.

Lacanzoneperduta003Ali è un giovane insegnante curdo che, all’inizio degli anni Novanta, è costretto, insieme all’anziana madre, ad abbandonare il proprio villaggio, per trasferirsi nella periferia di Istanbul. Nigar, madre di Ali, non si adatterà mai a questa sua nuova vita e, per molti anni ancora, continuerà costantemente a cercare un’antica canzone popolare, l’unica cosa che la aiuti a rivivere i suoi anni passati.

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Una regia semplice e pulita, con un costante uso di camera a mano, ed una fotografia dai colori freddi e saturi, raccontano una storia semplice, delicata e cruda allo stesso tempo – la storia dei due protagonisti, che è anche quella di migliaia di persone. Ali, con una madre anziana a carico, è combattuto tra il desiderio di integrarsi nella vita di città ed il richiamo alle proprie origini. Dal canto suo, la madre continuerà a mantenere vivo il legame del protagonista con il suo villaggio natale. É qui presente, inoltre, una forte simbologia, che vede come protagonisti due elementi in particolare: la lingua curda – nella quale Ali scrive i propri libri e comunica con l’anziana madre – ed una vecchia canzone popolare, quasi una sorta di McGuffin hitchcockiano, in quanto è proprio dalla ricerca di questa canzone che le vicende del protagonista hanno inizio. Sono questi gli unici due fattori – simboli di un’identità perduta – che fanno sì che i due protagonisti non dimentichino le proprie origini.

Still_NigarLaptopTutta la cinematografia dell’Europa dell’Est si contraddistingue per il realismo e l’intensità nel raccontare storie semplici di gente comune. Questo è anche il caso del lungometraggio di Mintas. Particolarmente degne di nota sono le scene che ritraggono l’anziana Nigar intenta ad osservare dal balcone del proprio appartamento la città di Istanbul, grande, fin troppo grande, fredda ed estranea. Come anche d’effetto è la scena in cui la donna e suo figlio sono intenti a guardare in tv un vecchio film di Charlie Chaplin: qualcosa che appartiene al passato, che ricorda a Niger, in qualche modo, gli anni della sua giovinezza e che riesce a regalarle momenti di serenità.

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Erol Mintas – di origine curda – è riuscito molto bene nell’intento di trasmettere al pubblico la sensazione di smarrimento e il mancato senso di appartenenza ad una comunità che questo popolo ha vissuto e continua a vivere ancora oggi. Il risultato è un lungometraggio intenso delicato, tenero ed amaro allo stesso tempo, che vanta, inoltre, la presenza di personaggi ben caratterizzati nella loro semplicità e di una sceneggiatura pulita e priva di fronzoli.

Distribuito da Lab 80, “La canzone perduta” è un film che merita di essere visto sia per osservare da vicino una porzione di storia contemporanea spesso poco conosciuta, sia per poter apprezzare un piccolo gioiellino di una cinematografia interessante, della quale, però, solo pochi prodotti hanno avuto la distribuzione che meritavano.

VOTO: 7/10

Marina Pavido