34° TORINO FILM FESTIVAL – A LULLABY TO THE SORROWFUL MISTERY di Lav Diaz

lav_diaz-a_lullaby_to_a_sorrowfully_mystery-2TITOLO: A LULLABY TO THE SORROWFUL MISTERY; REGIA: Lav Diaz; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Filippine; cast: Hazel Orencio, Alessandra De Rossi, Bernardo Bernardo; durata: 480′

Presentato in anteprima alla Berlinale 2016 e – per la prima volta sugli schermi italiani – al 34° Torino Film Festival, nella sezione Festa mobile, A lullaby to the sorrowful mistery è il penultimo lavoro del regista filippino Lav Diaz – prima di The woman who left, vincitore del Leone d’Oro alla 73° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia – che racconta una porzione della storia delle Filippine, ossia la rivoluzione che ha avuto luogo tra il 1896 ed il 1897 contro l’occupazione spagnola.

Sullo sfondo della Rivoluzione Filippina si incrociano tante storie: quella di Gregoria de Jesus, alla disperata ricerca del corpo di suo marito Andres Bonifacio – uno dei padri della rivoluzione – catturato ed ucciso dai nemici, quella di Isagani e Simoun, impegnati in un lungo viaggio al fine di salvare la vita di quest’ultimo, vittima di un attentato per aver tradito il proprio paese schierandosi dalla parte degli spagnoli e, infine, il mito intorno alla figura mitologica dell’eroe nazionale Bernardo Carpio.

Da sempre attento alla storia del proprio paese, Lav Diaz ha dato vita, qui, ad un prodotto che vede un fortunato mescolarsi di generi: dalla storia, appunto, alla letteratura, fino alla mitologia vera e propria, che, soprattutto nell’ultima parte del lungometraggio, assume un ruolo sempre più importante. Pur tenendo presente la curatissima fotografia in un contrastato bianco e nero, insieme ad un uso copioso di camera fissa e lunghi piani sequenza che solo di rado vedono movimenti di macchina appena accennati, A lullaby to the sorrowful mistery non si differenzia dal resto della filmografia di Diaz solo per la commistione di generi presente, bensì anche – e soprattutto – per la forte componente narrativa – che prende il sopravvento sulla componente contemplativa, importante caratteristica della poetica dell’autore – e per i fitti dialoghi, presenti soprattutto nella prima parte dell’opera. Prima parte in cui i fatti storici vengono messi in primo piano e che funge quasi da “pretesto” per dare il via a ciò che accade dopo, quando la pellicola assume toni decisamente più “familiari” per il regista, che – a sua volta – decide, qui, di mostrarci le lunghe peregrinazioni dei protagonisti delle storie raccontateci, senza disdegnare elementi provenienti direttamente dalla mitologia filippina, che, di quando in quando, fanno capolino ed interagiscono con gli altri personaggi. Ulteriore figura che, nelle ultime ore, assume un ruolo fondamentale è il bosco, teatro dei lunghi viaggi dei protagonisti, testimone silenzioso delle loro sofferenze e, soprattutto, padre premuroso e protettivo che, con sguardo benevolo, segue il cammino dei propri figli.

Pur dando il proprio meglio nelle ultime due ore – in cui assistiamo ad un vero e proprio crescendo fino ad arrivare al sublime vero e proprio, A lullaby to the sorrowful mistery parte – forse per il grande numero di avvenimenti storici esposti – quasi in sordina, pur presentando dei momenti memorabili, come, ad esempio, quando viene organizzata una delle prime proiezioni cinematografiche nelle Filippine (subito dopo l’invenzione del cinematografo da parte dei fratelli Lumiére), o quando – in mezzo alla miriade di corpi di rivoluzionari massacrati – vediamo una delle protagoniste cantare, disperata, una triste litania.

È un grido di rabbia, quello che Lav Diaz ha qui messo in scena. Un grido di rabbia nei confronti di una ferita ancora aperta, ma che, tuttavia, non ha del tutto ucciso la speranza in un futuro migliore e, soprattutto, nei giovani, ai quali lo stesso Diaz si rivolge direttamente attraverso le parole del personaggio di padre Florentino, nella sua conversazione finale con il nipote Isagani.

In poche parole, un messaggio di speranza al termine di una visione, in seguito alla quale – come sempre accade con le opere di Lav Diaz – noi stessi ci sentiamo cambiati e, indubbiamente, arricchiti.

VOTO: 9/10

Marina Pavido

VENEZIA 73 – PREMI E CONCLUSIONI

imageSi è da poco conclusa la cerimonia di premiazione, in Sala Grande, di questa 73° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, culminata con il meritatissimo conferimento del Leone d’Oro al maestro filippino Lav Diaz, per il suo The woman who left. A parte Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza di Roy Andersson nel 2014, si tratta, senza dubbio, di uno dei migliori Leone d’Oro degli ultimi anni. La sua vittoria fa sperare in una riconsiderazione di un cinema considerato, a torto, élitario ed aprirà – grazie alla necessaria uscita in sala del lungometraggio – magari anche nuovi orizzonti a chi non è abituato a rapportarsi ad un certo modo di fare cinema.

Per quanto riguarda gli altri premi conferiti, in molti hanno storto (a ragione) il naso per l’ex aequo a Escalante (La region salvaje) e a Konchalovsky (Paradise), non essendo, appunto, tra i migliori titoli presenti in concorso (il film di Escalante è addirittura considerato uno dei peggiori lungometraggi presenti al Lido).

Grande soddisfazione, invece, per la vittoria di Oscar Martinez, il quale si è aggiudicato la Coppa Volpi alla miglior interpretazione maschile per El ciudadano ilustre. Insieme al Leone d’Oro, decisamente il premio più azzeccato del festival.

Di seguito, tutti i vincitori di questa 73° edizione. Il nostro speciale su Venezia 73 finisce qui. É stato un piacere condividere con voi tutte le emozioni che ci ha riservato questo festival! Grazie a tutti voi! E buon Cinema a tutti!

Marina Pavido

PREMI VENEZIA 73

CONCORSO

LEONE D’ORO The woman who left – Lav Diaz

LEONE D’ARGENTO – GRAN PREMIO DELLA GIURIA Nocturnal animals – Tom Ford

LEONE D’ARGENTO – MIGLIOR REGIA La region salvaje – Amat Escalante / Paradise – Andrei Konchalovsky

COPPA VOLPI MIGLIOR ATTRICE Emma Stone (La La Land)

COPPA VOLPI MIGLIOR ATTORE Oscar Martinez (El ciudadano ilustre)

PREMIO MIGLIOR SCENEGGIATURA Jackie – Pablo Larrain (sceneggiatura di Noah Oppenheim)

PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA The bad batch – Ana Lily Amirpour

PREMIO MARCELLO MASTROIANNI MIGLIOR ATTRICE EMERGENTE Paula Beer (Frantz)

PREMIO LEONE DEL FUTURO The last of us – Ala Eddine Slim

PREMI ORIZZONTI

PREMIO MIGLIOR FILM Liberami – Federica Di Giacomo

PREMIO ORIZZONTI MIGLIOR REGIA Home – Fien Troch

PREMIO SPECIALE GIURIA Big big world – Reha Erdem

PREMIO MIGLIOR ATTRICE Ruth Diaz (Tarde para la ira)

PREMIO MIGLIOR ATTORE Nuno Lopes (Sao Jorge)

PREMIO MIGLIOR SCENEGGIATURA Bitter money – Wang Bing

PREMIO MIGLIOR CORTOMETRAGGIO La voz perdida – Marcelo Martinessi

PREMI VENEZIA CLASSICI

PREMIO MIGLIOR DOCUMENTARIO SUL CINEMA Le concours – Claire Simon

PREMIO MIGLIOR RESTAURO Break Up – L’uomo dei cinque palloni – Marco Ferreri

VENEZIA 73 – THE WOMAN WHO LEFT di Lav Diaz

xmaxresdefault-jpg-pagespeed-ic-gd9ic1jyiiTITOLO: THE WOMAN WHO LEFT; REGIA: Lav Diaz; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Filippine; cast: Charo Santos-Concio, Michael de Mesa, Nonie Buencomino; durata: 226′

Presentato in concorso alla 73° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, The woman who left è l’ultimo lungometraggio del pluripremiato regista filippino Lav Diaz, il quale, per questo suo lavoro, si è ispirato al romanzo di Lev Tolstoj Dio vede la verità ma non la rivela subito.

Horatia viene rilasciata, dopo trent’anni di carcere, in quanto dichiarata innocente. Una volta fuori scopre che suo marito è morto, riallaccia i rapporti con la figlia e parte alla ricerca di suo figlio, il quale ha deciso di sparire senza lasciare traccia. Durante il suo percorso, la donna farà degli incontri chela arricchiranno e le cambieranno la vita.

Anche questa volta il grande cineasta filippino non delude le aspettative. E lo fa mettendo in scena un dramma personale di cui – per il tema trattato, oltre che per la magistrale messa in scena – sentiamo subito di far parte. Ed è proprio questa messa in scena – ormai marchio stilistico collaudato – a rendere il lungometraggio un prodotto a dir poco monumentale, malgrado la durata di gran lunga inferiore ai precedenti lavori del regista. Vediamo perché.

Colpisce – fin dalla prima inquadratura – il curato e contrastato bianco e nero. I personaggi principali vengono rappresentati spesso in ombra, perfettamente in linea con i loro stati d’animo, mentre – soprattutto per quanto riguarda le scene diurne in esterno – i bianchi, quasi bruciati, rendono alla perfezione quel senso di agorafobia di chi – essendo stato rinchiuso per molti anni – fa fatica ad abituarsi nuovamente alla vita. Quel particolare senso di realismo – tipico del regista filippino – anche qui viene messo in scena con inquadrature a camera fissa (facendo uso solo sporadicamente – e quando strettamente necessario – di primi piani), mostrandoci la realtà così com’è, semplicemente. Solo nel momento in cui arriviamo al principale snodo narrativo la camera fissa viene abbandonata e le immagini sono fuori fuoco, rispecchiando il punto di vista dei personaggi (a cosa corrisponde, in fondo, la verità?). Ottima realizzazione per una storia tenera e commovente che prevede anche scene particolarmente toccanti destinate a restare nella memoria. Prima fra tutte, il momento in cui la protagonista ed il transessuale Hollanda da lei ospitato danzano e cantano insieme.

Uno dei momenti più alti del film, però, sta proprio nel finale, quando vediamo Horatia alla costante ricerca del figlio scomparso. Un plongé di ¾ ci mostra la donna che cammina in tondo su di un pavimento completamente ricoperto di volantini raffiguranti la foto del ragazzo. Ed ecco che la vicenda si trasforma quasi in un dramma di Ibsen, con le sue indimenticabili protagoniste. Picchi altissimi, per un lungometraggio che già di per sé mantiene un livello molto alto per tutta la sua durata.

È un film che fa male e, allo stesso tempo, lascia piacevolmente appagati, The woman who left. Una storia semplice, ma complessa. Un dramma personale, ma universale. Un’ulteriore conferma del regista filippino, il quale, a sua volta, si è già da tempo rivelato uno dei più interessanti cineasti contemporanei. Un film di che, forse, non verrà apprezzato come merita. Soprattutto guardandolo nell’ottica di un possibile Leone d’Oro. Una visione, però, a dir poco imprescindibile nell’ambito di un concorso che quest’anno, purtroppo, fatta eccezione per pochi titoli, si è rivelato piuttosto tiepido.

VOTO: 9/10

Marina Pavido