LA RECENSIONE – LAZZARO FELICE di Alice Rohrwacher

lazzaro feliceTITOLO: LAZZARO FELICE; REGIA: Alice Rohrwacher; genere: drammatico; paese: Italia; anno: 2018; cast: Adriano Tardiolo, Alba Rohrwacher, Nicoletta Braschi; durata: 130′

Nelle sale italiane dal 31 maggio, Lazzaro felice è l’ultima fatica della giovane regista Alice Rohrwacher, presentato in concorso alla 71° edizione del Festival di Cannes, dove ha vinto la Palma d’Oro alla Miglior Sceneggiatura, ex aequo con Three Faces di Jafar Panahi.

Il giovane Lazzaro, non ancora ventenne, vive in un casolare di campagna insieme alla sua numerosa famiglia, con la quale lavora come contadino a servizio di una nobildonna. La padrona della terra, tuttavia, altro non fa che sfruttare i suoi dipendenti, costringendoli a vivere come schiavi, senza che sappiano nulla di come vadano le cose al di fuori della campagna in cui vivono. Nel momento in cui le autorità si accorgeranno di tale situazione, saranno tutti finalmente liberati, ma non sarà affatto facile adattarsi alla vita al di fuori del loro piccolo mondo.

Un tema di grande potenza, che si fa metafora della nostra società, dei giochi di potere effettuati da padroni, datori di lavoro e banche, ma anche dell’ultimo secolo della storia della nostra Italia. Particolarmente interessante, a tal proposito, è l’ambientazione: durante le prime scene, girate all’interno del casolare di campagna (con atmosfere che tanto stanno a ricordarci il cinema del compianto Ermanno Olmi), si ha l’impressione di trovarsi nell’Italia degli anni Cinquanta. Eppure, vi sono piccoli, sporadici elementi che rimandano all’epoca contemporanea. La cosa si fa maggiormente evidente nel momento in cui i carabinieri fanno irruzione in quel piccolo mondo fuori dal tempo, riportandoci immediatamente ai giorni nostri. Il tutto resta comunque volutamente ambiguo, dal punto di vista spazio-temporale e, unitamente a piccole caratteristiche dei protagonisti e dello stesso Lazzaro, assume un che di surreale, di magico, addirittura di onirico. Particolarmente d’effetto, a tal proposito, l’abitudine – sia del protagonista che della sua famiglia – di soffiare uno strano vento che tanto sta a ricordarci il vento felliniano e il suo significato intrinseco di morte.

E poi, ovviamente, c’è lui, il giovane Lazzaro (interpretato da un ottimo Adriano Tardiolo, qui al suo esordio sul grande schermo). Sempre sereno, sorridente, sembra non desiderare mai nulla per sé, ma, al contrario, sembra sperare solo che agli altri possa capitare del bene. Il ragazzo – analogamente a molte figure della nostra stessa società che vengono banalmente emarginate – è talmente buono, da risultare addirittura stupido. Una sorta di santo che non fa miracoli e che vedrà nella figura di Tancredi – figlio della nobildonna per cui lavora – il suo primo, vero amico. Un amico che non smetterà mai di cercare per tutta la vita.

E così, questo complesso e stratificato lavoro della Rohrwacher – realizzato, tra l’altro, rigorosamente in pellicola – è riuscito a conquistare anche il pubblico di Cannes. La cosa, ovviamente, è stata del tutto meritata e non fa che confermare la giovane autrice come uno dei nomi maggiormente da tener d’occhio all’interno del panorama cinematografico nostrano.

VOTO: 8/10

Marina Pavido

20° FAR EAST FILM FESTIVAL – ON HAPPINESS ROAD di Sung Hsin Yin

on happiness roadTITOLO: ON HAPPINESS ROAD; REGIA: Sung Hsin Yin; genere: animazione; paese: Taiwan; anno: 2017; durata: 111′

Presentato in anteprima europea alla 20° edizione del Far East Film Festival di Udine, On Happiness Road è un interessante lavoro di animazione della regista taiwanese Sung Hsin Yin.

Con una forte componente autobiografica, il lavoro ci racconta le vicende di Lin Shu-chi, la quale, dopo essere venuta a conoscenza della morte di sua nonna, decide di tornare per un periodo nella cittadina taiwanese dove è nata e cresciuta – precisamente in via Felicità – e che aveva abbandonato soltanto in età adulta per trasferirsi negli Stati Uniti. L’incontro con i suoi genitori e con alcuni amici d’infanzia l’aiuteranno a riflettere sulla sua vita e sui suoi desideri.

E così, con continui flashback e numerose scene oniriche, le vicende della giovane Chi vanno di pari passo con la storia del Taiwan stesso, con la sua politica, la sua cultura, i suoi movimenti studenteschi e le sue disgrazie. Un lungometraggio sentito e personalissimo, in cui si ripercorrono quarant’anni di storia di un’intera nazione, senza la pretesa di voler lanciare a tutti i costi un preciso messaggio politico, ma dove la messa in scena si fa espressione semplice e diretta di un grande amore nei confronti del proprio paese e delle proprie origini. Origini che, ovviamente, vengono intese anche nell’accezione di vere e proprie tradizioni popolari (particolarmente emblematico, a tal proposito, il personaggio della nonna di Chi, aborigena taiwanese che, come vediamo durante i flashback, ogni volta che va a trovare l’adorata nipote, non fa che presentarle nuove, bizzarre usanze).

Una riflessione particolare, inoltre, merita la realizzazione grafica. Particolarmente suggestiva l’animazione in 2D che prevede fondali realizzati con acquerelli dai toni prevalentemente pastello che contrastano sapientemente con figure dai contorni netti e ben delineati. Per non parlare dei momenti onirici o riguardanti l’immaginario di Chi bambina, dove i contorni spariscono del tutto, le immagini e i personaggi di fanno mutanti e non mancano raffinati riferimenti all’immaginario fiabesco che stanno a ricordarci che, in fondo, nessuno – né la protagonista, né tantomeno noi – ha in realtà mai smesso di essere bambino.

Ed ecco che – con un lungometraggio in cui, per certi versi, si sente forte l’influenza di lavori come Pioggia di Ricordi (1991) o I miei Vicini Yamada (1999), entrambi del maestro Isao Takahata e a cui, forse, si può rimproverare una sceneggiatura che tende a farsi leggermente più sfilacciata man mano che ci si avvicina al finale – il mondo dell’animazione taiwanese ha trovato una degna rappresentante in Sung Hsin Yin, la quale, con grande sensibilità e un lirismo di fondo tipico della cultura orientale, ha saputo mettere in scena una storia personale e universale allo stesso tempo, la storia di una singola persona e quella di un’intera nazione, apologia degli affetti, delle tradizioni e degli antichi valori, che vede in un singolare rapporto nonna-nipote una perfetta connessione tra presente e passato, tra sé stessi e il resto del mondo. Una strada sicura per la felicità.

VOTO: 7/10

Marina Pavido

67° FESTIVAL DI BERLINO – FELICITE di Alain Gomis

feliciteTITOLO: FELICITÉ; REGIA: Alain Gomis; genere: drammatico; anno: 2017; paese: Francia, Congo; cast: Véro Tshanda Beya; durata: 123′

Presentato in concorso alla 67° edizione del Festival di Berlino, Felicité è l’ultimo lungometraggio del cineasta senegalese Alain Gomis.

La storia messa in scena è una storia apparentemente come tante. Felicité è una giovane ragazza madre dalle straordinarie doti canore che, al fine di garantire al figlio adolescente una vita dignitosa, ogni sera si esibisce in un locale della cittadina in cui vive, nel cuore del Congo. La situazione si fa complicata il giorno in cui il ragazzo ha un incidente con la motocicletta e rischia di perdere una gamba. L’operazione per salvarlo è assai costosa, così Felicité sarà costretta a trovare le più disparate soluzioni, al fine di garantire l’intervento a suo figlio.

Ad una prima lettura della sinossi, l’idea di base sembrerebbe suggerire qualcosa simile ai film dei fratelli Dardenne. Eppure, dopo aver adottato una certa linea iniziale, ecco che il lungometraggio di Gomis si concentra in particolare sull’interiorità della protagonista stessa, sui suoi cambiamenti, sulla sua crescita interiore e, soprattutto, sulla sua presa di coscienza circa il fatto che, nella vita, bisogna anche saper accettare un aiuto da parte di chi ci è vicino.

Il tutto viene realizzato con un copioso uso di camera a spalla, per una messa in scena apparentemente priva di particolari virtuosismi registici, che si alterna a momenti in cui la musica ed i colori di un popolo fanno da protagonisti assoluti, facendoci dimenticare, per un attimo, le sventure della protagonista stessa. Sono queste le scene in cui Felicité si esibisce al locale e, di volta in volta, intensi suoi primi piani ci mostrano il suo stato d’animo. Nel raccontare il percorso della protagonista, ampio spazio è dedicato – in modo non del tutto riuscito, a dire il vero – anche alla dimensione onirica. Sono questi i momenti in cui Felicité viene mostrata nell’atto di camminare di notte dentro un bosco, per poi immergersi in un lago e sentirsi improvvisamente più serena, quasi fosse tornata nella placenta materna. Particolarmente riuscito, inoltre, il parallelismo tra la donna ed il proprio figlio a metà della pellicola: dopo l’amputazione della gamba di quest’ultimo, ecco che la madre intraprende un nuovo percorso interiore che la fa abbandonare ciò che era prima, tagliandosi in modo emblematico i capelli.

Il vero problema di un lungometraggio come Felicité è fondamentalmente uno script piuttosto sfilacciato, che, dopo aver adottato una certa linea iniziale, cambia quasi repentinamente registro, facendo sì che il film sia spaccato in due senza una logica apparente. Molti elementi, inoltre, vengono tirati in ballo per poi essere lasciati in sospeso (vedi la zebra incontrata dalla protagonista durante i sogni), rivelando sì buoni intenti da parte del regista, ma anche un’importante dose di incertezza, che, di fatto, il suo peso ce l’ha eccome. Nulla di veramente riuscito, in pratica. Eppure, vuoi per le ambientazioni, vuoi per la musica calda e coinvolgente, al termine della visione questo ultimo lungometraggio di Gomis non lascia fortunatamente del tutto scontenti.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

VENEZIA 73 – ON THE MILKY ROAD di Emir Kusturica

milky-road-first-look-optionTITOLO: ON THE MILKY ROAD; REGIA: Emir Kusturica; genere: drammatico, commedia; anno: 2016; paese: Serbia; cast: Emir Kusturica, Monica Bellucci, Sergej Trifunovic; durata: 125′

Presentato in concorso ufficiale alla 73° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, On the milky road è l’ultimo lungometraggio diretto dal cineasta serbo Emir Kusturica, dove – al fianco dello stesso regista – vediamo come protagonista la nostra connazionale Monica Bellucci.

Kosta è un ex musicista che, a causa della guerra, ha dovuto lasciare il proprio lavoro e, ogni giorno, è costretto a percorrere parecchie miglia a bordo del suo mulo per portare il latte ai soldati. L’uomo è amato dalla vivace Milena – la quale ha deciso di sposarlo – ma si innamora, ricambiato, della Sposa, ossia la fidanzata di origini italiane del fratello di Milena. Il loro amore, però, verrà contrastato da alcuni uomini sulle tracce della donna e, pertanto, i due saranno costretti a fuggire al fine di poter vivere la loro storia d’amore in tranquillità.

L’apprezzato cineasta serbo, purtroppo, da molto tempo così tanto apprezzato non lo è più. Dopo capolavori come Gatto nero gatto bianco o Il tempo dei gitani, infatti, Kusturica ha spesso e volentieri deluso le aspettative anche dei suoi spettatori più affezionati. Saperlo in concorso a Venezia, però, ha fatto sperare in un suo grande ritorno. Ma così non è stato. Pur con una buona partenza – degna, appunto, del suo regista – On the milky road perde per strada il filo del discorso, diventando un film spaccato nettamente in due, che, più che un mal riuscito tentativo di sperimentare, denota quasi una certa presunzione di base.

Fin dai primi minuti ci viene immediatamente da pensare – non solo per scelte registiche ed ambientazioni, ma anche per i temi trattati – al fortunato Gatto nero gatto bianco: la storia di un amore contrastato a causa di fidanzamenti già stabiliti. La musica – vero punto di forza del lungometraggio – ma anche interessanti trovate in cui vediamo protagonisti gli animali (come non dimenticare la gallina che salta in continuazione guardandosi allo specchio o il falco che accompagna il protagonista, ad esempio?) fanno sperare in un ritorno del vecchio Kusturica. Eppure, dopo la seconda metà dell’opera, magicamente (e involontariamente?) ci ritroviamo in un altro film: il conflitto iniziale che aveva dato spunto all’inizio della vicenda viene frettolosamente risolto e, per il resto della pellicola, vediamo i due protagonisti intenti a fuggire dai malviventi sulle tracce della Sposa.

Anche qui – costante nella cinematografia del regista serbo – troviamo il tema della guerra. Nel suo percorso di elaborazione, in questo ultimo lungometraggio Kusturica ci vuol dire come siano in realtà interessi personali a dar vita ai grandi conflitti. Interessante modo di esporre tale tesi, ma, malgrado una robusta idea di base, è proprio a livello di scrittura che On the milky road presenta i più grandi difetti. Ed è un peccato che le cose siano andate così. Soprattutto perché – sebbene da molti anni il cineasta non produca lavori particolarmente ben fatti – siamo in molti ad essere affezionati alla sua cinematografia. Una cinematografia ricca di tradizioni popolari, surrealismo, onirismo, musica e colori. Una cinematografia di cui, però, purtroppo, si è persa strada facendo la sostanza.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA: LA CASA DELLE ESTATI LONTANE di Shirel Amitay

LA-CASA-DELLE-ESTATI-LONTANE-3883-e1464796170520TITOLO: LA CASA DELLE ESTATI LONTANE; REGIA: Shirel Amitay; genere: drammatico, commedia; anno: 2014; paese: Francia, Israele; cast: Géraldine Nakache, Yael Abecassis, Judith Chemla; durata: 91′

Nelle sale italiane dal 16 giugno, La casa delle estati lontane è il lungometraggio d’esordio della sceneggiatrice israeliana Shirel Amitay.

Israele, 1995. Poche settimane prima dell’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin. Darel, Cali e Asia sono tre sorelle francesi che vivono in Canada. Le tre, al fine di vendere la casa dei genitori defunti, tornano nel piccolo villaggio israeliano dove erano solite trascorrere le vacanze estive con la famiglia. Man mano che passano i giorni, le tre impareranno a conoscersi davvero ed a capire quali siano le cosa veramente importanti nella vita.

la_casa_delle_estati_lontane_judith_chemla_yal_abecassisNumerosi i riferimenti alla situazione politica israeliana degli anni Novanta. Ciò che pervade tutto il lungometraggio dell’esordiente Amitay, infatti, è un desiderio di pace e di libertà, forte più che mai. I personaggi cercano sé stessi, una propria pace interiore, una certa stabilità. Valori, questi, che sono stati messi in discussione prima di tutto dalla situazione politica. Ed il tutto, ovviamente, ha delle ripercussioni sulla vita privata. Il lavoro della Amitay è, pertanto, sì un film che trasmette ottimismo, oltre ad una buona dose di speranza in merito, eppure, noi – essendo per forza di cose a conoscenza di quanto che è accaduto in quel fatidico anno – non possiamo non percepire un senso di vuoto, di sgomento, quasi di angoscia nel vedere l’attitudine dei protagonisti e la loro fiducia in una pace prossima. Per questi motivi, possiamo dire che La casa delle estati lontane è perfettamente riuscito a trasmettere le iniziali intenzioni dell’autrice.

la_casa_delle_estati_lontane_yal_abecassis_graldine_nakache_judith_chemla2Detto questo, dal punto di vista della realizzazione tecnica in sé, troviamo elementi interessanti, ma anche fattori che convincono poco. Immagini poetiche – come, ad esempio, le tre sorelle che passeggiano in riva al mare o che scherzano tra di loro come se fossero di nuovo bambine – del tutto ben realizzate, ed una singolare commistione tra il reale ed il fantastico, sulla quale, però, al fine di renderla davvero efficace, si sarebbe potuto calcare ulteriormente la mano.

la_casa_delle_estati_lontane_yal_abecassis_graldine_nakache_judith_chemlaIl problema principale del lungometraggio della Amitay, infatti, è proprio questo: quasi una sorta di timore di esagerare, che ha come risultato un film dalle grandi potenzialità, ma che dà l’impressione di essersi quasi fermato a metà strada, di non aver compiuto appieno il suo percorso di maturazione. Un film che tratta temi importanti, ma che, tuttavia, non riesce a trasmettere molto. La spiegazione di determinate scelte potrebbe essere data proprio dal fatto che si tratti di un’opera prima. Non resta che aspettare, dunque, ulteriori lavori della regista israeliana.

Nonostante le sua mancanze, però, La casa delle estati lontane resta di fatto un prodotto pulito ed onesto, che ci mostra in modo del tutto personale e trasversale lo spirito di un popolo alla vigilia di uno degli avvenimenti che maggiormente ha segnato la sua nazione. E, proprio per queste sue peculiarità, merita senz’altro di essere visto.

VOTO: 6/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA: MARGUERITE E JULIEN di Valérie Donzelli

marguerite-et-julienTITOLO: MARGUERITE E JULIEN; REGIA: Valérie Donzelli; genere: drammatico; anno: 2015; paese: Francia; cast: Anaïs Demoustier, Jérémie Elkaïm, Géraldine Chaplin; durata: 103′

Nelle sale italiane dal 1° giugno, Marguerite e Julien è l’ultima fatica della giovane regista francese Valérie Donzelli, presentato in concorso al Festival di Cannes nel 2015.

Marguerite e Julien sono due fratelli appartenenti ad una famiglia benestante, che, fin da bambini, sono sempre stati molto legati. Questo legame si rafforzerà nel corso degli anni, al punto di trasformarsi in una vera e propria passione. Ovviamente, la cosa susciterà un enorme scandalo e, malgrado le nozze di Marguerite con l’unico uomo disposto a sposarla in seguito alle voci diffusesi, la storia tra i due giovani sembrerà divenire di giorno in giorno sempre più solida, al punto di portare i ragazzi ad organizzare una fuga per poter vivere il loro amore senza doversi più nascondere.

marguerite_e_julien_-_la_leggenda_degli_amanti_impossibili_aurelia_petit_frederic_pierrotInteressanti le origini di questo ultimo lavoro della Donzelli, la quale, nonostante la sua per ora breve carriera, ha già avuto modo di rivelarsi un’autrice piuttosto discontinua. Si pensi al fatto che la sceneggiatura stessa – ispirata a fatti realmente accaduti – è stata scritta nel 1973 da Jean Gruault per François Truffaut, il quale, però, si rifiutò di metterla in scena – forse per la scabrosità dell’argomento trattato o, forse, per la sua problematica ambientazione in epoca medievale. Però, a quanto pare, l’involontaria influenza che Truffaut stesso ha avuto sulla realizzazione del lungometraggio è pericolosamente evidente. Al di là di particolari scelte registiche (prima fra tutte, la frequente presenza di iridi alla truffautiana maniera), al di là dell’adozione di una voce narrante – in questo caso una ragazza ospite di un orfanotrofio che racconta la storia dei due fratelli alle sue compagne di stanza – il tentativo che qui viene fatto è quello – più e più volte adottato dal grande cineasta nouvellevaguista – di mettere in scena un tema drammatico dandogli dei toni delicati e, per quanto possibile, “leggeri”. Ovviamente, questa scelta presuppone una notevole sensibilità, oltre ad una totale conoscenza del mezzo cinematografico. E se è Truffaut stesso a compiere questa operazione, andiamo quasi sul sicuro. Lo stesso non si può dire di Valérie Donzelli, la quale, malgrado le buone intenzioni, inciampa spesso in soluzioni poco felici, che vedono una notevole discontinuità di registro, oltre a numerose forzature che poco legano con il resto della sceneggiatura. Quasi come se il film girato non fosse completamente suo.

marguerite_e_julien_-_la_leggenda_degli_amanti_impossibili_geraldine_chaplinE volendo parlare proprio della sceneggiatura – qui riscritta dalla stessa Donzelli insieme all’interprete Jérémie Elkaïm – anche in questo ambito troviamo non pochi buchi, come, ad esempio, ellissi temporali poco giustificate – ad esempio quando i due giovani scappano insieme a cavallo e, senza motivo alcuno, si ritrovano dopo pochi minuti a scappare a piedi, nascondendosi dalle guardie, oppure quando Marguerite, dopo essere stata bandita da casa dei suoi genitori, si ritrova tranquillamente a dormire nel proprio letto dopo aver lasciato la casa di suo marito – oltre a momenti drammatici in cui è stata calcata la mano al punto da scatenare anche qualche risatina involontaria.

Cannes-va-in-scena-lamore-incestuoso-di-Marguerite-e-Julien-640x358Detto ciò, questo ultimo lavoro della Donzelli presenta anche aspetti piuttosto interessanti: la scelta di creare un’ambientazione variegata – con elementi che rimandano sia al Medioevo che all’epoca contemporanea – ad esempio, è uno degli aspetti più riusciti ed interessanti di tutto il film. E, infine, non dimentichiamo le immagini finali: astratte, oniriche, con una voce narrante che recita una poesia di Walt Whitman. Una soluzione che dimostra che, malgrado i numerosi scivoloni, forse la Donzelli un certo talento ce l’ha. Basterebbe solo maturare un altro po’, al punto di aver ben certa la strada da percorrere, ed evitare che i grandi maestri del passato esercitino un’influenza troppo marcata sulla lavorazione dei suoi film. Con queste premesse, non ci resta che sperare in suoi nuovi, interessanti lavori.

VOTO: 5/10

Marina Pavido

LA RECENSIONE DI MARINA: MONTEDORO di Antonello Faretta

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TITOLO: MONTEDORO; REGIA: Antonello Faretta; genere: drammatico; anno: 2016; paese: Italia; cast: Pia Marie Mann, Joe Capalbo, Caterina Pontrandolfo, Luciana Paolicelli; durata: 90′

Nelle sale italiane dal 15 aprile, Montedoro è l’opera prima del regista Antonello Faretta.

Una donna americana viene a conoscenza delle sue origini soltanto dopo la morte dei genitori. Al fine di scoprire di più sul suo passato, parte alla volta di Montedoro, il piccolo paese della Lucania che le ha dato i natali. Una volta giunta a destinazione, però, scoprirà che Montedoro stesso è diventato un villaggio fantasma, abbandonato, anni prima, dai suoi abitanti.

MontedoroIl lungometraggio di Faretta nasce da un’esperienza che il regista stesso ha vissuto: l’incontro con una donna americana (Pia Marie Mann, appunto, che nel film interpreta il ruolo della protagonista) che, giunta in Lucania per visitare il paese del genitori, ha scoperto che il villaggio in cui è nata è, ormai, disabitato da tempo. La memoria, la ricerca di sé e delle proprie origini, oltre ad un certo senso di spaesamento sono, dunque, i grandi protagonisti di Montedoro.

Antonello Faretta, cineasta e videoartista con un’importante esperienza alle spalle, ha dato prova, qui, di un grande talento registico, dimostrando di saper gestire alla perfezione lo spazio e dando alla narrazione il giusto ritmo per comunicare allo spettatore quella lentezza, quel senso di calma e, allo stesso tempo, di inquietudine dato da un luogo che ha visto il susseguirsi di tante generazioni, ma del quale,ormai, è rimasto solo lo scheletro. Particolarmente notevoli sono, a tal proposito, le inquadrature che ci mostrano il bellissimo paesaggio lucano, oltre al paese di Craco, dove la storia è ambientata. Immagini poetiche e contemplative che hanno in sé un che di mistico, che da un lato affascina, mentre dall’altro fa quasi paura.

montedoro_0011Gli elementi che meno convincono in Montedoro sono, in realtà, l’eccesso di dialoghi – sempre rischiosi da gestire in ambito cinematografico – ed il fatto che il film in sé si trova a metà strada tra il documentario e l’onirico, senza, però, trovare una sua precisa collocazione. Probabilmente, con delle scelte più estreme in merito, il risultato sarebbe stato senz’altro più convincente. Detto questo, comunque, ci troviamo di fronte ad un prodotto assolutamente singolare, sentito ed onesto. Caratteristiche, queste, rare da trovare oggigiorno, soprattutto nell’ambito della grande distribuzione.

Ultima considerazione: l’idea di inserire all’interno della narrazione – soprattutto durante gli ultimi minuti del film – immagini di repertorio risalenti agli inizi del secolo, si è rivelata decisamente vincente.

VOTO: 6/10

Marina Pavido